Per un’analisi del voto. Contro il rischio autoritario
Hanno avuto ragione i sondaggi, pur con tutti i dubbi sull’intera operazione. Ha prevalso il partito di estrema destra e la Meloni sarà incaricata di formare un governo. Dopo 80 anni ritorna un governo di estrema destra. Ora i vari “analisti”, editorialisti della carta stampata e dei media, che avevano dichiarato in campagna elettorale come l’antifascismo non sia più un valore “spendibile”, si affannano a dipingere il diavolo meno nero di quanto sia. La Meloni sarà “conservatore” secondo l’etichetta del gruppo che guida al parlamento europeo, sarà “post-fascista” in base alle sue origini, che però non ha mai smentito, o sarà banalmente “neo-fascista” come è più preciso dire, stando la continuità dei simboli e la verniciata perbenista alla vecchia retorica di “Dio, patria e famiglia”. Come sappiamo dalla semiotica i simboli hanno un valore potente ed evocativo: la Meloni ha rifiutato l’invito della senatrice a vita Liliana Segre di togliere dal proprio simbolo la fiamma tricolore della Repubblica Sociale di Salò e del MSI. La sera delle elezioni, pur mantenendo un profilo basso, che è dettato dalla scelta di mostrare un volto accattivante ai potenti d’Italia e d’Europa, la Meloni ha dedicato la vittoria “a coloro che non ci sono più”, tacendo opportunisticamente chi siano questi morti. Ma siccome il lupo perde il pelo, ma non il vizio, ci ha pensato il fido La Russa, il bombarolo mai punito dei boia chi molla di Reggio Calabria, a precisare i nomi: gli esponenti della “maggioranza silenziosa”; Almirante, l’inventore del fascismo in doppio petto, e Tatarelli, “il ministro dell’armonia”. Mancava solo il Mussolini “uomo di pace” della conferenza di Monaco e sappiamo come andò a finire. La reale natura neo-fascista o “il fascismo morbido”, di cui diceva Saramago, non tarderà a rivelarsi sotto la riverniciatura soprattutto se la guerra, che viene tenuta ai margini del campo visivo, avviterà la crisi politica, sociale, economica ed energetica in atto.
A mio avviso una prima analisi del voto evidenzia almeno tre aspetti principali: la crescita dell’astensionismo, l’effetto distorcente dell’incostituzionale legge elettorale, con cui siamo stati costretti a votare, e la distribuzione territoriale del voto.
1. I votanti sono passati dal 71,93% delle elezioni del 2018 (33.923.321 elettori secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Interno) al 63,79% del 2022 (29.355.592 cittadini), cioè 8,14 punti percentuali in meno. Si tratta della percentuale di votanti più bassa dell’intera storia repubblicana. Da una parte questo attesta la crisi delle democrazie “liberali” come è di moda dire oggi, mentre a livello planetario il perimetro degli stati retti con un sistema democratico si sta restringendo a vantaggio dei regimi autoritari. Dall’altra a casa nostra l’astensionismo ha favorito la destra, che in valore assoluto non ha migliorato il numero dei voti (erano 12.152.345 nel 2018 e sono stati 12.300.244 nel 2022, dunque solo 147.679 voti in più), ma percentualmente è passata dal 37% al 43,79%. Ciò è bastato a favorirla nella distribuzione dei seggi in Parlamento, grazie alla convergenza dell’effetto distorcente del Rosatellum, di cui dirò in dettaglio tra poco, e l’improvvido taglio del numero dei parlamentari, voluto dai 5 Stelle e appoggiato in maniera subalterna dal PD. Così un modestissimo incremento dei voti ha decretato il successo spropositato della destra. Rimane aperto il problema dell’orientamento politico degli astenuti. Non vi sono ancora studi in proposito: la questione dell’astensionismo è stata rapidamente archiviata sia dalla “politica” che dall’informazione, entrambe evidentemente poco interessate al destino della nostra democrazia. È possibile fare un’ipotesi, dato che i voti della destra sono aumentati e quelli del cosiddetto centro-sinistra sono diminuiti (dai 7.506.723 del 2018 ai 7.337.975 del 2022, dal 22, 86% al 26,13%). La destra, le cui vele sono state gonfiate dal vento favorevole del contesto sociale e dei sondaggi insieme all’insipienza del PD, ha portato al voto una frazione in più dei propri elettori. Non si è mossa quella che chiamo “la riserva della Repubblica”, che questa volta ha sottovalutato il pericolo autoritario per la nostra democrazia e che soprattutto ha mandato un segnale negativo all’appello reiterato al voto “utile” di Letta, cioè ha pensato che una sconfitta del PD potesse avere l’effetto positivo di una riflessione complessiva nel centro sinistra.
