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Il congegno narrativo del racconto: I difetti fondamentali di Luca Ricci

 Forse perché  la forma breve del narrare (novella e racconto) manca di una sua specifica e riconosciuta codificazione, lo “spazio dell’invenzione” peculiare di un racconto deve «costruire con fatica, cioè con uno sforzo supplementare di invenzione e di struttura» (G. Simonetti),  quegli “effetti di realtà” che riproducono in modo verosimile il contesto della vicenda: dai dettagli solo in apparenza superflui alle caratterizzazioni linguistiche, dalle scelte tematiche alle ambientazioni, tutto deve convergere verso una coerenza compositiva in sé perfettamente conchiusa.

Di questa «ossessione per il racconto da un punto di vista prettamente formale» (L. Ricci),  I difetti fondamentali rappresentano una compiuta realizzazione: un macrotesto costituito da quattordici racconti legati da una combinatoria interna di elementi tematici e formali. Il Leitmotiv che li unisce è costituito dal soggetto comune: la figura dello scrittore declinato nei quattordici titoli, con uniformità nomenclatoria, dalla forma articolo determinativo+aggettivo (solo in un caso è presente la variante articolo+nome): Il rothiano, Il rifiutato, L’adultero, L’affittacamere, Lo scomparso, L’invidioso, Lo stregato, Il suggestionabile, Il manierista, Il solitario, La canonizzata, Il velleitario, Il folle. Si tratta di una galleria di personaggi tra i più vari, alcuni veramente esistiti –  spesso collocati sullo sfondo della vicenda narrata  e rievocati quasi sempre come fantasmi di un mondo letterario irrimediabilmente perduto (da Bianciardi a Flaiano, da Buzzati alla Maraini, da Moravia a Pasolini, da Savinio alla Ortese) –  altri frutto di invenzione.

Di fatto, gli scrittori di Ricci sembrano dar vita a due universi possibili: uno dominato dall’egoismo, dal cinismo, dall’ambizione; l’altro innervato di fallimento, di paura, di insicurezza. Se da una parte L’Invidioso, scrittore affermato sulla scena letteraria ma egocentrico e bilioso, fa di tutto per minare il lancio del libro del suo amico e rivale, dall’altra Il Solitario si trincera in casa in attesa che “gli uccellini” – ossia le idee da mettere in forma sulla pagina-  si posino “sul filo”. L’uomo, incapace nel suo isolamento di scrivere anche una sola parola, è deciso perfino a mettere a repentaglio il suo rapporto coniugale per riuscire nell’intento ma la moglie, tenace, gli farà capire l’importanza del calore umano e la giusta distanza di un romanziere dalla realtà:

[Lo scrittore ] Non deve stare a guardare sempre giù in strada ma neanche solo dentro di sé. Deve buttare un occhio sul pianerottolo. (L. Ricci, I difetti fondamentali, Milano, Rizzoli, 2017, p. 273)

 

Ricci ha l’indiscussa capacità di saper tratteggiare le relazioni umane nell’arco di poche pagine: il rapporto a due – suo tema privilegiato fin dalla raccolta L’amore e altre forme d’odio (2006) – è rappresentato in tutte le sue sfumature più prosaiche e “realistiche”; il narratore indulge in particolare sul desiderio, sul tradimento, sulla gelosia; bastino poche righe sul matrimonio – un’appassionata convivenza che sconfina presto in una pacata noia –  tratte da L’Adultero:

Nella maggior parte dei casi l’affetto non era che passione rinsecchita, un volersi bene che nasceva dalla commiserazione dell’altro. E d’altronde per chi viveva sotto lo stesso tetto non c’era scampo. Le case erano cloache di piccoli dettagli quotidiani in grado di annientare i reciproci misteri: gomitoli di capelli impigliati nelle spazzole, mutande che spuntavano dalle ceste dello sporco e assorbenti ficcati alla bell’e meglio nei sacchetti della spazzatura. […] Non c’era più colpa quando sopravviveva la noia, e anzi la noia non era il problema più temibile per una coppia, bensì, molto più semplicemente, la sua geniale soluzione. (Ivi, pp. 54-55)

