Vita mortale e immortale della bambina di Milano: una storia che si lascia amare (anche da chi non ricorda benissimo Dante e Leopardi)
Tra gli otto e i nove anni mi proposi di trovare la fossa dei morti. Avevo appena imparato, nell’italiano della scuola, la favola di Orfeo che era andato a riprendersi la fidanzata Euridice, finita sottoterra a causa del morso di una serpe. Progettavo di fare lo stesso con una bambina che disgraziatamente mia fidanzata non era, ma che avrebbe potuto diventarlo se fossi riuscito a riportarla da sotto a sopra la terra, incantando scarafaggi, moffette, topi e toporagni. Il trucco era non girarsi mai a guardarla, cosa per me difficile ancor più che per Orfeo, col quale sentivo di avere parecchie affinità. Ero poeta anch’io, ma in segreto, e componevo versi di grande sofferenza se mi capitava di non vedere, almeno una volta al giorno, la bambina; che però era facile da vedere, considerato che abitava nel palazzo proprio di fronte al mio, un edificio nuovissimo di un bel celeste.
(Domenico Starnone, Vita mortale e immortale della bambina di Milano, Einaudi 2021, p.3)
Scrivere per non sprecare
Riguardo a Vita mortale e immortale della bambina di Milano, l’ultimo romanzo breve di Domenico Starnone, ha scritto Enrica M. Ferrara: «Vita mortale e immortale si salda non solo con il recente terzetto di romanzi brevi (Lacci; Scherzetto; Confidenza; ndr) ma anche con quello che altrove ho definito “Ur-text” della narrativa di Starnone, Via Gemito (2000) – camera gestatoria di tropi e immagini ricorrenti – con il suo seguito Labilità (2005), con la riflessione metanarrativa sulla scrittura di Prima esecuzione (2007), con l’ossessione della mortalità e dell’impermanenza dell’io in Spavento (2009), e con il ludico conflitto intergenerazionale di Scherzetto». Questo forse imporrebbe anche a noi una lettura in prospettiva del libro. Ne siamo consapevoli. Ma per una volta ci sia concesso di aggirare le regole auree delle buone recensioni e di raccontare semplicemente, dolcemente questa Vita mortale e immortale, perché è una storia gentile, che si lascia amare.
La pagina di apertura contiene già tutti i nuclei importanti della vicenda. A nove anni (proprio come Dante con Beatrice) Mimì (il protagonista e voce narrante) viene folgorato dalla bambina di Milano, la deliziosa vicina di casa che «giocava a fare la ballerina di carigliòn» piroettando pericolosamente sul davanzale del balcone: è lei che per gli occhi gli ha passato ‘l core:
Quant’era bella la sua figurina contro i vetri luccicanti di sole, a braccia levate, audace nei saltelli, così esposta alla morte. Mi sporsi perché mi vedesse bene, pronto a gettarmi anch’io nel vuoto, se lei fosse caduta. (p.5)
Deciso ad averla per moglie, non solo non esita a sfidare per lei Lello (l’amico dei giochi in cortile), ma si ripromette, novello Orfeo, di recuperarla nel regno dei morti ove mai, a via di piroette, dovesse precipitare giù dal davanzale. Di quel regno, del resto, in forza dei racconti straordinari della nonna (che vive in casa con Mimì, sua madre, suo padre, i suoi fratelli, serva un po’ di tutti), crede di conoscere molte cose, incluso l’accesso: una pesante botola in un angolo remoto del cortile. Purtroppo questo repertorio intricato eppure nitidissimo di informazioni non vale a riportare in vita la piccola ammaliatrice che, partita per le vacanze al mare, muore annegando. Mimì, alla notizia, lì per lì sviene; poi, si ammala: una serie di febbri reiterate. La nonna, solitamente prodiga di strabilianti caroselli di parole attinte a un dialetto iridescente e fatale, di fronte alla malattia non ha che una diagnosi, secca: «febbre di crescenza». Ma (e spiace dare l’impressione di dissentire dalla irresistibile signora), più che febbre di crescenza, seguendone decorso e convalescenza la si direbbe febbre di latenza, come se un potente anestetico mettesse alle voci dell’infanzia immaginifica di Mimì la sordina di un’adolescenza votata al deperimento:
Ah sì, che senso aveva lavarsi, strigliarsi, mettersi tutt’alliffato, (…) se un’estate si andava in villeggiatura e affogavi. Volevo dedicarmi a una vita di deperimento (…). Volevo sdrucirmi e sbrindellare anche nel corpo. (…) Logorai di proposito, credo, anche la mia fama di scolaro bravino. Alle medie passai a compiacermi di non andare bene a scuola. (…) Per ragioni misteriose, la scrittura mi pareva l’unica cosa che potessi lasciare, alla mia morte, senza un’impressione di spreco. Esprimevo con poesiole e storielle soprattutto quel bisogno di perire prima che i fallimenti e le delusioni mi portassero in ogni caso al deperimento. (…) Passarono gli anni a questo modo, e scrivere qui «passarono gli anni a questo modo» può sembrare una scorciatoia, ma in effetti successe proprio così: gli anni passarono chiusi in un unico blocco compatto dentro cui feci e pensai sempre le stesse cose, o almeno così mi parve. (pp.62-64)
In questo blocco compatto, l’infanzia – luogo meraviglioso in cui è possibile immaginarsi «robinùd, moschettieridelre, paladinidifrancia» (p.52) – diviene quasi motivo di vergogna. Mimì nel corso della sua adolescenza e fino alle soglie dell’università non ne parla mai, neppure con Nina, la sua fidanzata, studentessa di Matematica: «con chiunque, soprattutto con lei», Mimì adopera «un tono stabilmente divertito», benché desideri ogni giorno «andare in una stradina solitaria e, senza un motivo evidente, disperarsi come non gli era mai successo nemmeno da bambino» (p.70).
