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diretto da Romano Luperini

Come lemmings, ovvero della ‘settimana corta’

Dinamica della moda

Quando lasciai la mia città di nascita, dove avevo insegnato per alcuni anni, la ‘settimana corta’ (a scuola fino al venerdì e non più fino al sabato) era già ampiamente diffusa. Otto anni fa, arrivando nella città in cui vivo ora, scoprii che qui questa ‘riforma’ non era ancora arrivata. ‘Esistono le isole felici’, avevo pensato. Sono passati gli anni e anche da queste parti quasi tutte le scuole hanno ormai capitolato. Dal prossimo anno molto probabilmente toccherà anche alla mia. In effetti è sciocco credere nell’esistenza delle isole felici. La settimana corta si diffonde con la stessa dinamica della moda: nessuno in particolare la decide, ma tutti la seguono.

A differenza della moda, però, non è innocua, perché fa male alla didattica. A meno che non si adotti la soluzione del rientro pomeridiano, la settimana corta costringe infatti ad aggiungere un’ora di lezione ogni giorno; di norma una sesta ora, anche se più raramente può trattarsi di una settima. Certo, esistono possibilità di riequilibrio interno, come introdurre un secondo intervallo o ridurre le ore a 50 minuti. Resta il fatto che le stesse lezioni, che prima erano affrontate nel più disteso tempo di sei giorni, ora vengano intruppate in cinque.

Ce lo chiede l’Europa

A difesa della settimana corta fiorisce l’arte dell’arrampicamento sugli specchi: a posteriori e a lato, si cercano giustificazioni ragionevoli e onorevoli a una scelta che evidentemente non lo è. Una delle più emblematiche, messa nera su bianco nel documento interno che nella mia scuola preparava il dibattito sul tema, ma in cui mi ero già imbattuto, è quella dell’“adeguare l’eccezione italiana all’Europa”. La forma generale, totipotente, di questo argomento dovrebbe ormai esserci nota: è in suo nome che il riformismo tecnocratico di questi anni ha operato in questo e quell’ambito. Insomma, mi è sempre parso un argomento propagandistico, ma ho voluto comunque verificare sul portale Eurydice: nelle comparazioni sull’organizzazione del tempo scolastico, non si trovano indicazioni esplicite sulla durata della settimana di scuola nei paesi europei. Chissà com’è davvero fatta questa Europa che tutti invochiamo come fato ineluttabile. Ma in fondo si tratta di un riscontro superfluo. Se si fornissero spazi adeguati per vivere la scuola anche di pomeriggio o mense decenti, se fossimo di fronte a una riorganizzazione strutturale, allora staremmo parlando di diventare europei. Invece stiamo solo facendo i conti della serva.

Fare una lavatrice in meno

Anticipare l’ingresso, posticipare il pranzo, allungare la mattinata, stiparla di scuola. Di questo, e nient’altro, stiamo parlando. All’ora del pranzo non vorrei essere nei panni di quel collega (e magari sarò io) che ha solo due ore alla settimana e si trova una classe tramortita e con la fame che morde. Non vorrei essere nei panni degli studenti, alla sesta ora. Dove, poi, come nelle secondarie superiori di provincia (la mia…), l’utenza viene anche da molto lontano, l’uscita alle due rischia davvero di trasformare il pranzo in una merenda. “Uscendo da qui alle 14.10 tutti i giorni, io tornerei a casa dopo le 15. Se non perdo il treno. Se no arrivo a Castellina in Chianti alle 16.30, con quello dopo”. Un’altra allieva mi dice che lei, già ora (uscendo alle 13.20), arriva a casa alle 15. Certo, questi sono i casi estremi, quelli di chi vive in frazioni molto scomode e distanti. Ma i pendolari nel mio istituto sono comunque il 60% degli studenti. In effetti è per consentire loro di entrare in classe senza svegliarsi coi lupi, che nelle scuole di provincia è sempre stata in vigore la prassi dell’ingresso tra le 8.20 e le 8.30. Con la settimana corta, la prima ora sarà retrocessa alle 8.10, come nelle scuole metropolitane, dove l’utenza proviene dai quartieri limitrofi. La marea della settimana corta non guarda in faccia nessuna specificità territoriale.

Gli adolescenti avrebbero bisogno di iniziare la scuola persino più tardi dell’orario attuale, perché macinano più lentamente degli adulti la fatica del risveglio. E noi, per il supremo bene del sabato libero, li buttiamo giù dal letto ancor prima.

Ma al sabato libero non è possibile dire di no. I genitori lo vogliono. Gli studenti lo vogliono. Gli insegnanti lo vogliono. Lo vogliono anche le Province, che risparmiano sul riscaldamento. Presumo che faccia comodo anche alle aziende di trasporto, che potranno organizzare corse in meno. Ma concentriamoci solo sui diretti interessati.

Qualche argomento ragionevole a favore della settimana corta c’è, non lo nego. Capisco perfettamente il sollievo dei genitori che accompagnano i figli in auto e che si risparmieranno un giorno di viaggio. Capisco anche la seduzione del fine settimana interamente libero. Ma il gioco vale la candela? Qual è il vantaggio di quel fine settimana, se, negli altri cinque giorni, la fatica della mattina aumenta oltre le naturali possibilità di concentrazione e diminuisce il tempo pomeridiano a disposizione per i compiti, la lezione di nuoto e di chitarra, la certificazione linguistica, l’uscita con gli amici? Temo che pochi aprano il pacco ben addobbato della settimana corta, per guardare che cosa ci sia dentro: una scuola identica alla precedente, ma in forma concentrata, come una lavatrice caricata a forza di troppo bucato, per evitarsi il fastidio di farne un’altra.

