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diretto da Romano Luperini

Un divieto francamente politico e pedagogico. Smartphone a scuola /2

Ci sono buone ragioni per trovare condivisibile la decisione del liceo privato bolognese Malpighi di vietare gli smartphone per tutta la mattina a studenti e docenti. Quanto meno ci sono buone ragioni per prendere sul serio l’intenzione francamente politica e pedagogica della decisione e per farne materia di riflessione, anche se su qualche aspetto di dettaglio si può dissentire. Ci sono invece state prevedibili, istintive, reazioni di sdegno o ironia, che poco si sono sforzate di operare quella riflessione. Se davvero ci interessa quello che succede nelle classi, ai nostri studenti, a tutti noi; se davvero ci interessa il rasoterra umano ed educativo, e non l’ortopedia del corretto posizionamento ideologico democratico, a nulla serve additare al pubblico ludibrio, da posizione più avanzata, una decisione «retrograda, antica, anacronistica», da «appassionati della scuola dell’Ottocento», come fa ad esempio Alex Corlazzoli nel suo intervento agitatorio e sfocato.

È vero, vietare è una strategia fiacca con gli adolescenti, che di fronte al divieto vanno allo scontro. È vero, siamo ormai immersi nell’infosfera. È vero, ci sono insegnanti noiosi. Tuttavia credo sia necessario, sempre e comunque, cercare di calare materialisticamente la discussione su divieti ed educazione nel nostro contesto storico e di declinarla in relazione a questo tema specifico.

Un’infrastruttura vampirizzante

L’anno scorso ho imposto alla mia classe prima di lasciare gli smartphone in una scatola di cartone all’inizio delle mie lezioni. Era impossibile per loro staccarsene. La cosa che più mi ha inquietato però è stato constatare che, nemmeno il tempo di dichiarare conclusa la lezione, una gran parte di loro si precipitava a recuperare lo smartphone. Un gesto da drogati, non saprei come definirlo diversamente.

Non citerò la letteratura sul tema. Faccio affidamento sulla mia esperienza di utente della rete e dei social network. Faccio appello all’esperienza dei lettori. Solo chi ha un autocontrollo davvero stoico – o più probabilmente è solo disinteressato e annoiato dal digitale –, o chi è molto disonesto con se stesso e non lo ammette, o ancora chi per narcisismo preferisce presentarsi in pubblico nelle vesti di chi è sempre dalla parte dei ragazzi, può negare che stiamo maneggiando strumenti che creano un’elevatissima dipendenza: non in tutti, ma in molti. Anche io che scrivo, ho quella dipendenza.

Da bambino ero un potenziale addicted dei videogiochi: perché erano meravigliosi, stimolanti, intelligenti, e parlo di videogiochi ormai pateticamente rozzi e datati al confronto di quelli disponibili oggi. Che cosa, chi, mi preservò? Un rigoroso controllo del tempo passato a giocare da parte dei miei genitori. Devo molto, da adulto, a questo loro rigore. Perché ho giocato a pallone, sono andato ai giardinetti, ho disegnato, ho letto moltissimo perché ho sempre adorato farlo: ma posso garantire che di fronte a Mortal kombat, Sonic o Age of empire anche un lettore appassionato firma la resa senza condizioni: quando un libro con la pistola incontra un videogioco con la testata nucleare, il libro con la pistola è un libro incenerito.

I social network, diversamente da altri media, sono poi infrastrutture costruite intenzionalmente dai colossi del big tech per vampirizzare la nostra attenzione e monetizzarla, attraverso la profilazione individualizzata, lo stimolo percettivo costante, la provocazione a interagire, commentare, litigare. (E, come sapeva bene la Lucy di Dracula, essere vampirizzati è un’esperienza perturbante ed erotica).

