Su Da una vita all’altra di Camille de Toledo
Vedi, fratello mio,
per non morire ho dovuto intraprendere un viaggio
al cuore della notte, nelle pieghe del corpo
negli strati del tempo
Il labirinto di Théséé
Cosa è ancora possibile quando «tutto cade e la vita è maledetta»? Quando nel luogo in cui si è vissuto non restano che ombre, lutti, e dolori? Che cosa fare se non tentare di rompere quella catena di morti e «riprendere al più presto il corso dell’esistenza» lasciandosi alle spalle il labirinto del passato?
È cercando di trovare una risposta a questi interrogativi che Thésée, protagonista e voce narrante dell’ultimo romanzo di Camille de Toledo, Da una vita all’altra (uscito in Italia per Neri Pozza nel 2021), giura a sé stesso che romperà con il passato, che dimenticherà, se necessario, anche il proprio nome e la lingua: «non lascerò che il passato infesti l’avvenire; né che la morte contamini la vita».
Thésée vuole essere libero, vuole fuggire il labirinto, e da uomo moderno crede che la memoria possa essere cancellata: si illude, ingenuamente, che sia sufficiente abbandonare il proprio paese per lasciarsi alle spalle tutto, anche il XX secolo, ma non sa ancora che questo viaggio lo porterà più vicino al passato che verso l’avvenire.
Il viaggio che intraprende il protagonista di questo romanzo è dunque una fuga per non soccombere di fronte alla morte del fratello suicida e alle perdite, avvenute poco tempo dopo, della madre e del padre. Incapace di sopravvivere al dolore della sua memoria, Thésée lascia «la città dell’ovest» (Parigi) e prende un treno notturno insieme ai suoi figli per «la città dell’est» (Berlino), deciso a intraprendere una nuova vita. Se all’inizio l’allontanamento sembra capace di attenuare il dolore e restituire un’esistenza al protagonista, piano piano Thésée deve prendere coscienza che, pur cambiando i volti e i luoghi di ciò che vede durante il giorno, non cambia ciò che si porta dentro: il suo corpo non vuole dimenticare. Tutto è ancora lì, come impresso nella sua carne, e non solo le tragedie e i lutti che lui stesso ha attraversato, ma anche le sofferenze e i dolori che hanno costellato la vita dei suoi avi: «c’è qualcosa di più vasto della memoria mentale: c’è il ricordo profondo radicato nella materialità del corpo».
Sono trascorsi tredici anni dal suicidio di suo fratello Jérôme, tredici anni di sforzi per dimenticare e prendere le distanze dai suoi, ma Thésée non è riuscito a cancellare tutto, e le ombre del passato lo inseguono anche nella città dell’Est:
per tredici anni avevo voluto cancellare le loro tracce, ma avevo fallito, l’impiccagione è ancora lì, tra me e i giorni, e io cado; la città dove sono fuggito non mi dà tregua; è un cimitero a cielo aperto dove errano i fantasmi del vecchio secolo; a ogni angolo di strada, vi sono tracce che mi interrogano.
Intanto il suo corpo è diventato la sede di un dolore profondo e incomprensibile. Un dolore che porta Thésée a perdere l’ottanta per cento della propria capacità motoria e al quale nessun medico sembra capace di trovare una soluzione. La medicina non riesce a curarlo, si rivolge a sciamani, guaritori, ricorre alla meditazione, ma non c’è nulla che serva. Nessuno riesce ad arrestare il decadimento fisico: il corpo lo sta abbandonando e si profila solo il crollo definitivo.
Potrebbe continuare ad essere un uomo moderno e andare avanti cercando di «coprire la storia con l’oblio», potrebbe continuare a cercare una via d’uscita dal labirinto evitando ancora il mostro, ma alla fine capisce che deve affrontare le prove e aprire gli scatoloni della memoria, gli archivi della sua famiglia che aveva portato via durante la fuga e verso i quali non aveva mai mostrato interesse. Osservando le foto dei suoi genitori e di suo fratello, e leggendo le parole dei suoi antenati, rimaste nel silenzio per generazioni, lentamente prende coscienza di ciò che ha significato questo viaggio, questa fuga verso l’Est:
un atto di dissimulazione attraverso il quale ho disconosciuto le prove della mia vita; invece che in un’esistenza nuova, mi sono gettato in un pozzo senza uscita; volendo cancellare il ricordo di mio fratello morto, tutte le altre scene della mia vita sono state travolte e ora devo ripartire dal lì, dal fratello che si appende per il collo.
