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diretto da Romano Luperini

Una fotografia, l’acqua calda e l’utopia. Riflessioni sul mio test Invalsi

Quando è uscita la circolare che comunicava la possibilità di consultarli, sono subito andato in segreteria a ritirare le credenziali per visionare i risultati dei miei test, sul sito dell’INVALSI. Ho così scoperto di aver conseguito risultati contradditori. In quinta, sono stato bravissimo: un solido approccio alla lettura e alla comprensione di ogni genere testuale, la conoscenza appropriata di categorie logiche e grammaticali, una gestione competente del tempo, mi hanno consentito di piazzare 19 studenti nei due livelli più alti (9 nel più alto), e nessuno nei due più bassi. In seconda sono andato male, sicuramente il peggiore dell’istituto: i buchi nelle conoscenze di categorie e semplici parole, la diffusa debolezza nel metodo di lettura, una comprensione parziale e la scarsa capacità di sintesi hanno collocato 9 studenti della classe nei due livelli più bassi, 12 nella più mediocre mediocrità, solo 6 nei due più alti.

Potrei fare spallucce: il merito è certamente mio, mentre il demerito lo è solo in parte: perché una classe assortita malissimo, perché la pandemia, e poi perché alle medie non si fa più grammatica, e poi le Scienze Applicate…

Preferisco invece cogliere l’occasione per riflettere ancora sull’INVALSI, sull’utilità che riveste e su quella che potrebbe rivestire. Ma soprattutto sul suo ruolo di sistema, in vista di una nuova stagione politica, con il nono cambio al Ministero in undici anni.

Fotografia dell’insegnante

L’INVALSI serve: a chi insegna fa bene smettere di guardarsi allo specchio, per guardarsi invece in fotografia. In una scuola che soffre sempre più di piccineria e autoreferenzialità, anche per una precisa responsabilità di chi ci lavora, lo sguardo e il giudizio esterno sono dannatamente importanti. Con tutti i limiti che abbiamo spesso sottolineato, in primis l’uso quanto meno disinvolto del termine “competenza”, il riscontro dei test è utile.

Io, per esempio, lo sapevo bene di avere contribuito a crescere una quinta tosta, con le idee chiare, con un solido controllo delle debolezze di ciascuna e ciascuno. Ma 19 su 24 nei livelli più alti, è proprio bello, Che l’abbia acclarato una prova molto distante da quelle che abitualmente somministro, meno orientata alla divergenza intellettuale e alla manifestazione dello spirito critico, più vicina ai fondamentali linguistici, è un’autentica gioia. Pur sapendo che la seconda era debole, invece non la credevo così debole. Cosa avrei potuto fare di più e di meglio per “azzerare” e far partire insieme un gruppo che nasceva così disperso e disomogeneo? Sarà stato fruttuoso non rinunciare mai, sin dal primo romanzo letto insieme, a chiedere un’espressione di soggettività, una presa di posizione personale? Sarebbe stato più produttivo annoiare un po’ di più sull’esecuzione di compiti semplici e ripetitivi? Avrei dovuto fare più grammatica?

Cose che mi chiedo spesso, allo specchio. Ma sentirsele chiedere in questo modo, vedersi in fotografia, è più urgente e ultimativo. Perché il test somministrato alle classi (come l’esame di Stato) lo fai anche tu che ci insegni.

La scoperta dell’acqua calda

Spostandosi dal piano individuale – l’insegnante di fronte a sé – a quello collettivo e sociologico, ogni nuova esperienza conferma che l’utilità dei test è relativa e limitata: anzi, gli aspetti comparativi e numerici offerti alle scuole e alla collettività, nutrimento di un dibattito pubblico che nasce e muore nel tempo di un sondaggio e della lettura di una statistica, si risolvono in una roboante proclamazione della scoperta dell’acqua calda.

In relazione ai livelli di apprendimento e allo sviluppo di competenze di comprensione sono rilevanti alcuni elementi geografici e sociologici quali la collocazione degli istituti in certe aree del Paese, nei centri urbani o nelle periferie; è forte la correlazione fra grado di istruzione dei genitori e condizioni socio-economiche familiari, da una parte, acquisizione di conoscenze e abilità, dall’altra: sono i due esempi più eclatanti delle ovvietà offerte sul mercato dell’opinionista scolastico (chiunque abbia un minimo di notorietà, da Crepet a Totti) e rilanciate nei due o tre giorni di attenzione che i media dedicano alla scuola dopo che i risultati dei test vengono resi pubblici. In genere, con il risultato di trasformare gli stereotipi sulla scuola in corpi contundenti da scagliare contro chi insegna, attraverso esercizi di scaricabarile (se alle elementari si giocasse di meno!), guerre di religione sulle lodi (ah, questi insegnanti del Sud…), competizioni sportive fra licei (chi non studia Latino non può dirsi liceale) o interscolastiche (signori miei, come si sono ridotti i tecnici).

Naturalmente, INVALSI non nasce per produrre stereotipi e semplificazioni. E però produce in grande abbondanza gli uni e le altre.

Utopia e distopia dell’INVALSI

Questa lettura spesso riduttiva e banale degli esiti dei test sull’apprendimento è assecondata da molte istituzioni scolastiche: si utilizzano i numeri soprattutto per mettersi in vetrina e trasmettere un’immagine negativa di altre istituzioni – meglio se in diretta concorrenza – in posizioni inferiori in classifica, molto più raramente per attivare un percorso di autovalutazione che vada oltre la compilazione del repertorio inesauribile di documenti che la burocrazia ministeriale produce per trasformare i problemi reali in parole vuote.

