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diretto da Romano Luperini

La scuola delle differenze non è differenziata. Salvare l’istruzione dal destino della sanità

Più di quanto ci sia mai piaciuto ammettere, però, l’idea di muovere verso un sistema sanitario egualitario e uniforme sull’intero territorio nazionale non è mai andata giù a tutti. Per molti, sottrarre la salute al mercato è sempre stata una scelta politica problematica, come l’idea stessa che esista un diritto universale alla salute.

Francesca Coin, “Le grandi dimissioni”, pag. 138

Il campo di analisi

Fra i saggi sul lavoro usciti negli ultimi mesi occupa un posto di rilievo la riflessione di Francesca Coin, nel libro “Le grandi dimissioni”. La studiosa intreccia in maniera efficace gli strumenti della sociologia con l’attenzione alla psicologia e al vissuto delle persone, che emergono nei frequenti inserti di interviste e testimonianze. Traccia un quadro chiaro sia dell’abbandono e del rifiuto volontario del lavoro, fenomeno che si diffonde a macchia d’olio in tutti i Paesi che si definiscono “avanzati”, sia dei suoi risvolti etici e culturali: da una parte, quindi, la resistenza sempre più forte a forme nemmeno troppo dissimulate di sfruttamento quasi schiavistico e di oppressione delle lavoratrici e dei lavoratori; dall’altra, la lotta delle persone che lavorano per salvaguardare la propria salute e tornare padrone del proprio tempo e della propria vita.

Se un bene pubblico diviene un’azienda privata

Nello studio di Coin, impressiona particolarmente il capitolo sulla sanità italiana (“Il tempo di respirare: la fuga dalla sanità pubblica”, pagg. 114/ 168), da cui sono tratte le parole citate all’inizio di quest’articolo.

Del processo di evoluzione che il Servizio Sanitario Nazionale ha attraversato negli ultimi trent’anni, la studiosa evidenzia alcuni tratti salienti.

In primo luogo la dialettica sempre più conflittuale fra servizio pubblico e aziendalizzazione, introdotta programmaticamente quando le “unità sanitarie” vennero ribattezzate “aziende”, per essere sottoposte a logiche di produzione e di profitto tipiche del privato, anziché dedicate a assicurare servizi collettivi e sociali tramite l’attuazione concreta di principi e ideali egualitari, non economici.

A questo passaggio, ha dato un contributo determinante il peso crescente attribuito agli individui singoli, invece che alla comunità nel suo insieme. Nell’ottica di chi usufruisce del servizio, questo ha significato la definizione del suo ruolo come quello di un “cliente” (oggi va di moda “stakeholder”, “portatore di interesse”). Nella prospettiva di chi eroga il servizio, ha significato un progressivo appesantimento della responsabilità personale (di medici e infermieri), a scapito della responsabilità dell’istituzione. In questo modo, le carenze istituzionali sono state scaricate su chi lavora. Complice molto spesso la rassegnazione (fino alla colpevole distrazione) delle persone implicate in questo processo, si è affermata una retorica missionaria del lavoro, un senso di altruismo malato e autolesionistico, che è stato però efficace nel debellare i suoi nemici: la solidarietà e l’unione fra chi lavora, la consapevolezza e l’azione politica per contrastare l’ondata di individualismo. Simili premesse hanno reso possibili situazioni che in altri tempi sarebbero apparse del tutto inverosimili. Ne è esempio eclatante il numero di giorni di ferie non godute con cui va in pensione il personale della sanità pubblica (300 per un medico, 350 per un infermiere). Ne è conseguenza diretta la scelta di tante persone giovani di optare per il privato, dove esistono meno garanzie ma si lavora meno e per una paga più alta.

Queste trasformazioni così pervasive (e subdole) sono state accompagnate e rese possibili da un progressivo spostamento dalle istanze etiche di relazione e di cura, alla base dell’idea originaria di “sanità pubblica”, alle logiche di organizzazione e efficienza, caratteristiche della nuova sanità ibrida, pubblica negli scopi dichiarati ma privata nella gestione e nella rendicontazione sociale. Ivi compresi i trucchi contabili, per cui l’assunzione regolare di un medico ospedaliero rientra fra i costi per il personale (con vincoli strettissimi), mentre l’assunzione di un gettonista privato viene pagata con altre voci di bilancio (sostanzialmente senza vincolo di spesa).

Contro la retorica dell’autonomia, del territorio, dell’efficienza

Oggi, questa retorica costruita intorno a parole e espressioni come “efficienza”, “autonomia”, “vicinanza al territorio” investe la scuola, e permea di sé il progetto politico di autonomia differenziata.

Al contrario di quel che avvenne nella prima stagione del passaggio dalla sanità pubblica a quella aziendalizzata, possiamo però ragionare sulla base dell’esperienza: utilizzare quindi l’esempio delle trasformazioni nella sanità come cartina di tornasole per immaginare il futuro di una scuola che non presenti più i suoi tratti (per quanto fortemente indeboliti da una lunga stagione di tagli e boicottaggi) di “unicità” e “unità” nazionale. Ѐ un tema cruciale, sul quale l’attenzione nel dibattito pubblico mi sembra insufficiente, anche nel mondo della scuola. Vorrei qui proporne una prima sommaria lettura, individuando alcuni ambiti a partire dai quali disegnare gli scenari a venire, e offrirli a chi legge per discuterne e approfondirne l’analisi

Il sistema di istruzione nazionale, nel quale lavoriamo, potrebbe infatti essere in tempi relativamente brevi “regionalizzato”: “autonomia differenziata” vuol dire infatti che la scuola, come altre 22 materie, sarebbe oggetto di accordi Stato-Regioni, con ampia libertà decisionale per queste ultime.