A diciannove anni non avevo ancora nessuna voglia di rievocare l’infanzia, anche solo pensarci mi dava un senso di vergogna, come del resto l’adolescenza. Ero convinto di essere stato, in quelle fasi della vita, sprovveduto e ridicolo, quindi c’era poco da rievocare e intenerirsi. (p.74)
L’occasione per fare i conti con la memoria, «la sede delle nostre prime narrazioni, quelle che chiamiamo ricordi o rimembranze, le più emozionanti e le più ingannevoli» (p.52) gli è data dall’incontro casuale con Lello:
Era proprio Lello che, ecco, già si accostava e balzava fuori dall’auto a braccia spalancate. Mi sembrò così emozionato che mi emozionai anch’io. Ricambiai l’abbraccio pur sentendo che le sue spalle robuste, il torace, la voce spessa, mi erano del tutto estranei e l’unica garanzia di familiarità era assicurata da quel ragazzino che gli oscillava nel volto, come una fiammella, e che ora si piegava fino a sparire, ora riappariva. (p.93)
L’amico di un tempo, ormai studente in Ingegneria, per mantenersi agli studi fa l’elettricista al cimitero, sistema le lampade perpetue ai morti, mentre Mimì studia Lettere antiche («moderne no, le antiche mi hanno sempre dato più affidamento», p.93). Allegro e vitale, in breve Lello s’innamora di Nina, e Nina di lui. Ma Mimì ha la testa altrove, al suo primo esame universitario: glottologia. Fra l’altro, l’esame comporta la compilazione di numerose schede su lemmi antichi o perduti del dizionario dialettale. Ad aiutarlo nel recupero di vocaboli e suoni è la nonna, che da Cenerentola di casa si fa regina di un universo di segni e sensi di cui Mimì diventa adepto in extremis; una sorta di noviziato al termine del quale Mimì non guadagna di certo un’ordinazione sacerdotale, ma una nuova, benché dolorosa, consapevolezza – dei fatti della bambina di Milano (che di Milano non era, e che non era neppure morta annegata), ma soprattutto di sé:
Ma non sarei sincero se non aggiungessi che, a darmi una mano durante quell’ultima febbre di crescenza, fu ancora una volta mia nonna, e lo fece ammalandosi e morendo. Con la sua sparizione dal mondo persi inequivocabilmente la spinta a fare grandi cose e persino quando, decenni dopo, tornai a scribacchiare, lo feci con una passione senza pretese, sapendo ormai che quel poco di veramente vivo che facciamo vivendo resta fuori dalla scrittura, i segni sono costituzionalmente insufficienti, meno male che è così. Mi concessi solo una piccola attenuante e ancora oggi me la concedo: il piacere della parola che sul momento pare giusta e poi no; il piacere che travolge il corpo anche se scrivi con l’acqua sulla pietra in un giorno d’estate, e chi se ne fotte del consenso, del vero, del falso, dell’obbligo di seminare zizzania o diffondere speranza, della durata, della memoria, dell’immortalità e tutto. (p.142)
Tre donne intorno al cor mi son venute
Emanuela Paucillo è il nome della «milanese» che però è di Napoli; ma parla «come nei libri o alla radio» e le sue parole hanno un «suono incantatore, così diverso da quello di casa mia, dove si parlava soltanto dialetto» (p.4), che Mimì perdutamente se ne innamora. In verità non le parla che pochi istanti, davanti alla fontanella del cortile, «un grappolo molto compatto di cose e minuti» (p.37), destinato a restare denso e solido nella sua memoria per tutta la vita. Proverà a spiegarlo a Nina, la fidanzata degli anni universitari:
– Ricordo di lei pochissime parole che però sento ancora nitidamente in qualche area del cervello. Dentro quell’eco mi sembra che le sue vocali non coincidano per niente con le cinque solite, e temo che se chiudessi le sue rare frasi nell’alfabeto, quel po’ di voce che ho nella memoria morirebbe definitivamente come è morta lei.
