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diretto da Romano Luperini

ecrire la vie

Una passione meravigliosa e terrificante. L’inizio di Perdersi di Annie Ernaux

Annie Ernaux ha vinto il premio Nobel per la letteratura 2022. Per l’occasione ripubblichiamo la traduzione di un estratto dal suo libro Se perdre del nostro direttore Romano Luperini, uscita sul nostro blog cinque anni fa. Il libro, allora inedito, sarà pubblicato tra breve da L’orma.


Introduzione e traduzione a cura di Romano Luperini

Perdersi è il titolo di un romanzo di Annie Ernaux, Se perdre, ancora inedito in Italia. Pubblicato in Francia nel 2001, ora è compreso nel volume Écrire la vie, Gallimard, Paris 2016, che comprende quasi tutti i romanzi di Ernaux, quelli già tradotti in italiano (Gli anni, Il postoPassione semplice; manca L’altra figlia, uscito da poco, edito in Italia da L’orma) e diversi altri ancora inediti nel nostro paese, come, appunto, Perdersi, a mio avviso, con Gli anni, uno dei risultati più alti di questa grande scrittrice.

Si tratta di un diario. Anni dopo la sua stesura Ernaux lo pubblica per una vitale contraddizione: per «salvare», come scrive lei stessa, le emozioni e i momenti di intensità di una passione amorosa e nello stesso tempo per prenderne le distanze e per vendicarsi dell’orrore che questa passione, «meravigliosa e terrificante», la ha fatto vivere. Da un lato, della passione l’autrice esalta di continuo la «bellezza» (termine ricorrente, sin dall’apertura): in essa lei ha veramente vissuto, e le parole, i gesti che l’hanno accompagnata sono parole e gesti vitali, rimasti incancellabili per intensità nella memoria; dall’altro, essa si è sviluppata all’interno di un rapporto sbagliato dove lei si è lasciata sopraffare da un maschio cinico ed egoista che la ha imposto un ruolo subordinato e alla lunga degradante (per cui pubblicare il diario è anche una vendetta, e infatti l’autrice dichiara di non preoccuparsi se l’uomo, fra l’altro sposato, è facilmente riconoscibile e identificabile). La straordinaria forza di questo romanzo-diario consiste in questa contraddizione e nella capacità dell’autrice di farci vivere il fascino e la miseria di una relazione amorosa  vissuta  in chiave esclusivamente sensuale ed erotica.

Di Perdersi si traducono qui, per la prima volta in Italia, il preambolo e la prima giornata del diario (Annie Ernaux, Écrire la vie, Gallimard, Paris 2016, pp. 699-705).

L’inizio di Perdersi

Il 16 novembre 1989 ho telefonato all’ambasciata dell’URSS a Parigi. Ho chiesto di passarmi il signor S. La centralinista non ha risposto. C’è stato un lungo silenzio e una voce di donna ha detto: «Il signor S. è ripartito ieri per Mosca». Ho attaccato subito. Mi è sembrato di aver già sentito questa frase al telefono. Non erano le stesse parole, ma il senso era lo stesso, lo stesso il peso d’orrore, e la stessa impossibilità di crederci. Dopo mi sono ricordata l’annuncio della morte di mia madre tre anni e mezzo prima. L’infermiere dell’ospedale mi aveva detto: «Sua madre si è spenta stamani dopo la colazione».

Il muro di Berlino era caduto qualche giorno prima. I regimi imposti in Europa dall’Unione sovietica vacillavano uno dopo l’altro. L’uomo che era appena tornato a Mosca era un fedele servitore dell’URSS, un diplomatico russo in servizio a Parigi.

L’avevo incontrato l’anno precedente durante il viaggio a Mosca, Tbilissi e Leningrado di una delegazione di scrittori che lui aveva avuto l’incarico di accompagnare. Avevamo passato insieme l’ultima notte a Leningrado. Di ritorno in Francia, avevamo continuato la nostra relazione. Il rituale era immutabile: mi telefonava chiedendomi se poteva venire il pomeriggio o la sera, più raramente l’indomani o il giorno ancora successivo. Arrivava, non restava che qualche ora. Noi la passavamo facendo all’amore. Ripartiva e io vivevo nell’attesa della sua prossima chiamata.

Aveva trentacinque anni. Sua moglie era la sua segretaria all’ambasciata. La sua carriera, di cui ero venuta a conoscenza per frammenti durante i nostri appuntamenti, era quella classica di un giovane dell’apparato: adesione a un Komsomol, poi al PCUS (Partito comunista dell’Unione Sovietica), soggiorno a Cuba. Parlava francese in modo spedito, con un forte accento. Benché seguace dichiarato di Gorbaciov e della perestroika, quando aveva bevuto rimpiangeva l’epoca di Breznev e non nascondeva la sua venerazione per Stalin.