Si potrebbe invece pensare a diverso orientamento, teso alla ricostruzione della storia di ciascuna scuola e a una valutazione onesta della sua capacità di realizzare i suoi obiettivi attraverso l’esperienza dei singoli docenti e della comunità.

Nel mio caso, per esempio, sarebbe utile misurare l’efficacia del lavoro svolto, da solo e con le colleghe e i colleghi, su un piano diacronico, come indice della nostra capacità di rendere effettivi i principi costituzionali di uguaglianza e avanzamento sociale e culturale di ciascuna persona. Per farlo, servirebbe concentrare l’attenzione non sugli esiti dei test presi uno alla volta, in una logica orizzontale, ma sulla loro serie storica e sulla loro concatenazione verticale. La fotografia, allora, prenderebbe vita: come è cambiata la classe x (e, al suo interno, lo studente y e la studentessa z), tra il test dell’ultimo anno della secondaria di primo grado e quelli di seconda e di quinta superiore? Qual è stato il suo percorso formativo? Nel gruppo, quante persone hanno avuto un costante ritmo di avanzamento e quante invece si sono involute o perse? All’introduzione di un criterio di storicità, potrebbe accompagnarsi una valutazione statistica non concentrata sugli esiti in sé e per sé, ma sugli incrementi relativi e sul concetto di miglioramento. Per esempio, la distanza abissale fra la mia magica quinta e la mia catastrofica seconda assume un valore differente se si considerano i rispettivi punti di partenza, cioè i voti d’esame del terzo anno della secondaria di primo grado: una prevalenza quasi esclusiva di 9, 10 e 10 e lode, nel primo caso; un buon numero di 7 e 8 nel secondo. La valutazione positiva o negativa dell’esito del test, allora, senza nulla togliere alla fotografia sincronica, si sposterebbe su un piano diverso: quanto sono stato capace, insieme alla comunità di cui faccio parte, di avvicinare due gruppi inizialmente così distanti? Di segnare in direzione univocamente positiva la loro storia di apprendimento?

Queste piccole storie locali e soggettive, per le quali tante istituzioni non mostrano alcun interesse, potrebbero diventare parte della considerazione di due grandi storie: quella della secondaria nel suo insieme e quella del passaggio dalla scuola all’università. Se queste diverse storie si considerassero insieme, un caso più vicino all’utopia che alla realtà, si verificherebbe davvero una valutazione di sistema approfondita e fertile di indicazioni per le scelte future.

Una simile impostazione storicistica e comparativa, condotta in sintonia con sperimentazioni costruite in base a criteri scientifici, potrebbe addirittura contribuire a verificare nella realtà la congruità e l’utilità delle innovazioni che si pensa di introdurre nella scuola, per esempio, comparando gli esiti di scuole in cui si praticano forme di didattica diverse: è vero che una classe rovesciata assicura risultati migliori di una classe “tradizionale”? Difficile rispondere in maniera credibile se non si confrontano percorsi significativi condotti utilizzando le due differenti metodologie.

Lo stesso discorso, e più importante ancora, varrebbe per novità come la massiccia introduzione delle tecnologie per l’apprendimento nelle aule e nel percorso formativo: una misurazione comparata su diverse realtà (più e meno “tecnologizzate”) aiuterebbe a capire davvero se e quanto una didattica che faccia largo uso di strumenti e dispositivi assicuri migliori esiti in termini di competenze, alfabetizzazione e comprensione.

Tuttavia, proprio quest’ultimo esempio mostra come il sistema di cui INVALSI fa parte si muova non in una direzione utopistica, ma se mai distopica. Lo prova il fatto che gli esiti negativi dell’unica seria sperimentazione sulle ricadute culturali e formative delle nuove tecnologie (la sperimentazione classi 2.0, al centro delle riflessioni di Adolfo Scotto di Luzio nel suo “Senza educazione”) siano stati nascosti e ignorati, a vantaggio del dogma digitale 4.0, supportato oggi dal verbo del PNRR e dei suoi profeti ministeriali.

Nel contesto attuale, tracciare la storia dell’apprendimento di uno studente, una classe (e quindi di ogni docente) si tradurrebbe in un distopico atto di controllo sociale, non nel tentativo di usare l’esperienza acquisita per migliorare la professionalità di chi insegna, e di conseguenza l’efficienza del sistema. Proprio questa logica di controllo condiziona oggi la percezione e il vissuto dei test da parte della maggioranza dei docenti. Del resto, progressisti e conservatori politici sembrano uniti sull’idea che il miglioramento del sistema passi per la divisione, la competizione, la leva della differenza economica (fra le istituzioni, tramite l’autonomia differenziata; fra le persone, con percorsi stipendiali sottoposti ad un regime di test di cui INVALSI sarebbe parte integrante).

Ci troviamo in una situazione di isolamento e individualismo, di cui la stagione dei test costituisce la cartina di tornasole: il docente, con la sua password, prende visione dei risultati complessivi dei suoi allievi (ferma restando la sacra privacy che gli impedisce di ragionare sui singoli) e della scuola (ferma restando la sacra privacy che non consente di ragionare su differenze fra corsi, metodi, risultati di colleghe e colleghi dai quali ci sarebbe molto da imparare, in un apprendimento davvero fra pari).

A noi, avvolti dalla ragnatela appiccicosa della burocrazia, il compito di tentare di rispondere alla spinta verso l’isolamento e l’autoreferenzialità, con pratiche autentiche di confronto, scambio, collaborazione, rispetto reciproco.

Si può fare, perfino partendo da una foto e dalla scoperta dell’acqua calda.

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