2. L’effetto distorcente del Rosatellum, voluto dalla miopia di “furbo” Renzi, quando voleva fare man bassa delle istituzioni parlamentari, ha completato il disastro. La legge elettorale maggioritaria contiene un premio di maggioranza “occulto”, quantizzabile in quest’occasione nel 15-16% dei seggi, come si può dedurre facilmente dalla grafica qui sotto (elaborata da Francesco Biacchi del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale).
Oltre al responsabile più remoto di questo sistema elettorale, all’epoca segretario del PD, che – come era facilmente prevedibile – ha messo una clava in mano alla destra, va considerata la responsabilità dell’attuale gruppo dirigente del PD. Quest’ultimo all’epoca del governo Conte 2 non ha saputo ottenere quanto aveva detto, cioè di accompagnare il taglio dei parlamentari ad una riforma della legge elettorale in senso proporzionale. Ciò fa parte delle occasioni perdute del governo giallo-rosso, quando c’era ancora tempo per contrastare l’ascesa dell’estrema destra. Per fortuna la coalizione delle destre non ha raggiunto la maggioranza qualificato dei due terzi dei due rami del Parlamento, che le avrebbe reso possibile procedere alla manomissione autoritaria della Costituzione (presidenzialismo e autonomia differenziata) senza doverla sottoporre a referendum confermativo. Rimane il rischio democratico di una maggioranza assoluta delle destre sia alla Camera che al Senato. Già abbiamo avuto le prime dichiarazioni del cosiddetto “Terzo Polo” di Calenda e di Renzi con la disponibilità a discutere delle “riforme costituzionali”. Non dobbiamo dimenticare il convinto tentativo di Renzi in questa direzione, sconfitto nel referendum del 2016. Ciò deve essere motivo di riflessione sulla propensione del “centro” verso la destra come testimonia una campagna elettorale, che ha condotto contro il centro-sinistra.
3. Se si osserva il colpo d’occhio delle cartine colorate, che accompagnano l’articolo di Ilvo Diamanti, sociologo esperto sul tema della rappresentanza, ne «La Repubblica» di martedì 27 ottobre possiamo avere un’idea immediata della distribuzione territoriale del voto. Non solo il blu della destra è diffuso in tutt’Italia, ma il partito della Meloni è anche il più diffuso nel centro-nord a differenza della sua presenza territoriale storica prevalente al Sud. Nelle province meridionali il primo partito sono i 5 Stelle con il colore giallo, cosa che è stata messa in relazione con il numero più alto di percettori del reddito di cittadinanza, la loro “misura” di bandiera. In realtà tale relazione diretta è stata statisticamente smentita, mentre sembra esserci un rapporto tra numero di percettori del “reddito” e percentuale di astenuti secondo un fenomeno che i sociologi chiamano “ingratitudine dell’elettore”. Il “rosa pallido” del PD (come sottolinea quasi ironicamente il giornale storicamente più vicino al partito di Letta) non si concentra nelle grandi città, secondo la narrazione che dà il PD radicato nei centri storici delle grandi città tra i ceti medio-alti, quelli indicati con disprezzo dalla destra come “radical chic”. Il rosa si concentra in alcune zone del Centro Italia: Firenze e dintorni, il triangolo Modena, Parma e Reggio Emilia, a cui va aggiunta Genova e l’hinterland. Sono i luoghi dell’insediamento storico del PCI, dove c’è ancora una generazione anziana che crede nella continuità tra PCI e PD. Un punto interessante è il 7,79% (2.186.699 voti) del Terzo Polo, che ripropone la questione se esista ancora in Italia un “centro” dello schieramento politico. Calenda e soci non raggiungono le due cifre percentuali, a cui assegnavano la propria ambizione di fare da ago della bilancia della politica italiana. Neppure, però, il risultato è la sconfitta che avevo pronosticato e auspicato per chiudere la pericolosa