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diretto da Romano Luperini

Aumentare la dose. Su La vita intensa di Tristan Garcia

La «vita intensa» di cui scrive Tristan Garcia (La vita intensa. Un’ossessione moderna, trad. it. Raffaele Alberto Ventura, Nottetempo, 2022) non è semplicemente una vita emotivamente piena, all’insegna della “ricerca della felicità”, né una vita spericolata e ribelle. Può essere declinata anche in queste forme, certo, ma non si esaurisce in nessuna di esse. La vita intensa è il fondale della modernità, è la nostra ontologia implicita – da questa ontologia abbiamo dedotto una gnoseologia, una politica e un’estetica “intense” –, è l’«orizzonte insuperabile dei nostri valori, fissato ormai da qualche secolo, principio segreto dei nostri giudizi, nostro immenso e invisibile a priori» (p. 24). Vale per la vita intensa la stessa domanda che da qualche decennio ci facciamo intorno alla condizione moderna: esiste un altro stadio dopo di essa? Garcia suggerisce che se siamo in grado di concettualizzarla, ciò significa che ne siamo ormai, almeno in parte, fuori. Ma in effetti il suo saggio oscilla tra l’idea che la nostra esistenza futura supererà l’idolatria che le abbiamo a lungo tributato e la difficoltà a lasciarsela davvero alle spalle, proprio come capita con il nodo inestricabile della modernità.

L’elettricità come mitologema

La fortuna dell’intensità nella vita moderna deve molto alla scoperta dell’elettricità, che ha reso percepibile, in forma di immagine alla portata di tutti, un mutamento della nostra condizione storica che dipende da meno immediate trasformazioni sociali e culturali. Garcia mescola storia della filosofia, storia della scienza e storia del costume e ricostruisce l’effetto dirompente di quella scoperta, a partire dalle rane di Galvani e dalle pile di Volta, ma dando largo spazio soprattutto al suo impatto sulla vita mondana e quindi sull’immaginario diffuso. È il caso della Venere elettrificata di Lipsia della seconda metà del Settecento, un manichino percorso dalla corrente che il suo inventore invitava a baciare, per ottenerne una scarica ‘d’amore’ che lasciava stupefatti i nobili dei salotti.

L’elettricità è un’intensità che percorre ed “elettrizza” quella materia che il meccanicismo newtoniano aveva ridotto a ente inerte ed uniforme, su cui agiscono forze fisiche misurabili. Essa aveva il vantaggio di essere una forza naturale, scientificamente accettabilissima, ma di conservare, in quanto flusso non segmentabile, il fascino della potenza mitica, selvaggia, irriducibile. Perciò, oltre ad essere la forma di energia da cui è dipeso quasi tutto il successivo progresso tecnologico, essa è diventata la metafora eponima dell’epoca della ragione illuministica e del nuovo uomo prometeico: si pensi al Frankenstein di Mary Shelley o a quel capitolo di Momenti fatali di Stefan Zweig, in cui si racconta l’eccitazione collettiva e il senso di onnipotenza che la posa del primo cavo transatlantico del telegrafo riuscì a generare a metà dell’Ottocento.

L’intensità: una non-grandezza fisica

L’immagine dell’elettricità viene quindi mescolata e confusa con quella dell’intensità, una quantità-non quantità che ha sempre dato qualche grattacapo alla speculazione filosofica. L’essere umano è in grado di cogliere intuitivamente la variazione d’intensità di un fenomeno, ad esempio l’aumentare o lo scemare della luce all’alba o al tramonto. Se però proviamo a definire o misurare tale variazione, veniamo messi di fronte a difficoltà strumentali e aporie concettuali: la luce di dieci minuti fa è la stessa luce di ora, mutata soltanto in una sua qualità accessoria, o è un’altra luce affatto, un’entità nuova, una differente identità?

Se nella metafisica antica e poi medievale l’intensità era concettualizzata come una qualità (in senso aristotelico), con la scienza moderna anch’essa ha dovuto necessariamente essere ricondotta a una grandezza misurabile. Ma gli effetti filosofici e culturali di quella che veniva ancora immaginata come una forza indomabile non poterono essere arrestati dalla reductio scientifica. L’intensità rappresenta una «fortezza che oppone resistenza» (p. 61) all’obiettivazione scientifica dell’oggetto, alla matematizzazione del reale, alla razionalizzazione della vita sociale, all’equalizzazione di ogni cosa in forma di merce e di prezzo (il denaro come equivalente universale di Marx) e reinveste la realtà di ragioni e passioni (le illusioni leopardiane, per intendersi).

