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diretto da Romano Luperini

Il senso di una fine o dell’Esame di Stato

Il Ministro l’aveva già anticipato in un’intervista a “La Stampa”, ma ora, con l’uscita della Circola Ministeriale, è ufficiale: «L’Esame di Stato torna come prima».

Non che ci si aspettasse qualcosa di diverso: nelle sale prof e alle macchinette del caffè nei corridoi, più o meno tutti i docenti d’Italia, l’avevano già previsto: dopo il (diversificato) regime provvisorio della pandemia si torna all’Esame come indicato dalla normativa del 2017: la prova di Italiano secondo le tre tipologie elaborate dalla “commissione Serianni”, la seconda prova d’indirizzo (monodisciplinare, secondo una interpretazione più restrittiva della legge), il colloquio pluridisciplinare a partire da un documento predisposto dalla Commissione, in cui dare spazio anche ad Educazione Civica e ai percorsi di PCTO.

Forse, è il minore dei mali – ed è un bene che non ci si precipiti a riformare la scuola dalla testa, solo per lasciare il proprio sigillo sull’Esame. Forse, però, sarebbe stato opportuno almeno un momento di riflessione su quanto è stato fatto negli ultimi quattro anni, di cui uno solo “a regime”, il 2018/2019. Infatti, proprio il fatto che gli Esami di Stato si siano tenuti comunque, anche quando le scuole erano state chiuse per mesi (2019/2020) o avevano funzionato a mezzo servizio (2020/2021), come se se solo le forche caudine della prova finale potessero dare effettivo valore ad un percorso di studi anche profondamente mutato, avrebbe dovuto spingere ad interrogarsi sul senso dell’avere un Esame finale – uno qualunque, verrebbe da dire. Già, perché se a molti è sembrato che, nel pieno della pandemia, la scuola potesse fare un passo indietro praticamente su tutto (niente minimo di frequenza obbligatoria, niente bocciature, niente recupero dei debiti a settembre), ma non sull’Esame di Stato, unico garante e baluardo della “serietà” della scuola italiana, a tanti altri, invece, i dubbi sono sorti – e non pochi – sia sulla necessità di un momento così strutturato quando tutto il resto era stato, nel male o nel bene, “destrutturato”, sia sulla significatività di una prova solo (o quasi) orale e valutata, ancora, solo da docenti interni, che hanno avuto ampie possibilità, nel corso del tempo, di esprimere il proprio giudizio sui futuri maturandi (e ne sono prova gli scrutini e i giudizi di ammissione all’Esame).

E allora, chiediamocelo: che senso ha, ancora, oggi, un Esame di Stato?

È solo un rito di passaggio? Ma allora perché investire tempo e risorse pubbliche per una importante, ma solo simbolica, cerimonia d’investitura all’età adulta? Non sarebbe più proficuo importare, a questo scopo, la tradizione angloamericana (ne abbiamo importate tante, spesso a occhi chiusi) della pubblica consegna dei diplomi, con discorso di addio e menzione degli studenti migliori? E, non solo: se ciò è necessario, che società è quella che delega ad una scuola sempre più depauperata e privata di prestigio il suo unico rito di passaggio?

L’Esame è forse allora un momento in cui lo studente si mette alla prova, e “si prende la soddisfazione” di superarla dando il meglio di sé? Ma perché, fino a quel momento, per tre o cinque anni, che cosa avrebbe fatto se non mettersi alla prova, quotidianamente, con verifiche, lavori di gruppo, discussioni, prove pratiche, scritte e orali? E gli studenti a cui non importa nulla di “prendersi una soddisfazione” o di “dimostrare quanto valgono”? Perché poche ore d’esame, tra scritti e orale, dovrebbero avere maggior valore di un percorso triennale o quinquennale? Non stiamo, ancora una volta, calcando la mano sulla necessità di una performance, di qualunque tipo, anziché dare il giusto valore al cammino fatto da ognuno, considerandone, magari, anche, gli imprevisti, gli intoppi, i momenti di stallo o, al contrario, i progressi, le accelerazioni, i picchi?

Allora l’esame serve perché ha una funzione certificatoria? Ma certificatoria di che cosa? Delle competenze? Ma se questa funzione è stata svenduta da tempo alla pletora di enti esterni (per tacer delle rivendicazioni in merito di Invalsi, su cui ci sarebbe molto da dire) che rilasciano certificazioni B1 B2 C1 ECDL e via dicendo! Certificazioni, tra l’altro, ambitissime dalle famiglie (“il bollino blu della prole”, le chiama un’amica) e accettate da università e aziende che non si fidano più, evidentemente, del giudizio espresso dai docenti! Allora, forse, l’Esame certifica le conoscenze e la “cultura generale” dello studente? Ma se ormai il voto in centesimi ottenuto all’Esame non viene considerato neppure per i test di accesso all’Università; anzi, ormai molti prestigiosi atenei pubblici e privati, li anticipano a metà del quinto anno, se non addirittura al quarto – con ricadute non indifferenti anche sulla didattica proprio dei mesi che portano all’Esame (e quanto sarebbe necessario ragionare su questa enorme frattura nel rapporto tra scuola e università)! E poi, è corretto che, se certificazione dev’essere, i certificatori finali siano, del tutto o in parte, gli stessi che hanno valutato gli studenti fino a quel momento? Non sono così lontani i tempi in cui, anche per queste ragioni, nei mesi di giugno e luglio i docenti italiani attraversavano la penisola nelle quattro direzioni per svolgere il ruolo di commissari esterni…

Ma, anche se decidessimo che, alla fine, l’Esame di Stato ha un senso ed un valore, dovremmo chiederci se esso stia usando gli strumenti adeguati a fare ciò che gli compete: è adatto un colloquio interdisciplinare spesso improvvisato ed impressionistico (almeno, la vecchia “tesina” richiedeva di spendere un minimo di tempo e di riflessione), in cui non c’è il tempo materiale di approfondire nulla? È adatta una seconda prova in cui si mescolano, non sempre troppo bene, discipline diverse? È adatta una prima prova le cui tracce (rigidamente organizzate e strutturate, e che invitano dunque ad un teaching to test che si riflette sull’intero curricolo di didattica della scrittura), finora, non hanno soddisfatto le aspettative: probabilmente tradendo le ottime intenzioni della “commissione Serianni”, sono risultate spesso sciatte e banali, inadatte a stimolare l’argomentazione e il pensiero critico, con errori vistosi; inoltre, gli elaborati devono essere corretti con una griglia ripetitiva e farraginosa, che complica, anziché semplificare, il lavoro di correzione e valutazione.

Chi scrive non ha risposte, e non intende certo invocare un deus ex machina che si appropri dell’Esame di Stato, esautorando così i docenti dal delicatissimo e fondamentale compito della valutazione finale, ma ha la convinzione che, in una fase in cui la scuola, ancora scossa dagli ultimi tre anni, spesso restia a fare davvero i conti con gli esiti di quest’esperienza, e probabilmente impreparata ad essere investita da un’ondata di “innovazione” (meramente tecnologica) a botte di fondi PNRR, sia necessaria una seria e articolata riflessione anche sugli scopi e sulle modalità del suo atto conclusivo, che non può essere semplicemente “come prima”, proprio perché la scuola, “come prima”, non lo è più già da un pezzo.

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