I fatti di Abbiategrasso e un bagno di umiltà per Valditara
I fatti di Abbiategrasso sono ormai noti alle cronache nazionali, tanto da poterne proporre una lettura ragionata di ordine generale. Un sedicenne di un istituto superiore, già segnalato per alcuni atti di “indisciplina” – insieme ad altri compagni – relativi all’insegnante di italiano e storia, l’ha aggredita in maniera premeditata con un coltello lungo 30 centimetri, che ha introdotto di nascosto a scuola nello zaino insieme a una pistola a piombini a gas (definita impropriamente «giocattolo» perché in grado di offendere). Sembra che il ragazzo avesse un buon rendimento scolastico, ma rischiasse un debito nelle materie della docente e soprattutto il 5 in condotta che comporta il rischio di una bocciatura. L’insegnante l’ha invitato alla fine di una prova di italiano ad una interrogazione di recupero in storia, dato che siamo alla fine dell’anno scolastico. Tale sequenza di azioni pare abbia scatenato la reazione violenta: il ragazzo si è rifiutato, si è rivolto ai compagni di classe, con cui sembra riuscisse a socializzare poco, dicendo «mi dispiace»; poi ha aggredito l’insegnante con il coltello nel modo più odioso, alle spalle, procurandole ferite all’avambraccio e al collo. Si è fermato solo quando la donna è riuscita a fuggire. Uno dei compagni testimoni oculari ha dichiarato: mentre colpiva la docente «sembrava non avere emozioni». Nessuno dei compagni di classe si è mosso. L’aggressore li ha invitati a lasciare l’aula minacciandoli con la pistola. La polizia l’ha trovato solo in classe con la testa tra le mani e le armi sul banco. Pare si sia auto-inferto alcune ferite. È stato arrestato senza opporre alcuna resistenza. È stato accompagnato in un imprecisato «reparto di neuro-psichiatria». Scrivo “imprecisato” perché è un settore molto sguarnito della rete dei servizi sanitari italiani. I servizi neuropsichiatrici dell’area dell’infanzia hanno di solito una competenza fino ai ragazzi di 14 anni e quella dei servizi psichiatrici ospedalieri degli adulti (i cosiddetti «Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura») comincia a 18 anni. Eppure a quest’età esordiscono tutti i disturbi psichici dell’età adulta. Ma non voglio fare un esame “psichiatrico” del caso, cosa impropria in una situazione in cui non si ha conoscenza diretta della persona di cui stiamo parlando. Del resto il giudice ne ha stabilito il trasferimento in carcere, dove per altro la situazione non è affatto migliore. Il ragazzo non ha saputo spiegare il suo gesto, né sembra pentito. Nel caso provvederanno i periti.
Non compare sulla scena la famiglia, di solito la grande assente. A detta dell’insegnante non si è sentita neppure in dovere di scusarsi con lei. Sappiamo solo che si tratta di «una famiglia bene». Aveva ricevuto la convocazione dal dirigente scolastico per il giorno dopo il fatto, forse in maniera tardiva visti i molteplici segnali precedenti. La scarna precisazione esclude ambienti sociali di degrado o di emarginazione. Il padre ha dichiarato nell’immediatezza dei fatti di non sapere niente delle note disciplinari del figlio e poi di non sapere come curarlo. Ciò interpella più a fondo le nostre coscienze di “bravi” cittadini, che pagano le tasse e rispettano le leggi e le regole della convivenza civile, fino a prova contraria. Sappiamo le condizioni di crisi della famiglia, denunciata da più parti tanto che esiste un ministero specifico che se ne dovrebbe interessare, secondo la retorica neo-conservatrice dell’attuale governo della destra. Basti un dato: dal punto di vista epidemiologico, circa il 40% delle famiglie delle grandi città è fatta di nuclei uni-personali o mono-parentali, che, traducendo il grigio gergo tecnico, vuol dire persone che vivono soli o un genitore – di solito una donna – che vive con un figlio minore. Non solo nelle società complesse dell’Occidente, e in Italia soprattutto, si fanno meno figli, cosa che preoccupa molto per la tenuta del sistema previdenziale e per la solita retorica neo-fascista dell’attuale governo, ma soprattutto le donne sono sole di fronte alla maternità a causa di un fenomeno definito come «eclissi del padre» o addirittura «evaporazione». Né le invocate politiche socio-economiche di supporto della maternità si pongono questo problema, né, da sole, sono in grado di risolverlo. La fine dell’autorità paterna come custode della Legge con la maiuscola, secondo una delle “narrazioni” colte oggi in voga, quella lacaniana, data all’epoca in cui Freud e Kafka ne scrissero. Nella versione “classica” il padre dovrebbe garantire una mediazione tra mondo interno e esterno alla famiglia (e anche del figlio) con un rispetto della legge edipica dalle forti valenze emotive ed affettive. Dunque un universo di concetti e simboli complesso, non facilmente gestibile.
