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diretto da Romano Luperini

Le catene di Prometeo (e noi)

Prometeo ovvero dell’attualità

Sarebbe opportuno che leggessero la tragedia di Prometeo incatenato coloro che hanno condotto campagne punitive contro le culture e le lingue antiche, colpevoli di non essere spendibili, e dunque di essere inutili; sarebbe opportuno che la leggessero, ugualmente, coloro che non si stancano di ripetere il mantra dell’attualizzazione e si ostinano a cercare l’attualità abbigliando i miti con vesti e divise moderne o mettendo in bocca a Ulisse, Odino e Gilgamesh parole sprovviste di referente reale nel loro universo senza tempo. Ma intanto rileggiamola noi, qui nella versione che è stata portata in scena al teatro greco di Siracusa per la regia (importante; e decisiva per chi scrive) di Leo Muscato.i

Attribuita a Eschilo (il tragediografo che ha visto nascere la democrazia) e datata intorno al 460 a.C., questa tragedia respira l’aria spessa di Atene, negli anni difficili in cui la polis diviene, da potenza regionale, una potenza mediterranea. Respingendo l’attacco dei Persiani, la città rivoluziona il suo aspetto, ridefinisce i suoi interessi economici e i suoi obiettivi, rinnova il suo tessuto sociale, intesse nuove alleanze, sperimenta nuovi equilibri – delicati, crudeli. E, per quanto vada esclusa ogni ipotesi di riproduzione immediata di personaggi e fatti, di tali mutamenti inesorabili e sostanziali la vicenda certamente si nutre. Ripercorriamola velocemente.

Per volere di Zeus, Prometeo, figlio di Themi (dea della legge universale, anche nota come Gaia, la terra), viene incatenato da Efesto a una rupe sperduta nella regione della Scizia (un territorio compreso tra le attuali Polonia, Ucraina orientale e Kazakistan). Sebbene riluttante ad adempiere un ordine così spietato, il dio del fuoco, strettamente sorvegliato da Kratos (Potere) e Bia (Forza), non può esimersi: il Titano ha infatti suscitato l’ira di Zeus e dell’intero Olimpo facendo dono proprio del fuoco agli esseri umani, sue creature. Il fragore del martello di Efesto richiama le Oceanine, alle quali Prometeo affida il racconto della sua sventura e l’analisi delle cause: dopo aver aiutato Zeus, in seguito all’uccisione del padre Cronos, a respingere l’attacco dei Titani ribelli e a consolidare così il suo regno, si è schierato con gli esseri umani, fragili e perseguitati dalla volontà capricciosa degli dei, che sono i nuovi padroni del mondo. A nulla valgono le esortazioni di Oceano, come lui titano, che giunge fino in Scizia per convincerlo a sottomettersi a Zeus: Prometeo infatti, diffidando della sua ambiguità, lo sollecita ad andar via per non attirarsi a sua volta l’odio divino e piuttosto si mostra comprensivo e sollecito nei confronti di Io, la sacerdotessa argiva vittima della passione di Zeus e trasformata in giovenca per sfuggire alla gelosia di Era. La giovane giunge alla rocca caucasica correndo inseguita da Argo Panoptes e tormentata dall’aculeo del tafano; è disperata e implora la morte, ma Prometeo le predice il futuro, il passaggio dall’Europa all’Asia attraverso lo stretto che da lei prenderà il nome di Bosforo, il vagabondare per il mare che si chiamerà Ionio, l’approdo in Egitto, il parto di un bimbo da cui avrà origine la stirpe che segnerà la fine di Zeus. Ma quando e come Zeus sia destinato a cadere, questo Prometeo non lo rivela neppure quando Ermes, prontamente inviato dal padre per estorcergli il segreto, lo minaccia di una pena più grave. Così la rupe si squarcia e Prometeo viene inghiottito nelle viscere della terra insieme alle Oceanine, ormai profondamente partecipi del suo destino.

Di seguito entreremo insieme nel testo, per accorgerci che non serve interpretarlo per coglierne l’attualità: basta leggerlo; leggerlo con onestà.

Il fuoco, maestro ai mortali di ogni scienza e arte

Il fuoco, il dono che Prometeo (“colui che ha preveggenza”) ha fatto agli esseri umani, è maestro ai mortali di ogni scienza e arte (p.88). Così il Titano racconta alle vigili Oceanine da cosa sia scaturita la sua scelta:

PROMETEO: Parlerò senza offendere gli uomini, dirò di come diedi loro amore in dono, loro che prima guardavano ma invano e ascoltavano senza mai sentire, come fossero immagini di sogno, lì a sperperare un lungo vago giorno senza conoscere case di mattoni, intagli al legno, (…) ciechi a un segno che tornasse l’inverno o annunziasse il fiorir di primavera, dell’estate, e dei suoi frutti in dono. Non c’era in loro facoltà di capire, finché non gli mostrai il sorgere del sole, il tramontar delle stelle, bagliori ardui da intendere, e il numero, invenzione sublime e le lettere sposai tra loro, madri di tutte le arti, a memoria di un mondo instancabile. Io, io per primo misi alle bestie il giogo e il basto; io liberai i mortali da immense fatiche, legai il cavallo al carro (…). E chi altri se non Prometeo s’inventò legni per i naviganti, spinti da ali di lino a solcare i mari! (pp.93-94)