Si dice: così si estromette la tecnologia dall’aula. Ma nient’affatto: ci sono i pc e le lim; si può stabilire che in certi momenti e a certi scopi si possa fare ricorso agli smartphone (questo, forse, è un aspetto di dettaglio criticabile nella scelta del Malpighi: dettaglio che non inficia però la sostanza, a mio parere). Cerchiamo di essere onesti. In ballo, qui, non è l’uso degli strumenti tecnologici per la didattica, neppure l’impararne un uso “critico”. In ballo, qui, è il fatto che finché lo smartphone resta acceso e sotto il banco, anche in classe il mio tempo sarà dominato dall’attesa della notifica, non dalla concentrazione nell’apprendimento. Lo smartphone non è l’oggetto di analisi critica che collochiamo al centro del nostro setting educativo per sezionarlo analiticamente, ma il polverizzatore di quel setting. È possibile far riflettere, che so, sulla violenza nella nostra società: difficile però farlo se la rissa è in corso. In quel caso si guadagna l’uscita e ci si mette al riparo dai cazzotti.

Lo so, sto un po’ calcando la mano. Ma faccio comunque fatica a capire ironie e sdegni di quegli adulti che lamentano conservatorismi, autoritarismi e proibizionismi, lì dove, al contrario, ci si sta ponendo il problema di quali strategie adottare davanti a una vera e propria forma di colonialismo aggressivo del tempo e dell’attenzione, e a scopo di lucro. Qualcuno sembra quasi confondere la distrazione da smartphone che nasce da questa invasione inarrestabile e programmata esplicitamente da piani aziendali, con il gesto poetico dello studente sognatore che s’incanta a guardare fuori dalla finestra la bellezza del mondo esterno, sempre più variopinto e vivo dello spazio grigio della classe, o con la lettura sottobanco di un romanzo, armadio che conduce a Narnia e permette di fuggire dalle noiose parole del docente, come suggerisce discutibilmente Luciano Floridi in un post pubblico su Facebook. In realtà lo smartphone non è la porta d’accesso a Narnia, ma alla Silicon Valley.

Insegnanti noiosi

Tuttavia è indubbio che la scuola faccia fatica a volte, o più che a volte, a suscitare passioni genuine. È perciò lecito chiedere che gli insegnanti si sforzino di appassionare alla conoscenza. (Un po’ più difficile è ottenerlo, anche se tutti sembrano avere ricette prêt-à-porter).

Ma si noti il corto circuito: si evoca l’incapacità degli insegnanti in connessione con il potere distraente degli smartphone; contestualmente si ribadisce il divieto di vietare. È come se dicessi a un genitore, il cui figlio non sappia staccarsi da Tik tok, che la colpa è sua, perché non ha saputo insegnargli la bellezza di uscire con gli amici o di suonare uno strumento, e se quel genitore provasse a risolvere il problema vietando per una settimana ogni uso dei dispositivi digitali, sogghignando io mormorassi: “che educazione autoritaria…”. Si chiama doppio legame: che tu faccia x o il contrario di x, comunque è sbagliato. Il doppio legame provoca schizofrenia. Si chiama anche fare come i capponi di Renzo: prendersela con il proprio compagno in affanno educativo – un altro adulto – quando il vero problema politico e pedagogico lo pone quell’infrastruttura potentissima che ci vampirizza tutti. Ma a qualche intellettuale opinionista evidentemente l’insegnante sembra un nemico più temibile di Apple o di Samsung. Perché questo conflitto tra adulti?

Sfere proprietarie

La concezione liberale e poi neoliberale dell’individuo (Dardot-Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, 2013) fonda le relazioni sociali su due pilastri, entrambi in buona sostanza di tipo mercatistico: proprietà e scambio. L’individuo ha degli scopi. Li può perseguire, naturalmente, anche con la forza e l’arbitrio, ma assai meglio è farlo per mezzo di uno scambio pacifico, così che ciascuno possa ottenere il proprio utile, in un calcolato incontro tra reciproci interessi. Si tolga pure ogni connotazione moralisticamente egoistica a questa descrizione: può funzionare anche come descrizione neutrale e spassionata.

A scuola quello che succede è che docenti e genitori, o docenti e altri adulti, si identificano in soggetti diversi, portatori di interessi diversi. La spontanea alleanza pedagogica tra scuola, famiglia, società viene sostituita da quella che chiamerei una transazione tra sfere proprietarie separate. Ecco perché, ad esempio, oggi è diventato costume diffuso sottoscrivere minuziosi e benintenzionatissimi patti educativi: c’è bisogno di mettere nero su bianco, di formalizzare e di giuridicizzare un’alleanza pedagogica che una volta era geneticamente già inscritta nella solidarietà del mondo adulto e nei suoi compiti educativi.