Eppure, nonostante l’efficacia nella rappresentazione della realtà contemporanea, “l’arte del racconto” di Ricci sembra dispiegarsi “al suo meglio” nei due racconti centrali della raccolta –  Lo stregato e Il suggestionabile – che lasciano spazio alla dimensione del fantastico, quella in cui «siamo afferrati dalla coerenza delle invenzioni stravaganti, che ci vengono offerte addirittura come reali, come vere, e, nel caso di un racconto, come necessarie a un’azione che, sul piano della finzione, deve avere la sua credibilità, deve essere meritevole di attenzione e capace di effetti specifici». (N. Bonifazi)

È così che, giunto al Ninfeo di Villa Giulia in occasione del Premio Strega, un apprendista scrittore dei nostri giorni si trova seduto al tavolo n. 60 in compagnia di un uomo che non lesina consigli letterari e che, oltre a pensare al libro «come una vetta da scalare», gli parla «dell’ebbrezza dei tasti»:

La voluttà, tutta la voluttà possibile, consisteva nel picchiettare sui tasti, raggiungendo attraverso di essi una specie di trance sciamanica, che tutto sommato era alla portata di un genio come di un dattilografo. […] Quella pressione accelerata sulle lettere impresse sui tasti era il vero mistero della scrittura, ben più dei cosiddetti processi creativi, e rappresentava da un punto di vista materiale, e perfino fisiologico, l’inspiegabile motivo per cui scriveva.

«Lei usa ancora la macchina da scrivere?» domandò il giovane alla fine di quella tirata.

«E che cosa dovrei usare? » (Ivi, p. 171)

Solo nel corso della serata il giovane capisce che l’uomo è Dino Buzzati –  uno dei modelli letterari di Ricci – che qui misteriosamente appare e altrettanto repentinamente scompare, ritratto nell’estate del ’58 quando i suoi Sessanta racconti ricevettero il prestigioso riconoscimento dello Strega.

Nel racconto successivo, Il suggestionabile, Ricci sviluppa e realizza in un crescendo narrativo buzzatiano la tensione tra una serie di fatti concreti e la loro inesplicabilità: in questo caso, la progressiva addizione di elementi perturbanti, legati all’involontario ma inesorabile cambiamento di sesso di Carlo Turinga, richiamano alla mente il meccanismo, frequente in Buzzati, della «catastrofe»  (N. Bonifazi), che qui culmina nello stupro finale della donna perpetrato dal branco dei colleghi d’ufficio, ignari della sua “mutazione”.

Le concessioni al fantastico – che danno vita a «piccoli gioielli e personaggi indimenticabili» (C. Taglietti) – non permettono, tuttavia,  al lettore di evadere dalla realtà, sempre ben presente in una Roma afosa e a tratti tropicale, una città oggi in decadenza, come, del resto, il mondo della cultura che un tempo la abitava:  ne Il manierista il locale abitualmente frequentato da Moravia e Pasolini negli anni Cinquanta è ora luogo di ritrovo della mafia russa (Cfr. pp. 235-236); ne Lo Stregato il Ninfeo di Villa Giulia viene declassato a «stadio della cultura italiana». Su queste immagini, tuttavia, una davvero spicca e diventa esemplare della Roma odierna – a richiamare tanta filmografia recente e a stabilire, forse, un nuovo cronòtopo,  quello della terrazza:

Se c’è forse una cosa su cui i romani non scherzano sono le terrazze. Sì, perché senza una terrazza a Roma non esisti, che tu ci organizzi un rave party o un premio letterario, una partita a burraco o un lunch d’affari. La terrazza è un fatto pubblico prima che privato, i romani la esibiscono, la ostentano, e quanto più il belvedere è di prestigio  tanto più il potere e lo status sociale salgono (in ordine crescente: vista Gasometro, vista Olimpico, vista Colosseo, vista san Pietro) (Ivi, p. 161)

Nella sua raccolta di racconti sospesi tra realistico e fantastico, costruiti con un rigore formale che rimanda a un altro maestro della forma breve novecentesca,  Calvino,  Ricci si affaccia sul mondo d’oggi: di questo le terrazze della capitale sono metafora. L’autore dà esemplare rappresentazione di tic, vizi, idiosincrasie, talenti pubblici e privati del mondo della scrittura, e con esso dell’editoria e della critica letteraria, che diviene a sua volta campione e osservatorio di quella realtà contemporanea la cui visione  frammentata e discontinua trova incarnazione efficace in un «genere senza teoria»(S. Zatti) come il racconto che, tuttavia, si rivela congegno narrativo non privo di perfezione.

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