Rosselli: Dopo il dono di Dio
Su gentile concessione di Carocci editore, pubblichiamo la premessa di Stefano Giovannuzzi al volume Rosselli: Dopo il dono di Dio.
Premessa. Perché questo testo, allora e oggi
Dopo il dono di Dio compare in Variazioni Belliche (1964) – nella seconda e più ampia delle due sezioni, Variazioni –, ed è uno dei testi esemplari della tensione progettuale a creare una forma nuova per la poesia che, nel passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta, caratterizza gli esordi di Amelia Rosselli. Opera prima edita, Variazioni Belliche è anticipato su “Il menabò di letteratura” numero 6, del 1963, da Ventiquattro poesie, a cura di Pier Paolo Pasolini: della scelta fa parte anche Dopo il dono di Dio.
Per certi aspetti la raccolta del 1964 è un punto di approdo dettato dalle circostanze. La stagione di ricerca che prende avvio almeno dagli inizi degli anni Cinquanta (My Clothes to the Wind, 1952; allo stesso periodo risalgono le due Phantasies) non è prevalentemente in lingua italiana e nemmeno esclusivamente letteraria: basti ricordare la sperimentazione e i saggi musicali, che rappresentano il vero polo di attrazione. Non costituisce un fatto di poco conto che in questi stessi anni Rosselli cerchi uno sbocco editoriale, e non solo in Italia, per una produzione multilingue che copre quasi un decennio, dove l’italiano risulta decisamente minoritario rispetto al francese e all’inglese:
Non hai una sola lingua d’origine. Come hai risolto il problema scrivendo?
Tra i venti e i trenta anni scrivendo in varie lingue e stili: la risoluzione per l’italiano è avvenuta solo nel ’58. E tuttavia mi impongo un ordine linguistico come disciplina del cervello. Non mi interessa infatti l’opera multilinguistica che da Pound è di moda. Da un anno leggo soltanto inglesi per esempio: soprattutto Eliot, Dylan Thomas e Iris Murdoch (Rosselli, 2010, p. 15).
Così in un’intervista con Gabriella Sica del 1977. Anche se indubbiamente dal 1958 il peso della scrittura in italiano si accresce, non è una svolta di scarso rilievo che con Variazioni Belliche Rosselli faccia il suo ingresso sulla scena pubblica, e con un editore di prestigio qual è Garzanti, come poetessa, e poetessa in lingua italiana. Si tratta di un salto di qualità decisivo, che negli anni a venire determina molto nettamente la vicenda editoriale prima che creativa della sua opera: in realtà la stesura delle poesie in inglese di Sleep prosegue fino alla metà degli anni Sessanta, e i tentativi di pubblicazione per l’intero decennio. Tutti fallimentari: con effetti evidenti sull’immagine dell’opera di Rosselli. Per quanto non sia la definitiva «risoluzione per l’italiano», il libro d’esordio è dunque un libro cruciale e lo è anche in rapporto al contesto storico e culturale degli anni in cui vede la luce. Dopo vari tentativi con altre case editrici, la pubblicazione di Variazioni Belliche va in porto con Garzanti grazie alla mediazione di Pier Paolo Pasolini (e Attilio Bertolucci). A una sollecitazione di Pasolini si deve anche la stesura di Spazi Metrici, l’appendice teorica aggiunta, ma solo a posteriori, alle due sezioni – Poesie e Variazioni – del libro. Di fatto un “allegato” nello stile di “Officina”.
Il patrocinio di Pasolini non è neutro, è anzi molto ingombrante, perché proietta il libro e la sua autrice – con una formazione del tutto estranea alle poetiche e agli schieramenti che contrassegnano la cultura letteraria italiana – nel dibattito (e nello scontro) che si sta producendo intorno al Gruppo 63, specie dopo la sua costituzione ufficiale nell’ottobre 1963. Sponsorizzato da Pasolini per un editore lontano dall’avanguardia come Garzanti, Variazioni Belliche doveva essere la testimonianza di una via sperimentale che Pasolini stesso stava puntando a promuovere dalla fine degli anni Cinquanta, non coincidente con i paradigmi ideologici del Gruppo 63. La lettura della prima raccolta è spesso viziata da questa polarizzazione. Ci si interroga ancora se Amelia Rosselli sia stata o meno organica all’avanguardia (Loreto, 2014), malgrado in una lettera del 26 aprile 1963, a cantieri di Variazioni Belliche ancora aperti, scriva al fratello John: «His reasons seemed sound, but I also know that the internal “beghe” are ferocious among writers, and am forced to take sides, though feeling fundamentally indifferent about them» («Le sue ragioni mi sono sembrate valide, ma so anche che le “beghe” interne sono feroci tra gli scrittori, e sono costretta a prendere posizione, benché mi senta fondamentalmente indifferente», Rosselli, 2012, p. lxxxvi). Le «reasons» a cui si allude sono di Pasolini, ma il discorso acquista un valore generale. Come sta stretta dentro l’interpretazione che ne propone quest’ultimo, Rosselli non è organica al Gruppo 63 (o ad altri gruppi), anche se partecipa a più di un convegno annuale, a cominciare dal primo. Con un atteggiamento critico – in Serie Ospedaliera le 5 poesie per una poetica attestano un esplicito disaccordo –, non però di pregiudiziale ostilità, da