Altri tre aspetti caratteristici della modernità, come la preferenza accordata all’immanenza, l’individualismo e la fede nel progresso, sono riconducibili alla messa in valore dell’intensità. Se non c’è aldilà, se nessuna trascendenza fornisce un modello di assolutezza, perfezione, eternità, verso cui orientare la nostra contingenza imperfetta e transeunte, è pur sempre possibile «pretendere sempre di più della stessa cosa», impegnarsi in una «massimizzazione dell’intero nostro essere» (p. 13), ovvero considerare l’intensificazione del qui ed ora l’obiettivo da perseguire. La vita intensa è poi «il sentimento di vivere una vita che non sia quella di chiunque altro. La consapevolezza, anche fugace, che io sono effettivamente il soggetto di quello che vivo» (p. 15): una consapevolezza incomunicabile nella sua più profonda essenza, insieme misteriosa ed evidente, ma che appartiene solo a me e mi distingue, sottraendomi all’universale processo di demitizzazione del reale. Infine, il progresso inteso come crescita lineare è interpretabile come un incremento d’intensità: sempre oltre, sempre più (tecnologia, benessere, piacere, libertà, …).

Intensificare il qui ed ora

La vita intensa sembra essere in effetti un unicum storico, profondamente diverso da più tradizionali concezioni dell’esistenza: tanto da quelle fondate, come si è detto, sul trascendimento dell’imperfezione umana verso l’assoluto (l’eternità religiosa, la gloria greco-latina, la metempsicosi), quanto da quelle fondate sull’estinzione di tutte le intensità (l’atarassia classica, il nirvana buddista, ogni forma di illuminazione, ascesi, vita santa).

La vita intensa tenta la scommessa sovrumana della completa autosufficienza, della deduzione di ogni valore solo da se stessa, della ricerca di un fondamento che fondamento propriamente non sia, ma sua costante transvalutazione. L’uomo intenso non confronta le proprie percezioni con le idee e le sostanza imperiture, come facevano l’uomo antico e medievale, né ambisce ad adeguare la propria esistenza singolare a un ideale normativo, terreno o ultraterreno che sia. Nella sua radicale immanenza, considera ogni cosa e persona già al proprio posto, giustificata in sé, e vuole potenziarne le possibilità espressive, rendendola più intensamente se stessa.

La vita intensa ha perciò un carattere di instabilità e tensione, diciamo pure che è una forma di nevrastenia. Essa detesta la normalità, la consuetudine, la burocratizzazione dell’esistenza, la noia, la tradizione, la ripetizione (salvo che in quest’ultima non riesca a trovare una sorta di ipnotica intensificazione); al contrario ama la variazione (la novità, l’originalità), ama l’accelerazione temporale (perché, se il passato è ormai morto, il presente è già dato ed occorre sottoporlo a una tensione che anticipi il futuro), ama le ‘prime volte’, quando l’esperienza è più intensa (Garcia chiama questo sentimento «primaverismo» ed è un amore un po’ paradossale, perché venato di nostalgia).

Estetica e politica

La pertinenza in campo estetico e politico della tesi di Garcia è intuitiva. Agli occhi degli uomini intensi, l’opera aere perennius e il marmo che soggiogavano gli antichi sono noiosi; in effetti l’eternità del classicismo difetta di vita ed esige un riconoscimento di forme non create dal soggetto, che si sentirebbe “deintensificato” da questa richiesta d’ordine. E se è scontato notare come le teorie e le prassi dell’avanguardismo artistico siano effettivamente fondate sul valore dell’intensità, lo è meno osservare come ciò valga anche per l’anti-normativismo e anti-contenutismo dell’estetica prevalente nel secolo scorso. Un’opera d’arte non è bella perché rispetti canoni di bellezza universali o garantiti dalla tradizione, né perché si adegui alla realtà, ma perché sa creare i propri stessi criteri di giudizio originali ed esprimersi, a partire da essi, al massimo grado di possibilità: anche l’opera del modernismo è chiamata ad essere intensamente se stessa. Persino il postmodernismo può essere interpretato come uno stratagemma per deroutinizzare la modernità e le sue scoperte, cercando di rendere eccitante, intenso, il riuso di esperienze ormai logore. Il culto del primaverismo, da parte sua, spiega bene l’amore dell’art brut e del primitivo da parte delle avanguardie e, al livello della cultura di massa, la feticizzazione dell’adolescenza e i revival estetici.