Mi oppose un silenzio scontento, poi disse:
– Ancora con la bambina annegata?
-Era solo un esempio.
-Sono un po’ stanca delle (…) lingue che franano, la scrittura che non ce la fa a tener dietro alle voci, tutto si sgretola, tutto deperisce.
-Non mi ami più?
Ci pensò un attimo, poi scosse la testa, rispose:
-No, ti voglio bene. Però vieni qua, lascia perdere la morta di Milano e finché sono viva pensa a me.
(pp.86-87)
Ma nonostante Nina sia viva, nonostante, a differenza di Emanuela, abbia la «stessa origine» di Mimì e «nessuno della sua famiglia sia andato mai oltre le elementari», nonostante «di conseguenza» i due cerchino entrambi «di inventarsi di sana pianta un modo riflessivo, studioso di stare insieme e desiderarsi» (p.78), la ragazza finisce per assumere quasi le fattezze di una donna dello schermo; e se Nina lo intuisce confusamente, è la nonna a indurre il nipote a dirsi la verità:
Mi chiese cauta se, prima di Nina, mi ero innamorato di qualche altra che non mi usciva dalla testa. Le dissi che non era una questione d’amore, ma di ricordi che non sparivano mai del tutto e non riuscivo a capire perché. Lei borbottò scontenta che, se pensavo a un’altra, voleva dire che non volevo bene a Nina, povera ragazza, era così bella. Mi venne in mente, allora, un pensiero che non avevo mai messo in parole, nemmeno tra me e me. Dissi che Nina era capitata e che ciò che capita non è ciò che scegli. Le volevo bene, questo sì, ma c’erano altre cose che, più di lei, mi riempivano il cervello e mi smuovevano i sentimenti: la lettura, la scrittura e la morte. Ho un desiderio di vita, no’, così violento che la vita la sento continuamente in pericolo e la voglio trattenere in tutti i modi per non farla scivolare via e finire; è una smania che mi è entrata qua nel petto, credo, quando è morta la bambina che giocava sul balcone del secondo piano del palazzo celeste di fronte al nostro. (pp.124-125)
«I bambini non devono sapere niente della morte» – sentenzia la nonna – «Se sai della morte non cresci più» (p.128). Mimì, ormai cresciuto, sa cosa sia la morte: per questo con intensità e per tutta la vita non penserà che a una cosa: a rendere immortale, scrivendone la storia, Manuela Paucillo, «malgrado il nome e il cognome» (p.134):
Chi se ne ricordava più così nel dettaglio, la sua vita mortale mi era del tutto passata di mente, e invece ecco che tornava a sorpresa dalla morte. Oh, lo so che oggi «vita mortale» è un’espressione desueta, e giustamente. (…) per usarla con convinzione, bisogna aver fiducia nel suo rovescio: la vita immortale. Ma di questi tempi all’immortalità chi crede sul serio?
Vulgarem locutionem asserimus quam sine omni regola nutricem imitantes accipimus
Ma mentre Mimì progetta «di rendere immortale la graziosa figurina della milanese facendola parlare per iscritto proprio come una volta gli aveva parlato alla fontanella», improvvisamente «per guadagnarsi la laurea» si trova «costretto a tornare in basso» (p.107): «voleva usare la grafia fonetica per riprodurre al meglio la lingua meravigliosa» di Manuela, e invece si ritrova a intrappolare sulle schede per l’esame di glottologia le parole dialettali della nonna, col loro «accumulo di metallo sonoro» (p.112). Dapprima «entrambi a disagio, sia col dialetto che con l’italiano» (p.115), lentamente nonna e nipote si rivelano l’una all’altro attraverso i vocaboli e i suoni di un ritrovato volgare, lontano dal dialetto associato «agli atteggiamenti scomposti, al disordine» (p.113), e fatto piuttosto di «parole (…) prebabeliche, parole della terra, delle piante, degli umori, dei lavori, delle fatiche» (p.118). Definiamo lingua volgare quella che apprendiamo senza alcuna regola, imitando la nutrice (De vulgari eloquentia, I, 2): è la nonna, questa nutrice, ed è immergendosi nella sua lingua che Mimì si depura dalle scorie del dialetto e dalle falsità dell’italiano, e si prepara a scrivere della vita mortale e immortale della bambina di Milano.
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