Seduttiva leggerezza

Studenti e famiglie finiscono per decidere la scuola superiore per sé e per i figli sulla base di un calcolo astratto. Cinque è meno di sei. E in tempi di (apparente…) flessibilità e alleggerimento dal duro peso della materialità (sociale, del lavoro, delle istituzioni) tanto basta.

“Ma fate scuola il sabato? Allora iscrivo mio figlio di là”. “Guarda, caro collega, che lo fanno tutti, e se non lo facciamo anche noi, perdiamo appeal, perdiamo iscritti, perdiamo cattedre”. Si deve. È così. Non si può non. Ma in realtà, dietro questa apparenza di inevitabilità storica, c’è, come sempre, l’ideologia. La scuola oggi le famiglie se la scelgono. La scuola oggi deve attirare studenti, fare l’open day, metter su la coda di pavone. Si smercia merce che ha da essere appetibile. Siamo insomma di fronte a quel conformismo tipico del mercato – non è vero che esso generi sempre innovazione, differenziazione del prodotto: crediamo che se ci manca qualcosa che l’altro ha, saremo meno desiderabili. In una società di mercato l’imitazione conformista non è in contraddizione con il principio della differenziazione dell’offerta (formativa…). Ci si fa infatti concorrenza per il possesso e l’esibizione dello stesso capitale simbolico (apparteniamo ormai tutti alla vebleniana classe agiata, anzi peggio: alla venturiana classe disagiata).i “Noi c’abbiam la settimana corta e voi no-o!”.

Non riesco a spiegarmi diversamente questa epidemia di settimane corte, verso le quali corriamo come tanti lemmings, in coda per precipitare dalla scarpata.

Corporativismo

Ma la cosa che più mi sgomenta è vedere il comportamento di noi insegnanti. Chi tiene a quello che fa in classe sa bene che con la sesta ora la didattica ci scapiterà e non si lascia sedurre. Ma la settimana corta risolve un annoso conflitto di interessi: quello del giorno libero. Come in un sistema feudale, in alcune (molte?) scuole il sabato libero è un miraggio per i precari, per i nuovi arrivati, per chi non è amico dell’orarista, per chi è discreto e non osa chiedere. Quello che dovrebbe essere un aspetto dell’organizzazione scolastica, diventa materia di privilegio e di esclusione. Con il sabato libero tutti felici: chi ce l’ha già, non dovrà più pregare per averlo, né difendersi dalla critica al baronato; chi non ce l’ha, finalmente ce l’avrà. Si scambia la qualità della didattica – e il bene dei nostri studenti – con un interesso personale e di categoria. Anche perché, per risolvere la vexata quaestio, basterebbe pretendere l’applicazione di una rigorosa democrazia interna: il sabato libero a turno. Ma, per ottenere questo, bisogna portare il problema allo scoperto. È più comodo risolverlo con l’escamotage della settimana corta, tacendone la vera, impronunciabile, ragione.

“Non credo che il sì passerà”, mi dice una collega, “tutti quelli con cui parlo sono contrarissimi”. “Ma”, faccio io, “il voto alla settimana corta è come il voto alla DC. Si fa ma non si dice”. Così gli insegnanti contrari, che si contano e che credono di essere maggioranza, rischiano di fare la fine dei comunisti e socialisti alle elezioni del 1948. “Ai nostri comizi le piazze erano piene, a quelli di De Gasperi no. Eravamo convinti di vincere”, confessava un deluso Pajetta, “semplicemente, ci votavano i cittadini politicamente attivi”.

Una Favola delle api senza lieto fine

Insomma, gli egoismi e gli individualismi di sempre vengono rafforzati (e legittimati) dall’etica di una società che non si perita di aver sottomesso persino lo spazio costituzionale della scuola, se non al tornaconto personale, quanto meno alla propria comodità e gusto. Siamo sempre meno un’istituzione dello Stato; siamo sempre meno una delle incarnazioni di quell’alto ideale della modernità che si chiamava spazio pubblico. Purtroppo la scuola fornisce ormai ‘servizi’, e se alle famiglie fa comodo la settimana corta, pace. Inoltre sembra ormai arcigno e antistorico sostenere che il mondo adulto abbia il diritto e il dovere di dire di no a un desiderio degli studenti, se il diniego è motivato dal loro stesso interesse. Perciò sia pace pure qui.

Assistiamo a un delitto perfetto: gli interessi particolari (e miopi) di ognuno producono un peggioramento delle condizioni di tutti. Un po’ come in una mandevilliana Favola delle api finita male: vizi privati, pubblico danno.

i Ne La teoria della classe agiata (1899), il sociologo Thorstein Veblen sostiene che l’emulazione della ricchezza altrui sia uno dei pungoli fondamentali della vita sociale. L’idea è stata ripresa e sviluppata di recente da Raffaele Alberto Ventura in Teoria della classe disagiata (2017), che sostiene però che la discrepanza tra il desiderio di possesso degli status symbol e l’impossibilità materiale di ottenerli da parte di una classe media in crisi, genera frustrazione e infelicità.

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