Tagliamo corto: non c’è arte che non venga ai mortali da Prometeo (p.94). Il titano, dunque, col fuoco, ha donato alle sue creature tecnica e sapienza: cioè coscienza di sé. Autonomia. Dopo l’Ulisse di Omero e prima di quello di Dante, questo Prometeo di Eschilo insegna agli umani a seguir virtute e canoscenza. Prima di Gesù, immolandosi per loro, li libera da una schiavitù peggiore del peccato, quella dell’ignoranza, e con la cultura sfida il potere e la forza. Una rivoluzione intellettuale, la sua, e perciò politica, perché non sottintende, ma ha chiaramente come scopo sovvertire, con le sole armi del sapere, non il potere in sé, ma il governo dispotico e arrogante di chi, arrivato al potere cercando appoggio e consenso, esercita il comando e amministra la giustizia come fossero proprietà privata e non bene comune:

CORO: Ma quale dio mai ha un cuore così duro da godere al tuo strazio? Ma chi, a parte Zeus, non compatirebbe i tuoi mali? Lui, Zeus, immerso in un rancore senza fine, nella sua volontà inflessibile vuole sterminare i figli di Urano e non la smetterà prima che sia sazio il suo cuore o che qualcuno con un colpo di mano gli abbia levato il potere. (…)

PROMETEO: Lo so, lo so, è duro, è inflessibile e della giustizia fa quello che gli pare, ma dovrà ben un giorno chinare il capo quando a sua volta verrà colpito. (…) (pp.88-89)

Dovrà chinare il capo, Zeus, perché «il diritto al potere sta più in alto, sta nell’idea stessa di giustizia che scende da Gaia e Themi, terra e legge universale, scavalca il mito e appartiene alle rette decisioni umane» (Vecchioni, p.83).

Me la sono andata a cercare

PROMETEO: Quando gli dèi cominciarono a dirsele contro da indemoniati fu subito tra loro guerra aperta: chi voleva far fuori Crono a favore di Zeus, chi invece si affannava perché Zeus mai regnasse tra gli dèi. Io, lì in mezzo, a fatica, tentavo di consigliarli per il meglio: ma era fiato sprecato con i figli di Urano e della terra: sordi ai migliori consigli pensavano nella loro superbia di vincere facilmente con la loro forza. Più e più volte mia madre Themi, la terra, dai molti nomi, mi svelò come sarebbe finita: altro che forza e violenza, dall’inganno sarebbe saltato fuori chi avrebbe vinto. Io lì a sprecar discorsi per convincerli e loro che neanche mi davan retta. In quella situazione la cosa migliore mi parve dar ascolto a mia madre e allearmi con Zeus che lo desiderava quanto me. È mio il merito: l’antico Crono e i suoi alleati giacciono infine al Tartaro, sperduti e dimenticati nell’abisso profondo. E questo signore degli dèi, in cambio (…) mi ripaga con tremendi supplizi (…). È proprio questa la malattia del potere: non fidarsi degli amici. (p.89)

Prometeo dunque, sulle prime, si schiera a favore di Zeus e tenta con la ragione di convincere gli altri Titani a non adoperare, per vincere, la forza bruta; ma soprattutto Prometeo sceglie il sostegno della madre Themi, dea, come s’è visto, della legge universale (e madre di Astrea, dea della giustizia), perché sa che un giorno Zeus, l’arrogante, nuovo signore, cadrà da lui stesso, con le sue vacue infatuazioni (p.100). E con lui cadranno tutti coloro che sono saliti, senza nutrire dubbi, sul carro del vincitore, incapaci di opporre resistenza a chi gli offriva privilegi in cambio della adesione incondizionata ai suoi piani. Il Titano disobbediente tace ostinatamente durante la lunga e dolorosa operazione che lo inchioda alla rupe; le Oceanine vi assistono mute e nascoste, mentre Kratos pesantemente insulta il dio incatenato (una scena che somiglia in modo impressionante alla crocifissione di Gesù, con i capi che deridono il crocifisso):ii

KRATOS: Su, su, fai il grande, adesso; ruba, ruba scintille divine per i tuoi effimeri omuncoli! Come faranno mai, loro, a liberarti da tanto soffrire? Lassù ti chiamano Prometeo, il preveggente, quale astrusità! Sei tu ad aver bisogno di un preveggente. E chi mai potrebbe liberarti da questa prigione perfetta? (p.87)

Ma a ErmesPrometeo rivolge parole esplicite e dure, quelle che probabilmente lo consegnarono al mito romantico:

PROMETEO: Onoratelo pure, supplicatelo, adulatelo chi adesso ha il potere, a me di Zeus non importa proprio niente. Che se la spassi come gli pare, che di tempo ne ha poco, non sarà sempre così. (…) Ma che bel discorso, così gonfio di presunzione, di “Lei non sa chi sono io”; proprio da galoppino degli dèi. Siete appena arrivati e già comandate, e già vi credete di abitare dove non abita il dolore. (…) Ti sembro forse un tipo da farsi impressionare davanti a questi nuovi padroni? (…) Non scambierei mai, mettitelo nella testa, la mia disgrazia con la tua vita da servo. (…) Tutti li odio gli dèi. Non ho dato loro che benefici e mi torturano scavalcando la giustizia. (…) Pazzo? Odiare i nemici è forse follia? (pp.103-105)

Vi credete di abitare dove non abita il dolore: questo legittima Prometeo a essere sprezzante con gli dèi e, viceversa, immediatamente solidale con Io. «Specchio terreno dei tormenti divini di Prometeo, allegoria di tutta un’umanità votata al pathei mathos» (Vecchioni, p.83), alla conoscenza attraverso il dolore, al dolore che un giorno ti sarà utile, la vicenda di Io è esemplare e complementare a quella di Prometeo nella rappresentazione non solo della volontà prevaricatrice di chi comanda, ma soprattutto della solidarietà (questa, sì, romantica, anzi: leopardiana) che sempre dovrebbe tenere insieme l’umanità nella comune contemplazione della fatica di esistere e vivere.

Dicci tutto, parola per parola

Scrive Aristotele nella Poetica:

La tragedia non è mimèsi di uomini, bensì di azione e di vita (…) e il fine stesso della vita è una specie di azione, non una qualità. (…) Dunque i personaggi di un’azione drammatica non agiscono per rappresentare determinati caratteri, ma assumono questi caratteri per sussidio e a cagione dell’azione. D’onde segue che (…) senza azione non ci potrebbe essere tragedia, senza caratteri sì.iii

Non è dunque il carattere ribelle e inquieto del Titano a fare la tragedia: sulla scena non lo si vede mai agire, e non solo perché è incatenato e non può muoversi, ma perché le sue azioni appartengono al passato e resta immutabile nelle sue opinioni dal principio alla fine del dramma. Non c’è cambiamento, se non in peggio, nella sorte di Prometeo. L’azione tragica non esisterebbe se le Oceanine non esortassero Prometeo al racconto, e al racconto ragionato: chiedono infatti di avere chiarimenti (in altre traduzioni si legge proprio di ragionare con loro), di ricostruire le vicende nelle cause e negli effetti; la stessa richiesta che sarà formulata a Io. Non vogliono solo, genericamente apprendere le notizie: vogliono capire:

CORO: Dicci tutto ora, parola per parola, qual è l’errore? In che colpa ti ha còlto Zeus per punirti così spietato senza appello? Chiariscilo qui a noi, se non ti procura danno (p.89)

E in questo impegno nella comprensione, in questa cura, risiede l’azione e il mutamento. Dapprima le Oceanine sono perplesse o addirittura critiche nei confronti di Prometeo:

CORO: Ti porti dentro un’oltraggiosa pena e fuori di senno vaga la tua mente, come un cattivo medico che il mòrbo ha colto disanimato e incapace di trovar rimedio per sé stesso. (p.94)

Ma dopo averne ascoltato il racconto, dopo aver ascoltato il racconto di Io e le profezie che riguardano entrambi, le Oceanine scelgono senza esitazione, potendola scansare, la stessa sorte che è stata destinata a Prometeo, insensibili alle minacce di Ermes:

ERMES: Ma voi almeno che lo avete in compassione, presto, andatevene, fuggite da lui, ché il fragore del tuono non faccia anche voi impazzire!

CORO: Cambia maniere, Ermes, dacci consigli che siano più convincenti. Hai parlato a vanvera e non ci sta bene. Come puoi obbligarci a essere vili? Quel che capiti capiti, vogliamo soffrirlo con lui: abbiamo imparato a odiare chi tradisce, e non c’è male peggiore di questo.

ERMES: Io vi ho avvertite, ricordatevelo, e quando sarete compagne della sua disgrazia non prendetevela col caso, e non dite che Zeus vi ha cacciate in una sciagura imprevista: lui non c’entra, ve la siete cercata da sole; pur essendo state avvisate in tempo e a chiare lettere finirete impigliate per la vostra stupidità nell’inestricabile rete del destino. (p.107)

Chi può obbligarci a essere vili? Le Oceanine ci insegnano la strada della disubbidienza attraverso la ragione.

i Teatro greco di Siracusa, 11 maggio-04 giugno 2023; trad. di R. Vecchioni, Fondazione INDA, 2023.

ii In quel tempo, il popolo stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Luca, 23,35-43).

iii Aristotele, Poetica, Laterza, Bari 1986, p.205 (traduzione di Manara Valgimigli).


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