Riflessioni critiche sulla prima prova dell’esame di Stato
Stefano Rossetti – Sulle tracce dei giovani
Il giudizio sulla “bellezza” o “bruttezza” delle tracce di Italiano all’esame di Stato è molto soggettivo. Così come sulla loro “vicinanza” al sentire e alla cultura di chi termina il suo ciclo di studi. Tuttavia, è innegabile che queste tracce assumano un valore particolare, per certi versi simbolico. Ѐ come se la Scuola – istituzione e comunità -, per mano di chi le ha ideate e scritte, disegnasse l’immagine ideale del patrimonio culturale che si aspetta di aver contribuito a costruire al termine del percorso formativo: quali conoscenze, quali abilità, quali processi critici e argomentativi fondati su di esse. Ѐ questo, infatti, il punto di partenza di chi le ha giudicate nell’animato dibattito pubblico di questi giorni, per lo più riconoscendo in esse una particolare apertura al presente e alla sensibilità degli studenti, talvolta arrivando ad affermare che “la scuola è migliore della politica e della società”, perché “i brani proposti reclamano uno studente capace di pensiero critico” (Tomaso Montanari, sul “Fatto Quotidiano” del 23 giugno)
Alla luce della lettura delle tracce e degli svolgimenti che le ragazze e i ragazzi della mia classe ne hanno tratto, la situazione mi sembra invece molto sfaccettata e per certi versi ambigua. Vorrei provare a spiegare perché, riconoscendo in partenza la parzialità del mio sguardo.
Prima di tutto, la qualità o l’attualità dei testi citati nelle tracce non è affatto sufficiente di per sé a determinare il valore o l’importanza del compito d’esame. Perché il compito non ha come obiettivo dimostrare che chi l’ha formulato è moderno, legge e attribuisce importanza a temi sociali e politici: piuttosto, serve a mettere chi scrive – le nostre ragazze e i nostri ragazzi – in condizione di esprimere la propria intelligenza. Dunque, la “bellezza” di una prova sta nell’adeguatezza e nella qualità delle domande e degli stimoli che offre rispetto ai percorsi delle materie di studio, non nel valore del testo dal quale parte. Fatta salva una certa dose di utopismo, necessario nella scuola, si valuta quindi rispetto al punto al quale può realisticamente condurre chi scrive, non al punto cui è già arrivato chi formula la prova o un ipotetico studente/ cittadino perfetto. Se questa prospettiva è corretta, a me sembra che le tracce proposte partano da uno stereotipo di giovane consapevole, interessato a temi e problemi di attualità, sensibile alle diverse manifestazioni culturali e artistiche: una figura ben diversa da una buona parte dei giovani e degli studenti reali, spesso disorientati (la qualità del dibattito sui social e sui mezzi d’informazione popolare è scadente) e poco informati.
Ѐ alla luce di questa realtà che vanno letti gli argomenti proposti: essi esprimono certamente la positiva tensione verso una scuola aperta al mondo civile-politico e all’interiorità delle giovani generazioni, ma finiscono per evidenziare uno scollamento dalla realtà vera delle scuole. A parte alcune eccezioni (in particolare le analisi testuali), sono infatti debolmente legati alle discipline, soprattutto quando affrontano temi trasversali come la filosofia della scienza e la bioetica. Si può ragionevolmente presumere che il tema dei social sia stato affrontato in forma critica, almeno episodica e frammentaria, nei tanti incontri aggiuntivi e nell’insegnamento di Educazione Civica. Quello della musica, invece, non è presente nel curricolo della stragrande maggioranza degli istituti superiori. Dunque, letteratura a parte, sono stati proposti argomenti assenti, trattati episodicamente o marginali, rispetto ai curricoli disciplinari; apparentemente facili, però, da affrontare in una prospettiva attualizzante, schiacciata sul presente e sul vissuto personale di chi scrive. Ne sono derivati spesso svolgimenti stereotipati, basati su luoghi comuni o su un approccio sentimentale piuttosto che ragionativo.
Del resto, questo è inevitabile, quando si sganciano temi e problemi dalla loro profondità storica e culturale, e la dimensione della profondità si può attingere solo attraverso un lavoro di studio mirato e progressivo. Per spiegarmi meglio, se ho studiato storia della musica, ascoltato confrontato e discusso diversi generi e forme, sarò in grado di dire qualcosa di significativo sul tema; altrimenti, è altissimo il rischio di cadere nel puro soggettivismo impressionistico. Peggio ancora riguardo ai social, sui quali è stato detto che è un argomento sul quale i giovani hanno sicuramente molto da dire (Alex Corlazzoli, ad esempio, si dice certo che i giovani sono in gradi di svolgerlo molto bene). Tuttavia, a me sembra che questa quantità di cose da dire non sia affatto una garanzia che esse siano segnate da consapevolezza e senso critico: la scuola è proprio il luogo principale in cui si impara che “vivere un’esperienza” e “riflettere sull’esperienza vissuta” non sono affatto due facce della stessa medaglia. E ne facciamo esperienza ogni volta che ci troviamo di fronte alla catastrofe dell’attenzione determinata dagli smartphone.