Dal punto di vista politico, l’intensità è ancipite. Non c’è dubbio che la ricerca spasmodica della novità la renda un valore “progressivo”, ma, come è noto, la polemica contro il passato e la distruzione delle sue forme può provenire da sinistra come da destra. Il ‘sempre di più e più avanti’ della vita intensa può essere ed è stato rivoluzionario. Il borghese odiato dal socialismo e il filisteo odiato dall’artista moderno sono la quintessenza dell’uomo non-intenso: conformista, mediocre, materialista, gretto, utilitarista.

Ma le implicazioni politiche del discorso di Garcia sono interessanti soprattutto in relazione a due parametri: il rapporto tra distinzione aristocratica e democratizzazione, il tema del consumismo e della merce. L’intensità estetizzante che distingueva dal grigiore dell’uomo qualunque, reazione décadent ai fenomeni di massificazione, oggi lascia il passo a un pluralismo orizzontale di intensità tutte egualmente lecite e a disposizione di tutti. Dal momento che l’intensità è una maniera, un modo di essere delle persone e delle esperienze, e non un qualche contenuto morale, essa può essere ricercata in un’infinita serie di attività: sportive, intellettuali, sessuali, psicotrope, religiose.

È facile immaginare come l’intensità possa significare edonismo e consumismo: il piccolo borghese che tutti siamo cerca ormai delle intensità esperibili in forma di spettacolo dalla comoda postazione del proprio divano. Ma anche le forme di anti-materialismo, pur con mezzi diversi, perseguono lo stesso fine di una vita più autenticamente ‘vita’ delle altre: dalle vibes degli hippies e dei rastafariani ai sacri fuochi poetici, dagli stili di vita ‘alternativi’ alle reazioni anti-tecnologiche.

Pure se ciò significa correre il rischio di dilatare i confini del concetto al punto da indebolirne la forza esplicativa, Garcia osserva che persino fenomeni come la devianza giovanile o il terrorismo siano di preferenza interpretati come forme di vita inautentica e distorta, fallimenti nella ricerca doverosa da parte di ciascuno di noi di un’esistenza piena e soddisfatta di sé.

Inoltre, essendo un ideale ormai “debole”, alquanto elastico e adattabile, l’intensità può anche accogliere il suo contrario. Si può cioè valorizzare in quanto intenso ciò che è piatto, neutrale, depresso, purché si riesca a restituire quella piattezza, neutralità, depressività con una forza inattesa, in forma «intensamente debole», come, secondo Garcia, fa Houellebecq nei propri romanzi.

Il fallimento dell’intensità

L’intensità resta in fondo un paradosso: moltiplicandola la si divide, addizionandola la si sottrae, variandola la si rende uniforme. Questa sua “nevrastenia” è tanto la sua qualità quanto la sua condanna. Il peggior nemico dell’intensità è infatti l’abitudine. Essa assomiglia alla dipendenza: per garantirsene l’effetto e superare l’assuefazione, occorre necessariamente “aumentarne la dose”. Gli eccessi prestazionali della nostra società, nello sport come sul lavoro, l’uso di steroidi e della cocaina, l’autolesionismo, sono tutti rilanci del desiderio di sentirsi vivere oltre la semplice constatazione di esserlo. Naturalmente altrettanto patologico è il correlato dell’intensità: la depressione. Garcia parla di una sorta di isterizzazione del sentimento d’intensità, che si rovescia nel proprio contrario, e in questo la sua diagnosi è identica a quella del Byung-Chul Han de La società della stanchezza.

Il difficile equilibrio della vita intensa si gioca allora sempre su questo crinale: come garantire alla vita, imprendibile e indefinibile, di potersi abbandonare liberamente alle proprie intensità, senza finire nell’assuefazione e nella nevrosi da rilancio infinito; come garantire al pensiero, che ha bisogno necessariamente di “fissare” la vita in concetti e in stati, il proprio diritto a comprendere la vita, senza che questo possa più pretendere di fornirle modelli morali prescrittivi o salvezze ultraterrene. Le ultime pagine del saggio sono dedicate a questa difficile pars construens. Lascio al lettore il valutare se essa sia o no persuasiva.

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