autentica outsider: basti ricordare che Nanni Balestrini è fra gli esponenti dell’avanguardia che interpella per suggerimenti editoriali. Variazioni Belliche rappresenta un libro anomalo, non il prodotto di una scuola o di un gruppo; e tuttavia proiettato sul crocevia di ragioni storiche e letterarie che si intersecano nel passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta, conferma i profondi mutamenti che intervengono nella poesia del secondo dopoguerra. Testimonia soprattutto la ricerca di una via autonoma d’espressione, in una lingua a cui Rosselli accede come lingua minore (Deleuze, Guattari, 2010), reinventandone storia e modelli: le sue radici non affondano più nel patrimonio condiviso di una cultura italocentrica, e spesso attingono al di fuori della letteratura. Il ruolo dell’I Ching (o I King nell’edizione usata da Rosselli; Wilhelm, 1950), ad esempio, risulta centrale in Variazioni Belliche. Si tratta di uno spostamento significativo, che non riguarda solo la nostra scrittrice – Edoardo Sanguineti fin da Laborintus e poi l’avanguardia compiono operazioni per molti versi analoghe –, e che interessa con sempre maggior ampiezza la scena della poesia italiana recente, determinando la crisi dei modelli tradizionali e un cambio di orizzonte di vaste proporzioni: Rosselli, con la sua formazione deterritorializzata, si muove senz’altro in quest’alveo. Se i suoi testi, come quelli di altri suoi contemporanei, non si collocano più facilmente all’interno di una tradizione continua, applicare i protocolli dell’intertestualità alla loro comprensione non funziona o funziona solo parzialmente, con le inevitabili difficoltà di lettura che ne derivano.
D’altra parte, Variazioni Belliche resta un libro unico nella carriera poetica di Rosselli. Non che i successivi siano libri di scarso rilievo: Documento (1976) in modo particolare, oltre che una tappa fondamentale della sua storia, rappresenta una delle opere che consentono di mettere meglio a fuoco la difficoltà di rapporto fra poesia e società al crocevia fra anni Sessanta e Settanta, con i movimenti sociali e culturali che caratterizzano questo periodo. Dopo la prima raccolta però si allenta – e diventa residuale già in Serie Ospedaliera – la tensione a mettere a punto una forma chiusa e tuttavia moderna, razionalmente fondata, che è forse il tratto più sconcertante ma innovativo introdotto da Rosselli nella poesia italiana recente, non solo degli anni Sessanta; in controtendenza rispetto al “versoliberismo” prevalente di larga parte del Novecento o al recupero, più o meno rivisitato, di forme metriche tradizionali. Non che venga meno la ricerca sperimentale, ma la forma metrica di Serie Ospedaliera conserva l’impianto del verso, non più della strofe; e a proposito di Documento Rosselli (2012, p. 1364) è costretta a parlare di «verso […] sfracellato» per mantenere una qualche linea di continuità, mentre per l’organizzazione strofica elabora complicate strategie di rapporti numerologici (Giovannuzzi, 2016).
Anche in questo caso l’asse della ricerca poetica si colloca al di fuori delle coordinate in cui la poesia del Novecento si è mossa, a prima vista allineata o comunque molto prossima alle sperimentazioni verbovisuali della poesia concreta. A prima vista, perché il background da cui muove Rosselli non è più esclusivamente quello della cultura letteraria e visiva e delle loro intersezioni. Al di là del rilievo che assume la formazione musicale come modello di riferimento sperimentale, a cui la letteratura si può accostare per analogia, si avverte la volontà ferma di spostare le premesse della scrittura poetica al di fuori dei paradigmi e delle categorie del pensiero occidentale, o comunque di sottrarsi alla loro univocità totalitaria, come affiora chiaramente in Spazi Metrici: «traducevo il rullo cinese – così Rosselli traduce chinese scroll, “rotolo cinese” – in delirante corso di pensiero occidentale» (Rosselli, 2012, p. 185). Ciò che a prima vista può sembrare una provocazione astratta – che cosa vorrà dire il “rotolo cinese” che appare come un delirio, se tradotto nelle forme del pensiero occidentale? – è il modo per ricomporre una visione del mondo che non sta più entro coordinate logico-razionali. Non rappresenta soltanto l’emersione dell’inconscio – come pure Spazi Metrici afferma –, segna piuttosto la rottura dei confini rispetto alle pratiche abituali del linguaggio e il definirsi di una prospettiva altra sul mondo. Certo, nella scrittura continua che caratterizza Variazioni Belliche – e in particolare la sezione Variazioni –, legando le poesie in un flusso ininterrotto, è molto difficile definire l’unicità e l’esemplarità del singolo testo, ma Dopo il dono di Dio è uno di quelli che hanno reso meglio riconoscibili e memorabili, fin dalla comparsa della raccolta, le strategie ritmico-formali del primo libro di Rosselli; e resta uno dei testi chiave per penetrare negli strati più profondi della sua poesia e nelle motivazioni che la generano.
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