Per questi motivi ho trovato piuttosto deludenti le tracce proposte dal ministero.
Mi sembra che contenessero un invito al solipsismo e al conformismo (dire ciò che si sa essere politicamente corretto), al quale solo una parte delle ragazze e dei ragazzi ha saputo sottrarsi attraverso gli strumenti che la scuola ha fornito loro. E tuttavia proprio in questa libertà e in questo coraggio dovrebbe sfociare l’insegnamento; nella capacità di esprimere la propria alterità o divergenza rispetto alla realtà descritta e alle idee che si discutono, non nel prestare il proprio assenso e mostrarsi obbedienti, dando ragione a chi con tutta evidenza ce l’ha.
Certo, come accennato in precedenza, è possibile leggere queste tracce come auspici di una scuola che verrà. Purché però si tenga finalmente conto di due elementi di realtà.
Il primo è che una casa si costruisce dalle fondamenta, non dal tetto: se si vogliono creare le condizioni di un diverso intreccio fra i saperi disciplinari, il mondo e il vissuto dei giovani (sviluppare competenze?), sarebbe corretto, credo, discutere in modo ampiamente partecipato sui contenuti disciplinari, sui processi logici che attivano (in particolare, sull’attualizzazione), sul loro possibile dialogo con la società. Per evitare situazioni stranianti come quella in cui ci troviamo ogni anno in occasione del colloquio dell’esame di Stato, quando si chiede alle persone una difficile prestazione mutlidisciplinare alla quale non sono state preparate durante anni di corso ancora in larga prevalenza disciplinari.
Il secondo è che questa scuola dello spirito critico, dell’etica collettiva e della responsabilità individuale non sembra affatto essere una priorità del decisore politico; tutto preso, al contrario, a inseguire l’ultima moda tecnologica, la competizione fra insegnanti, il primato della burocrazia.
C’è presente e presente, insomma, e non tutti sono un valore.
Luisa Mirone – Un buon testo non fa una buona traccia
L’aspetto dominante, nel “dibattito sulle tracce” che accompagna tutti gli anni l’esame di Stato – e che si è riproposto anche quest’anno, dopo la sosta forzata dovuta alla pandemia –, è sempre quello sui testi di riferimento. Certamente la proposta di un testo non è asettica. Proporre un racconto, così come un problema sociale, un evento storico, un qualsiasi tema in luogo di altri implica una scelta di campo, l’indicazione decisa di questioni ritenute più urgenti o necessarie o utili. Quindi non diremo che l’una vale l’altra, perché non è così.
Se la mettiamo su questo piano di “utilità”, tutti i testi proposti dal Ministero per la prima prova dell’esame di Stato 2022 risultano quanto meno opportuni, scritti – come sono – da intellettuali che hanno contribuito in varie epoche e a vario titolo alla riflessione collettiva, suggerendo punti d’osservazione spesso innovativi di questioni (etiche ed estetiche) di interesse comune. A qualcuno Sciascia sarebbe piaciuto più di Verga; qualcun altro avrebbe preferito altre voci della fisica o della sociolinguistica al posto di quelle di Parisi o Gheno; e via così anche per gli altri nomi. Ma a noi questo, nei termini di un gradimento solo soggettivo, non dovrebbe interessare. Sono proposte di riflessione su tematiche importanti per la vita in comunità, non verità dogmatiche. Lo studente se le trova davanti per discuterle e, se lo ritiene, con gli strumenti opportuni della argomentazione, può anche smontarne l’impianto, individuarne, accanto ai punti di forza, anche quelli che giudica più deboli, proporne una lettura complementare, integrativa o alternativa addirittura. A questo serve la prima prova: a testare se lo studente disponga e sappia fare uso di questi strumenti di ricognizione, indagine, formalizzazione del reale e se, acquisiti i dati, sia in grado di incrociarli, metterli in dialogo, formulare ipotesi e giudizi e dar loro corpo in parole coerenti e coese.
Per questa ragione, ciò che mi è sembrato davvero fuori fuoco, in quelle tracce, è stata la struttura delle consegne e i sottintesi (o malintesi) metodologici. Più le rileggo e più le trovo sostanzialmente sprovviste di orientamento argomentativo e prospettico, indirizzate a senso unico alla ricognizione di certi dati, alla conferma di certi postulati, all’allineamento dello studente su certe posizioni attese. Farò – per chiarezza e concretezza di testimonianza – alcuni esempi.