partita dei “furbi”. Confluiscono in questo risultato una frazione limitata di “moderati” preoccupati di difendere i residui privilegi sociali, che la DC foraggiava a spese dell’erario all’epoca del grande centro, finito – a mio modesto avviso – con la crisi dell’interclassismo cattolico. Il Terzo Polo, a stare alle dichiarazioni aperturiste di Calenda verso la destra, ha un’evidente propensione verso le soluzioni autoritarie, basti la proposta di “militarizzare” il porto di Piombino per superare d’imperio l’opposizione dei cittadini alla collocazione del rigassificatore. Tutto ciò dà un’indicazione a proposito delle scelte della borghesia imprenditoriale italiana. Secondo alcune analisi gli imprenditori del Nord Est hanno fatto confluire il proprio voto sul partito della Meloni e su quello di Calenda. Ciò confermerebbe la previsione che avevo fatto nell’articolo qui pubblicato il 24 settembre. Si tratta a mio avviso di una scelta provvisoria del male minore.
In margine una considerazione va fatta sul magro risultato della lista di estrema sinistra, che pure si coagulava introno alla figura forte di De Magistris. Unione Popolare ha preso 402.964 voti per una percentuale dell’1,43%, analoga a quella raggiunta da tutte le liste di estrema sinistra da quella di Democrazia Proletaria del 1976 in poi. Penso che questo ponga un interrogativo ineludibile: vi deve essere un errore “sistematico” se l’estrema sinistra non riesce ad interpretare il malessere sociale della crisi in corso, quando in Francia la sinistra di Mélenchon raggiunge il 20%. La più lunga preparazione della formazione d’Oltralpe (simile a quella federativa di Siryza in Grecia) e l’improvvisazione tutta italiana di Unione Popolare non è sufficiente a spiegare un gap così forte e soprattutto il ripetersi costante del risultato lungo quasi mezzo secolo.
In conclusione la situazione politica sembra far uscire di scena – almeno per il momento – un governo Draghi 2, che poteva essere credibile nel caso di “pareggio”, possibile in base al risultato dell’ultimo voto amministrativo, se il centro sinistra avesse saggiamente optato per un fronte unitario antifascista o anche solo per un accordo tecnico tale da ovviare l’effetto maggioritario del Rosatellum, come hanno sostenuto fino all’ultimo i costituzionalisti del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale. Ci sono le basi per una “politica dei due tempi”, rispetto ai due scenari, delineati nell’articolo precedente. Allo stato attuale dei giochi sembra prevalere la soluzione “giolittiana”, cioè il tentativo di ricondurre la coalizione delle destre a trazione neo-fascista alle compatibilità dettate dalle istituzioni e dalla grande borghesia finanziaria europea. In questi giorni la Meloni ha il suo bel da fare per far tornare i conti: non è semplice per lei tenere a freno la parte più nostalgica dei suoi e trovare la quadratura della compagine governativa con uomini di fiducia dell’UE nei dicasteri chiave. In tale operazione sta giocando un ruolo di garanzia proprio Mario Draghi sotto la coperta istituzionale di garantire un ordinato passaggio delle consegne. Se, però, le cose andassero male, soprattutto di fronte all’aggravamento della crisi sociale legata al prolungarsi della guerra e delle sue conseguenze economiche ed energetiche, la destra neo-fascista si sentirà autorizzata ad un uso più disinvolto della repressione poliziesca, come sta scritto nel suo DNA. Tale vocazione autoritaria si è già espressa nei giorni scorsi con l’intervento della polizia contro gli studenti del Liceo Virgilio di Roma, riuniti in assemblea per discutere i risultati delle elezioni con un esperto non invitato secondo i canali istituzionali. L’intervento mai avvenuto in epoca recente ha portato alla denuncia di quattro studenti per lo più minorenni incensurati.
