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Romano Luperini
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Daniele Lo Vetere
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L’opera di Cases è composta di omeomerie, parti molteplici che tendono a riflettere, in modo necessariamente simpleiadico, una totalità che è andata in frantumi. Del resto, egli ne era cosciente, giacché si vantava, come Antonio Labriola, di non aver mai scritto un libro (a parte la tesi di laurea su Junger). In quelle omeomerie, fatte di articoli, saggi, recensioni, raccontini e perfino poesie, si manifesta, all’insegna della classicità, un epigono di Karl Marx, di Thomas Mann e di Bertolt Brecht che reagisce con l’acido solforico dell’ironia e del sarcasmo alla fenomenologia sempre più oscena del tardo capitalismo. Della sua lezione etico-politica merita di essere ricordato l’intransigente antiamericanismo, da lui ravvisato quale preliminare e necessaria forma – l’unica intellettualmente e moralmente degna – di reazione e di opposizione al volto, per l’appunto osceno e spesso atroce, dello “Zeitgeist” che domina l’Occidente. E giustamente Cases ebbe a criticare Habermas, che nello “Historikerstreit” contro Nolte era giunto a prendere gli Usa quale modello di democrazia. Del suo contrastato maestro Giorgio Lukàcs gli rimase del tutto estranei il progetto di un’ontologia dell’essere sociale e, in buona sostanza, la lezione del razionalismo incarnata da Spinoza, da Kant e da Hegel. Cesare Cases proveniva in effetti da un altro ramo: quello corrispondente alle filosofie decadenti
critico-negative, di cui l’innocuo messianismo testimoniale di Benjamin e la involuta dialettica negativa di Adorno sono altrettante superfetazioni. E come tutti i corifei di quel ramo irrideva, con spirito goliardico, alle catene senza liberarsene.