Non ho mai saputo niente delle sue attività che ufficialmente erano d’ordine culturale. Oggi mi sorprende che non io non gli abbia mai fatto domande. Non saprò mai nemmeno ciò che io sono stata per lui. Il suo desiderio per me è la sola cosa di cui io  sia sicura. In tutti i sensi del termine, la mia era la situazione dell’amante dell’ombra.

In questo periodo non ho scritto niente, se non ciò che mi era richiesto da qualche rivista. Il diario che tengo irregolarmente dall’adolescenza è stato il solo vero luogo di scrittura. Era un modo per sopportare l’attesa del prossimo appuntamento e di raddoppiare il piacere  degli incontri annotando parole e gesti erotici. Soprattutto di salvare la vita, salvare dal nulla ciò che pure gli si avvicina di più.

Dopo la sua partenza dalla Francia ho cominciato un libro su questa passione che mi aveva attraversato e continuava a vivere in me. L’ho proseguito in modo discontinuo, terminato nel 1991 e pubblicato nel 1992: Passione semplice.

Nella primavera del 1999 sono andata in Russia. Non c’ero più ritornata dopo il viaggio del 1988. Non ho rivisto S. e ciò mi era indifferente. A Leningrado, ridivenuta San Pietroburgo, non mi sono ricordata il nome dell’albergo dove avevo passato la notte con lui. Durante questo soggiorno la sola traccia che testimoniasse la realtà di questa passione era la conoscenza che io avevo di qualche parola russa. Mio malgrado cercavo continuamente, in modo spossante, di decifrare i caratteri cirillici sulle insegne e sui cartelli pubblicitari. Mi stupivo di conoscere queste parole, questo alfabeto. L’uomo per cui io li avevo imparati non aveva più esistenza dentro di me e mi era indifferente che fosse vivo o morto.

Nel gennaio o nel febbraio 2000 ho cominciato a rileggere i quaderni del mio diario corrispondenti all’anno della mia passione per S., che io non avevo più aperto da cinque anni. (Per motivi che non è necessario evocare qui, erano stati chiusi in un posto che non li poneva nella mia disponibilità). Mi sono accorta che in queste pagine c’era una “verità” altra rispetto a quella contenuta in Passione semplice. Qualcosa di crudo e di nero, senza redenzione o riscatto, come una oblazione. Ho pensato che anche questo dovesse essere portato alla luce.

Fissandolo sul computer, non ho modificato né tagliato niente  dal testo iniziale. Le parole che si sono deposte sulla carta per fissare dei pensieri, delle sensazioni in un dato momento hanno per me un carattere  irreversibile quanto il tempo: sono il tempo stesso. Semplicemente ho fatto ricorso alle iniziali quando mi riferivo a persone su cui esprimevo un giudizio che poteva ferirle. Egualmente per designare l’oggetto della mia passione, S. Non che io creda di poter preservare così il suo anonimato – illusione ben vana – ma perché questa derealizzazione conferita dall’iniziale mi sembra corrispondere a ciò che questo uomo è stato per me: una figura dell’assoluto, di ciò che suscita il terrore senza nome.

Il mondo esterno è quasi del tutto assente da queste pagine. Ancor oggi mi pare più importante aver notato, giorno per giorno, le parole, i gesti, tutti i dettagli – dai calzini che conservava facendo all’amore al mio desiderio di morire nella sua auto – che costituiscono questo romanzo della vita che è una passione, piuttosto che la presenza del mondo, di cui potrei sempre trovare la prova negli archivi.

Sono consapevole di pubblicare questo diario per una sorta di comando interiore, senza preoccuparmi di ciò che lui, S., proverà. A buon diritto potrà ritenere che si tratta di un abuso di potere letterario, cioè di un tradimento. Io capisco che possa difendersi con il riso o con il disprezzo, «io non la vedevo che per una botta e via». Preferirei che accettasse, anche se non lo comprende, di essere stato per alcuni mesi, a sua insaputa, questo principio originario, meraviglioso e terrificante, di desiderio, di morte e di scrittura.

Autunno 2000

   1988

Settembre

Martedì 27

S. …la bellezza di tutto ciò: esattamente i medesimi desideri, i medesimi atti di altre volte, nel ’58, nel ’63, e con P. E la medesima sonnolenza, il medesimo torpore. Si staccano tre scene. La sera (domenica) nella sua camera, quando noi eravamo seduti l’uno accanto all’altro, sino a toccarci, nel momento in cui non avevamo detto nulla ed eravamo consenzienti e desiderosi di ciò che stava per accadere, e  dipendeva ancora da me. La sua mano passava, sfiorandole, vicino alle mie gambe distese, ogni volta che depositava la cenere della sua sigaretta nel recipiente posto a terra. Davanti a tutti. E noi parlavamo come se niente fosse. Poi gli altri se ne vanno (Marie R., Irene, R.V.P.) ma F. s’impunta,  per partire anche lui vuole aspettare me. Io so che se parto ora dalla camera di S., non avrò più la forza di tornarci. Qui tutto s’imbroglia. F. è fuori, o vicino, la porta è aperta, e mi sembra che S. e io ci gettiamo l’uno contro l’altro, che la porta si chiuda (chi è stato?), noi siamo nell’ingresso, il mio dorso contro il muro spegne e accende la luce. Bisogna che mi sposti. Lascio cadere il mio impermeabile, la mia borsa, il mio tailleur. Lui spegne. Comincia la notte che io vivo con assoluta intensità (eppure con il desiderio di non rivederlo più, come altre volte in passato).