Il ragazzo di Abbiategrasso, definito con un profilo inquietante, attende calmo l’arrivo della polizia. Di fronte alla divisa si trasforma in agnello. È un tratto sottolineato da Miguel Benasayag (L’epoca delle passioni tristi, 2004), psicoanalista argentino, che aveva combattuto con Guevara, imprigionato e torturato dalla dittatura del suo paese. Immigrato in Francia ha lavorato nelle banlieue parigine ed è stato leader del movimento no global. Anticipando le rivolte di quelle periferie, scrive che quei ragazzi «si fanno l’Edipo con la polizia», cioè in mancanza di una norma affettivamente interiorizzata, se la devono costruire scornandosi con la legge repressiva, semplificando: la polizia diventa un sostituto paterno per loro. In mancanza di un’autorità sentita come vera e costituzionalmente benigna, si erge contro le giovani generazioni il più bieco autoritarismo. Questo è il nucleo dell’ideologia neo-fascista, che vediamo all’opera nelle politiche governative attuali. È quanto cercammo di contestare come movimento antiautoritario del ’68. Come scrive ancora Benasayag avevamo interesse al futuro della comunità, alla costruzione di un mondo di valori condivisi, prima che il trionfo dell’individualismo neo-liberista conquistasse il campo con la “rivoluzione” delle macchine elettroniche sia nella produzione, che nella distribuzione e nel consumo, fino all’intero universo linguistico. Ciò invera la posizione di Marx ed Engels, per cui il capitalismo espropria i proletari dei legami familiari più intimi. Tale esproprio (o alienazione) è oggi ingigantito dal dominio delle macchine elettroniche, che sfruttano più le qualità intellettive degli umani che quelle muscolari delle precedenti macchine elettro-meccaniche.
Di fronte ai problemi complessi l’attuale ministro dell’istruzione e “del merito” improvvisa in maniera dilettantesca, sparando baggianate, oscillando tra ipotesi “pedagogiche” autoritarie come il “valore dell’umiliazione” e soluzioni “individuali” quali lo psicologo scolastico, che è già presente in molti istituti. Pur riconoscendo formalmente che «la scuola è una comunità educante», è preoccupato di allertare l’avvocatura dello stato per difendere la scuola dal danno di immagine che deriva dai fatti descritti. C’è chi a sinistra come lo psichiatra Paolo Crepet ha posto a ragione i problemi organizzativi: chi sono gli psicologi scolastici, come vengono reclutati, quale specifica formazione hanno? Sappiamo che sono pochi come in tutti i settori tagliati dal de-finanziamento dei servizi, sono isolati dalla rete dei servizi socio-sanitari con cui non hanno rapporti organici, spesso sono giovani inesperti, anche se animati da buone intenzioni. L’approccio individualistico è il risvolto tecnocratico dell’autoritarismo, un modo reazionario di affrontare la devianza sociale. Lo definisco “la teoria delle mele marce”: si parte dal presupposto che “il paniere” sociale sia fatto di individui buoni e disciplinati, protetti da una sottintesa latina sanitas di memoria ducesca; ci sono alcune mele bacate, costituzionalmente malate, che vanno separate dal resto perché non lo contaminino. A questo dovrebbe provvedere lo sportello psicologico con alle spalle il vecchio armamentario dell’emarginazione psichiatrica. Non so se Valditara abbia chiaro un simile approccio, ma sicuramente una legge che inasprisce le norme del trattamento psichiatrico è già pronta nei cassetti del governo. Fra l’altro l’ipotesi è praticamente insostenibile. Infatti i dati epidemiologici dicono che episodi come quello di Abbiategrasso sono la punta di un iceberg, riguardante un fenomeno di massa, che coinvolge nella loro carriera un terzo degli insegnanti.
È stato più volte sottolineato che suo malgrado l’attuale generazione di giovani soffre di una sorta di analfabetismo emotivo. I sentimenti, infatti, non sono una dote naturale, ma si trasmettono per via culturale. La scuola potrebbe contribuire a tali percorsi, rispondendo al mandato costituzionale di formare i cittadini come più volte ha segnalato questo blog. Gli insegnanti, oltre ad essere meglio pagati, più socialmente riconosciuti e meglio formati, dovrebbero conoscere la loro materia ed essere in grado di comunicarla e di affascinare. Noi tutti abbiamo studiato volentieri le materie dei professori di cui eravamo “innamorati”. Qualcuno ha proposto in maniera ancora controversa di introdurre l’educazione socio-affettiva come materia di insegnamento. Potrebbe essere un’ idea accettabile sempre che se ne sottragga l’insegnamento all’unica dimensione individuale. Nella versione prevalente di questa idea si afferma il cognitivismo “buonista” delle life skill (abilità di vita) un tanto al chilo, che rappresenta in campo scolastico il pensiero unico dominante del management, cioè letteralmente dell’addestramento del bestiame.