Ne sarebbero investiti prima di tutto i processi di formazione di identità e del senso di appartenenza civile, che si attuano ogni giorno dentro le classi in ogni tipo e ordine di scuole in Italia. Il riferimento ideale e valoriale non sarebbe più dato dall’orizzonte alto e giustamente utopistico del dettato costituzionale, bensì dalle esigenze locali e dalle istanze produttive delle piccole patrie, riferimenti forti di chi ha promosso e sponsorizza questo disegno di legge. In termini concreti, possiamo ad esempio pensare al sistema d’istruzione di uno Stato federale come gli USA, in cui l’insegnamento del creazionismo come teoria scientifica, al pari della teoria evolutiva, è imposto per legge in due Stati e indirettamente sponsorizzato in molti altri, nei quali le scuole private che lo insegnano ricevono ingenti finanziamenti dallo Stato centrale.

In secondo luogo, da una riforma di questo genere uscirebbero rafforzate proprio le differenze e le disuguaglianze, per combattere le quali si formò, lungo gli ultimi 150 anni, l’idea di istruzione pubblica e fu definito il modello della Costituzione e delle riforme che ne ampliavano la portata e le ambizioni. Non va dimenticato, infatti, che sullo sfondo di questi progetti politici c’è l’idea di mantenere la fiscalità prodotta da un territorio sul territorio stesso, in contrasto con i valori di equità e perequazione che animano gli articoli della Costituzione. Un processo, peraltro, già avanzato sul piano della fiscalità generale, se è vero che nel 1974, per assicurare la progressività e l’equità nel prelievo fiscale esistevano 32 aliquote; mentre oggi, ad esempio, si spaccia per moderna e giusta l’idea che chi guadagna 28.000 euro sia soggetto allo stesso prelievo di chi guadagna quasi il doppio (fino a 50.000 euro). Un simile sistema creerebbe, più di quanto già non accada, scuole ricche e scuole povere, sia nel confronto fra le diverse regioni italiane, sia all’interno di ciascuna singola regione.

Infine, in una direzione perfettamente coerente con le politiche di “disintermediazione” che caratterizzano le scelte e i comportamenti dei diversi Ministeri dell’Istruzione negli ultimi anni, si svuoterebbe di significato e di valore lo strumento principale, per quanto imperfetto, che consente ancora oggi di lottare per l’equità e l’uguaglianza fra chi lavora a diverso titolo nella comunità scolastica: il contratto nazionale di lavoro. Ad esso si affiancherebbero, fino a cancellarne il valore pratico, altri accordi locali e specifici, che ovviamente potrebbero incidere su materie delicate e gravide di conseguenze sulle vite delle centinaia di persone che vivono e lavorano nelle comunità scolastiche, o che studiano per entrare a farne parte. Penso al tema del reclutamento e della gestione (mobilità, trasferimenti) del personale, docente e non docente. Accordi che, come insegna la realtà della Formazione Professionale, si giocano sempre e comunque al ribasso, nella competizione fra lavoratori che indebolisce le loro istanze.

Le differenze non sono tutte uguali

Esattamente come accade nella sanità, la scuola dell’autonomia differenziata assumerebbe le differenze – sociali, economiche – per rafforzarle, non per cercare di rimuoverle.

Come ogni giorno sperimentiamo in aula, l’istruzione agisce in un contesto di profonde disuguaglianze, a diversi livelli. Talvolta, soprattutto nelle dinamiche interne ai piccoli gruppi, come una classe, capita che riesca a rovesciare i destini individuali e rendere possibile qualcosa che sembrerebbe impossibile. Più spesso, nel contesto di abbandono in cui agisce, la scuola ribadisce e registra le distanze: quelle fra centro e periferia, quelle fra aree geografiche, quelle fra scuole più e meno “nobili”. Venendo meno ai compiti che la Costituzione le assegna; non senza complicità da parte di tante persone che ci lavorano, anche troppo disposte ad abbracciare logiche di individualismo, competizione, privilegio. Tuttavia, con tutte le sue debolezze, la scuola resta ancora spesso luogo di inclusione e promozione di uguaglianza.

Resta tale anche in virtù della sua capacità di insegnare che nell’ambito culturale e psicologico la differenza è un valore, e che riconoscerla e rispettarla è parte essenziale del cammino verso un mondo in cui l’altro sia percepito come risorsa e arricchimento, non come rivale o nemico. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, allora, è una scuola autonoma regionale fatta di microidentità locali (perché poi fermarsi a livello regionale, se nelle diverse regioni esistono robuste dimensioni campanilistiche?). Abbiamo bisogno, e le vicende tragiche delle guerre in corso lo dimostrano oltre ogni ragionevole dubbio, di imparare e essere cittadini e cittadine del mondo, in grado di partire dalle differenze per trovare ciò che ci unisce.

Ammantandosi di parole e espressioni alla moda – personalizzazione, individualizzazione, richieste del territorio, alleanza per il lavoro, orientamento – le scelte politiche e il coro di intellettuali servili cercano invece di condurci all’unica formazione che interessa a loro: quella di ingranaggi obbedienti, ignari dei bisogni collettivi, concentrati su sé stessi e sul piccolo mondo che li circonda.

Per quello grande e vero, ci sarà sempre la realtà virtuale.

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