Secondo momento, lunedì nel pomeriggio. Quando ho finito di fare la valigia, bussa alla porta della mia camera.  Nell’ingresso noi ci accarezziamo. Mi desidera talmente che io mi inginocchio e lo faccio godere con la bocca, lungamente. Lui tace, poi mormora solamente il mio nome col suo accento russo, come una litania. Il mio dorso è contro il muro, nero intorno (non vuole la luce), la comunione.

Ultimo momento, in treno di notte per Mosca. Noi ci abbracciamo a una estremità del vagone, la mia testa vicina a un estintore (ma l’ho identificato solo dopo). E tutto ciò è accaduto a Leningrado.

Nessuna prudenza da parte mia, nessun pudore, nessun dubbio, infine. Il circolo si chiude, commetto gli stessi errori di altre volte e non sono più degli errori. Niente altro che bellezza, passione, desiderio.

Dopo il mio ritorno in aereo, ieri, io tentato di ricostituire l’accaduto, ma tutto tende a sfuggirmi, è come se qualcosa fosse successo al di fuori della mia coscienza. Sola certezza, a Zagorsk, sabato, nel momento della visita al Tesoro, con le pantofole ai piedi, lui mi prende per la vita per qualche secondo e io so subito che accetterei di andare a letto con lui. Ma, poco dopo, che ne era del mio desiderio? Pranzo con Tchetverikov, il direttore della VAAP (Agenzia sovietica dei diritti d’autore), e S. è lontano da me. Partenza per Leningrado con un treno con le cuccette. In quel momento lo desidero ma non è possibile niente e io non me ne preoccupo: che  accada o no non mi fa soffrire. La domenica visita di Leningrado, al mattino la casa di Dostoeveskij. Credo di essermi sbagliata sulla  attrazione che eserciterei su di lui e non ci penso più (è sicuro?). Pranzo all’hôtel Europa accanto a lui, ma ciò accade molte volte dall’inizio del viaggio. (Un giorno, in Georgia, lui era seduto al mio fianco, io ho asciugato le mie dita bagnate sui suoi jeans, spontaneamente). Visita all’Ermitage, non siamo spesso insieme. Ritorno attraverso un  ponte sulla Neva, noi siamo insieme, appoggiati coi gomiti al parapetto. Cena all’hôtel Karalia, sono separata da lui. R.V. P. lo spinge a far ballare Marie, è un lento. Eppure io so che ha lo stesso mio desiderio. (Sto per dimenticare un episodio, lo spettacolo di balletti, prima di cena: io gli sono seduta accanto  e non penso che al mio desiderio per lui, soprattutto durante la seconda parte dello spettacolo, sul genere di Brodway, “I tre moschettieri”. Nella mia testa continua ancor oggi quella musica. Io allora mi dico: se ritrovo il nome della compagna di Céline, una ballerina, noi andremo a letto insieme. Lo ritrovo: è Lucette Almanzor). Nella sua camera, dove ci ha invitati a bere vodka, si dà da fare visibilmente per sedersi accanto a me (grande difficoltà per escludere F. che mi corre dietro e vuole anche lui quel posto). E a questo punto io so, io sento, io sono sicura. È la concatenazione perfetta dei momenti, la complicità, la forza di un desiderio che non ha avuto bisogno di molte parole, tutto di una grande bellezza. E quella “assenza” di alcuni secondi in cui si produce la fusione vicino alla porta. Afferrarsi l’uno con l’altro, abbracciarsi sino a morirne, lui mi strappa la bocca, la lingua, mi serra.

Sette anni dopo il mio primo soggiorno in URSS, una rivelazione circa il mio rapporto con un uomo (con un solo uomo, lui, non un altro, come mi successe una volta con Claude G, poi con Philippe). E l’immensa stanchezza. Lui ha trentasei anni, in realtà trenta, grande (vicina a lui, senza tacchi, io sono piccola), magro, gli occhi verdi, castano chiaro. L’ultima volta che ho pensato a P., era nel letto, dopo aver fatto all’amore, con una lieve tristezza. Ora io non penso che a rivedere S., ad andare sino in fondo a questa storia. E come nel ’63 con Philippe, lui ritorna a Parigi il 30 settembre.

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