Il percorso non può essere individuale, ma collettivo, cioè la scuola dovrebbe attraverso il gruppo degli insegnanti promuovere la costituzione della classe come comunità di base, competente ad auto-risolvere i propri problemi e quelli dei propri membri, con tutti gli apporti esterni necessari.
Valditara dovrebbe applicare a se stesso l’“educazione all’umiliazione” o meglio (anche lui è un essere umano!) fare un bagno di umiltà invece di sparare baggianate.
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Si tratta di prendere atto della centralità che assumono l’‘educazione sentimentale’ e il superamento dell’alessitimia nei processi scolastici di apprendimento e di socializzazione. Tuttavia, prendere atto del problema a ridosso del caso clamoroso non è sufficiente e potrebbe anzi risultare contraddittorio con tali processi (la reazione ministeriale lo dimostra ‘ad abundantiam’), qualora non si considerasse che il ‘mixtum compositum’ rappresentato dall’impasto colloso fra immagini, emozioni, concetti e idee, di cui non solo la televisione, “cattiva maestra” e “ladra di tempo” secondo l’ormai classica definizione dàtane da Popper, ma anche la stessa digitalizzazione coattiva sono veicoli, richiede, per essere filtrato e metabolizzato criticamente (al fine di espungerne il ‘troppo’ e il ‘vano’, il che, proprio a causa di quell’impasto colloso, non è né facile né semplice) e, quindi, per tradursi in una utilizzazione formativa corretta e consapevole da parte degli studenti, un confronto approfondito e serrato fra la cultura della scuola, portatrice di una tradizione, quella occidentale, in cui al linguaggio proposizionale è riconosciuto un posto centrale, e la cultura dei giovani, fortemente influenzata da un linguaggio non-proposizionale o moderatamente proposizionale. Il fatto che quest’ultimo sia riconducibile ad una diversa tradizione, presente, oltre che nell’area orientale, sua sede elettiva, nella stessa area occidentale, non è in contrasto con l’adesione acritica a posizioni ingenuamente scientistiche e, soprattutto, ipertecnologiche (laddove la “demotivazione allo studio delle discipline storiche a favore delle ‘scienze esatte’ non esprime tanto una concezione scientistica quanto una concezione pragmatistica, secondo cui le ‘scienze esatte’ sono viste sostanzialmente come strumenti, privi di uno specifico valore culturale, per mezzo dei quali è possibile realizzare artefatti tecnologici più o meno remunerativi, più o meno prestigiosi, più o meno utili, talché, a questo punto, considerata la torsione dell’apprendimento delle ‘scienze esatte’ in senso biecamente strumentalistico, bisognerebbe semmai aprire lo spinoso capitolo della didattica della matematica e della fisica in una scuola che, come riconoscono gl’insegnanti di tali discipline dotati di un minimo di consapevolezza circa gli statuti epistemologici delle stesse, di fatto non educa alla matematica, ma con la matematica, di fatto non educa alla fisica, ma educa con la fisica ecc. ecc.). Ciò spiega, inoltre, un fenomeno che è dato rilevare già nella scuola e poi nella società, un fenomeno che ha robuste radici nella trama di rapporti che si viene a stabilire fra la struttura economica e la sovrastruttura ideologica, ossia la coesistenza, spesso nella stessa persona, di analfabetismo emozionale, culture non-proposizionali, pragmatismo positivistico e tendenze filobatiche. È evidente che, se il segno caratterizzante che assume tale coesistenza è quello della estraniazione contemporanea, non è sufficiente limitarsi a questa rilevazione, in sé giusta, ma occorre dedicare un’attenzione speciale alla manutenzione, per così dire, di quei circuiti simbolici in cui avvengono l’incontro e lo scontro, ma in cui è anche possibile produrre la sintesi dialettica e la riconciliazione spirituale fra immagini, emozioni, concetti e idee (in tal senso il cinema e il teatro possono svolgere una significativa funzione matetica), operando, a livello educativo e cognitivo, in modo da evitare che siffatti circuiti si inselvatiscano e si ostruiscano. Non per nulla, come Freud ha insegnato una volta per tutte, se l’energia connessa alle pulsioni fondamentali dell’individuo umano viene rimossa e cacciata via, anziché essere immessa in una struttura simbolica, essa è destinata a ritornare nel reale sotto forma allucinatoria (di questi ritorni abbiamo continui esempi sotto gli occhi nella vita quotidiana). Occorre dunque impedire che si verifichi un radicale conflitto fra la cultura della scuola, fondata sulla formazione dello spirito critico e rivolta a creare le condizioni affinché gli studenti acquisiscano la capacità di esprimere, denominandone correttamente i termini e le relazioni, il proprio mondo interiore e la propria conoscenza, e la cultura dei giovani, che identifica la vera realtà con la sfera del non-proposizionale e vede nella cultura proposizionale della scuola una finzione. E se c’è un compito etico-politico che spetta all’insegnante, è proprio quello di vigilare, utilizzando le metodologie più appropriate, sui circuiti della struttura simbolica, in modo che tali circuiti non siano compromessi dal degrado e dall’incuria.