Nella proposta A1 (per intenderci, su La via ferrata di Pascoli) la ricognizione dei dati formali è disordinatamente distribuita in più consegne, che confondono i piani d’indagine e non aiutano a istaurare una gerarchia utile alla interpretazione. Nella consegna 1 si chiede di presentare sinteticamente il contenuto: suppongo che ciò significhi esporre l’argomento della composizione, che è in realtà cosa diversa dal contenuto; il quale dovrebbe emergere – appunto – dalla conclusiva operazione interpretativa. Ad ogni modo, mettiamo che contenuto e argomento si equivalgano: perché mai la ricognizione dell’argomento dovrebbe stare sullo stesso piano della ricognizione metrica? Sono dati che ovviamente si parlano e si condizionano a vicenda, ma sono due momenti distinti dell’indagine. Stesso errore metodologico nella consegna 5: innanzi tutto chiede di descrivere l’atmosfera della poesia, una richiesta interamente fondata su soggettivismo e impressionismo, che, già abbastanza intollerabili come strumenti di interpretazione, in fase di ricognizione-dati sono davvero inaccettabili; in aggiunta, la consegna, contemporaneamente e sullo stesso piano, chiede di indicare le figure retoriche individuate da Pascoli per creare l’atmosfera, inducendo una valutazione unilaterale (per di più deviata dal soggettivismo della descrizione) della funzione delle figure retoriche medesime nella costruzione complessiva del senso della poesia. Per finire, sotto la voce Interpretazione, la richiesta è quella di commentare, quando il “commento” è la operazione preliminare necessaria alla “interpretazione” e consiste – appunto – nella ricognizione dei dati e nella comprensione di essi – momento indispensabile proprio a scongiurare letture narcisistiche e di corto respiro. Queste brevi osservazioni non sono pedanteria da professoressa di lettere ammalata di disciplinarismo becero, non è formalismo: ai nostri allievi insegniamo che la critica letteraria è espressione altissima di una profonda consapevolezza dei dati testuali, di una compenetrazione con il testo tale da renderlo l’interlocutore privilegiato a cui porre le cosiddette “domande di senso”. Si vorrebbe quindi riportare l’analisi testuale a quello che è o dovrebbe essere, cioè un’operazione critica, fondata sui dati, al pari delle altre operazioni argomentative richieste per le tipologie B e C.
Osservazioni non dissimili potrebbero farsi anche per la seconda proposta A (per intenderci, quella su Nedda di Verga), ma con autorevolezza e competenza impareggiabili si è già espresso Luperini. Mi permetto soltanto di aggiungere che la scuola (e la manualistica) da tempo si è messa in ascolto della critica più aperta, che ha sdoganato Verga dai luoghi comuni del tema degli “ultimi” riconoscendone la statura europea nella riflessione sulle dinamiche economiche e sociali e sulle tecniche narrative (vale a dire, nella individuazione di quegli aspetti del reale di cui l’arte moderna deve farsi carico e delle forme della sua rappresentazione): suggerire agli studenti di camminare nel solco di una lettura superata (in particolare: la proposta A1 confina Verga tra i cantori degli ultimi e la proposta A2 confina Pascoli tra i cantori degli umili) significa privarli di aperture prospettiche. E questo – accanto alla confusione di piani e strumenti d’indagine – è grave e lesivo di un percorso onesto di analisi e interpretazione dei dati, quali essi siano; che è ciò a cui non solo la prima prova dell’esame di stato, ma la scuola tutta dovrebbe tendere.
Osservazioni non molto dissimili andrebbero avanzate anche sulla formulazione delle consegne relative alle proposte della tipologia B e della tipologia C. Ci soffermeremo, per brevità, sulla sola traccia B1 (per intenderci, quella su La sola colpa di essere nati di Colombo-Segre). Anche qui non si mette in discussione la validità, lo spessore e l’importanza del testo in sé, ma l’assetto metodologico della consegna. Le domande di “Comprensione e analisi” dialogano debolmente con le richieste della “Produzione”: sono tutte incentrate sull’accertamento della comprensione quasi letterale, si vorrebbe dire, del testo (accertamento per il quale forse bastavano il riassunto e la domanda sui “sensi di colpa”) e non suggeriscono di porre alcuna attenzione ai dati di contesto, che invece la consegna della “Produzione” chiede di definire ad ampio raggio (“contesto storico nazionale e internazionale”). Quindi, al momento di esprimere le proprie considerazioni sul fenomeno descritto dal brano, lo studente (come ognuno di noi) non ha che da esprimere tristezza, indignazione, condanna, compassione. L’operazione precedente è ricondotta peraltro alla argomentazione (argomenta le tue considerazioni), che dovrebbe farsi forte di quanto lo studente ha appreso nel corso dei suoi studi. Ma lo studente, a maggior ragione se ha avuto l’opportunità di studiare bene il contesto storico nazionale e internazionale di riferimento, non può che confermare (com’è giusto che sia) i sentimenti di tristezza, indignazione, condanna, compassione. In cosa consista dunque l’accertamento del possesso degli strumenti argomentativi (cui, come si diceva all’inizio, la prova dovrebbe tendere) non si capisce davvero. Non necessariamente un buon testo fa una buona traccia e certamente non basta da solo a generare processi di scrittura virtuosi e funzionali alla verifica.
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