Credo che i cittadini democratici e antifascisti debbano esercitare un’attenta vigilanza contro i rischi autoritari possibili, auto-organizzandosi in una rete capillare di comitati per la difesa della Costituzione.
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Il voto della sinistra, quale è scaturito da questa tornata elettorale, non è e non può essere indipendente dalle dinamiche della lotta di classe. Così è stato sempre, in Italia e in Europa. Negli ultimi dieci anni i pochi successi della sinistra sono stati il sottoprodotto di conflitti sociali. Così è stato per lo sviluppo di “Syriza” in Grecia, scaturito dalle grandi mobilitazioni di massa contro l’austerità; così è stato per lo stesso “Podemos” in Spagna, sospinto dall’ondata delle grandi manifestazioni di piazza della giovane generazione degli ‘indignados’. Sennonché, come era inevitabile, le esperienze di governo di “Syriza” e di “Podemos” hanno pienamente confermato che anche i successi elettorali più strepitosi sono effimeri se sfociano nelle compromissioni ministeriali. L’Italia ha oggi il poco invidiabile primato di essere, insieme con la Polonia e l’Ungheria, uno dei paesi più reazionari dell’Unione Europea. Enormi, nel determinare questo esito politico, sono le responsabilità del Partito della Rifondazione Comunista, che ha polverizzato un importante patrimonio politico e ideale con la partecipazione subalterna al governo Prodi (2006-2008), facendosi cogliere, installato in questa nefasta collocazione, dall’esplodere, nel 2008, della grande crisi capitalistica mondiale e sottoscrivendo di propria iniziativa lo scambio tra l’accettazione delle missioni militari, la detassazione dei profitti, la precarizzazione del lavoro, i tagli ai servizi sociali (sanità e scuola in primo luogo) e l’ottenimento di un ministero, di qualche sottosegretariato e della presidenza della Camera dei deputati. Da qui è sortita l’implosione di quel partito opportunista, preludio del crollo futuro e dell’attuale irrilevanza. Nello spazio che in tal modo si è venuto a creare è poi passato, come un rullo compressore, il ciclo del populismo reazionario nelle sue diverse, ma equivalenti, incarnazioni (il grillismo, il salvinismo e ora il criptofascismo della Meloni). La crisi della sinistra parte da queste esperienze fallimentari e non dalla frantumazione, come pretende il senso comune di tanti orfani della vecchia Rifondazione, giacché è vero il contrario, e cioè che la frantumazione è l’effetto del crollo del PRC, non la sua causa. La crisi della sinistra si configura allora come un ‘mixtum compositum’ di revisionismo, riformismo e trasformismo, sfociato in un adeguamento subalterno, gabellato talvolta come prova di spregiudicatezza e di realismo, al sistema borghese-capitalistico. Un cedimento che ha la sua base nella piccola borghesia intellettuale, un cedimento che ha avuto profonde ripercussioni sullo stato d’animo e sugli orientamenti di vasti settori della classe operaia, un cedimento che non ha coinvolto soltanto le formazioni responsabili delle politiche collaborazioniste, ma si è esteso anche a quelle forze della sinistra comunista che tali politiche hanno denunciato e combattuto, poiché, per usare un’immagine nautica, è inevitabile che, quando si abbassa il livello del mare, si arenino tutte le imbarcazioni, anche quelle la cui rotta è differente dalla rotta delle altre. Pensare di risolvere una crisi così profonda con espedienti elettoralistici è veramente una povera illusione. A maggior ragione è tale quando, nel nome della più ampia unità, si arriva a cancellare la stessa identità della sinistra comunista, dando vita a liste genericamente democratiche improntate ad un progressismo da ‘boy scout’ o ad un buonismo del tipo di “Emergency”, quali la lista Arcobaleno, Rivoluzione Civile, Altra Europa con Tsipras, Potere al Popolo, La Sinistra, Unione Popolare e così via degenerando. Tutti stratagemmi presentati ogni volta come la soluzione finalmente scoperta per uscire dalla marginalità, e ogni volta, per dirla col Bardo, squallidi come il vento che soffia tra le foglie secche nei mesi autunnali.