Questa privatizzazione dei rapporti dentro la scuola, e che certo non solo nella scuola opera, è riscontrabile a più livelli: ritirare uno smartphone può essere percepito come un’intrusione in una sfera personale (proprietaria); condizionare l’attenzione alla lezione alla capacità del docente di suscitare interesse, trasforma il rapporto tra docente e studente in un rapporto tra due privati, uno dei quali deve sedurre l’altro con la propria mercanzia e il secondo dei quali valuta se sia di suo gradimento o meno. Lo ricordo sempre ai miei studenti: io faccio ogni sforzo perché le mie lezioni siano utili e interessanti. Ma non da questo dipende il mio e vostro esser qui. Se soprattutto voi siete qui, è perché c’è un’istituzione, che esiste a garanzia della vostra educazione e di cui io sono semplice, transitorio, sostituibile “funzionario”. Se io oggi, uscendo di qui, finissi sotto una macchina, voi domani avreste comunque la garanzia di avere un insegnante di italiano a voi dedicato. Morto un professore, se ne fa un altro. Ciò che conta è la scuola.

Vietare o educare?

C’è un ultimo tema sollevato dal divieto del Malpighi: il rapporto tra norma e libertà, tra autorità e autonomia. Questione enorme. Sarò parziale e un po’ troppo pessimista. Ma vale la pena sollecitare qualche riflessione sul secondo corno del dilemma: siamo sicuri che dove predichiamo libertà e autonomia, oggi, non ci troviamo invece fra le mani qualcosa di molto diverso?

Una delle domande che Repubblica, in questa intervista, pone al preside del liceo Malpighi recita: «vietare o educare?». Questa secca opposizione – dove c’è educazione non può esserci divieto, e viceversa – la dice lunga sul nostro inconscio collettivo.

Parlare di divieti in una società gerarchica e autoritaria aveva un significato inequivocabile. Ma la nostra non è più una società disciplinare, bensì una società della prestazione: «La società disciplinare è una società della negatività. È determinata cioè dalla negatività del divieto. […] La società della prestazione si sottrae sempre più alla negatività. Essa è abolita proprio dalla crescente de-regolamentazione. […] In luogo del divieto, dell’obbligo o della legge, subentrano il progetto, l’iniziativa e la motivazione. […] Il venir meno dell’istanza di dominio non conduce, però, alla libertà. Fa sì, semmai, che libertà e costrizione coincidano» (Byung-chul Han, La società della stanchezza, 2012). Oggi il divieto, il «non potere», si è rovesciato nel «poter-fare»: ma non si tratta di una vera libertà, di una vera autonomia individuale, bensì di un’ingiunzione a produrre, agire, (consumare, connettersi, …). Si tratta di un «dover poter-fare»; di una libertà obbligatoria, avrebbe detto Gaber.

Questo pungolo all’incessante prestazione ha prodotto un paradosso: «L’acuirsi dell’attività in iperazione fa sì che l’attività si rovesci in un’iperpassività, nella quale si segue ogni impulso e stimolo senza opporre resistenza. Invece della libertà essa produce nuove costrizioni. È un’illusione credere che quanto più si è attivi, tanto più si è liberi» (Han, cit.).

In una società sovreccitata, iperconnessa, iperstimolata, spesso un’attività nevrastenica precipita nel suo rovescio: ansia, depressione e burn out. In questo quadro, “vietare” lo smartphone – ma diciamolo meglio: chiedere di esercitare la libertà di sottrarci per qualche momento al flusso della realtà, le cui sustanze e accidenti e lor costume sembrano quasi essere conflati insieme in questo potentissimo mezzo – potrebbe essere un gesto di opposizione simbolica: non una diminuzione della libertà dello studente, anzi un invito alla sua soggettivazione, attraverso quell’interruzione dell’immanenza della nostra società degli impulsi, secondo le parole di Gert Biesta su questo stesso blog.1

1 Su Biesta mi permetto di rimandare anche a questa mia recensione al suo Riscoprire l’insegnamento.

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