Ecco il solo viaggio che può salvarlo, quello che compie dentro se stesso, nelle pieghe del corpo e negli anfratti del tempo. È sprofondando nell’abisso e aprendo le ferite, che potrà di nuovo respirare, ma soprattutto è scoprendo che la sofferenza che ognuno porta addosso non è data soltanto dalla storia personale, e nemmeno dalla storia della propria famiglia, ma da qualcosa che ha radici ben più profonde ed ha a che fare con la storia delle grandi guerre del Novecento.
Il corpo dolorante che perde le forze è dunque il simbolo delle ferite della storia, il luogo delle cicatrici ereditate nel lungo corso della storia familiare e collettiva; è la «materia» che costringe a «riaprire le finestre del tempo», perché «la materia mette in luce tutto ciò che noi rifiutiamo di vedere».
Un’indagine sull’origine storica dei traumi
Attraverso il corpo dell’io-narrante, De Toledo fa transitare i dolori di una famiglia e di una stirpe, «la stirpe degli uomini che muoiono», ma anche le sofferenze del secolo appena trascorso. E lo fa nutrendosi della sua esperienza personale, di chi ha conosciuto il dolore della perdita e si trova ad affrontare una realtà spesso incomprensibile, in una famiglia che ha tentato di dissimulare i drammi e ha scelto di adeguarsi anziché valorizzare la complessità dell’identità umana.
Camille de Toledo, pseudonimo di Alexis Mital, è infatti uno scrittore francese che prende in prestito il nome da un antenato che si è suicidato e il cognome, di origine giudeo-spagnola, dalla nonna materna. Con questo romanzo, ma anche con altre opere precedenti, sceglie di fare i conti con la propria famiglia di origine, con l’ipocrisia che ha caratterizzato la sua formazione, nonché la sua educazione sentimentale. Rappresentante di una cultura ebraica mitteleuropea novecentesca volta a criticare le derive del presente, si colloca in un filone letterario tra Musil e Kafka che attinge anche a Freud, Jung e alla psicoanalisi. Si tratta di un modernista o, meglio, di un neomodernista.
Ponendosi come doppio dell’autore, Thésée mostra quindi il fallimento dell’assimilazione e riconduce l’intero romanzo a un potente atto d’accusa contro la sua famiglia, contro un matrimonio che ha assunto le sembianze di un contratto d’affari volto a «creare due prototipi: Jérôme e Thésèe […] due vite nate dalla finzione francese». Ma insieme ai suoi genitori è incriminata tutta la generazione alla quale appartengono, quella che si lascia cullare da illusioni di progresso e di crescita economica, quella che vive gli anni del benessere in Francia, e cerca di nascondersi dietro la fede nel «capitalismo dal volto umano», quella interpretata da Nathaniel, il padre della sposa e della madre, «l’eroe dei Trenta anni gloriosi del dopoguerra […] colui che incarnò per un periodo la modernità francese». De Toledo, però, compie con questo romanzo un’operazione ancora più profonda, in quanto inserisce le vicende della sua famiglia in un arco di tempo che, risalendo agli inizi del XX secolo, si interroga sull’impatto delle due grandi guerre nella storia dell’umanità. Eppure nemmeno la storia del secolo scorso sembra esaurire il senso complessivo dell’opera, poichè le ragioni che spingono l’autore in questa ricerca sono ancora più arcaiche e segrete e vanno oltre le radici di un secolo di guerre. Da una vita all’altra nasce infatti dalla necessità di compiere un’indagine a partire dai traumi che attraversano il lungo corso della storia: dal marranismo alle guerre, dagli stermini agli esili, fino al suicidio.
Senza dimenticare le vicende personali, la narrazione non perde mai di vista la ricerca di un senso rispetto a ciò che è l’uomo e a ciò che è la vita, tentando di decifrare ciò che ancora è criptato, e indagando l’intricato legame tra corpo e linguaggio: «Che cosa sa la materia che noi non sappiamo ancora, che non riusciamo a tradurre in linguaggio?». Del resto non ci suggerisce un possibile collegamento tra i corpi, una connessione, o una “sincronia” in senso junghiano, la ripetizione di date che caratterizza la genealogia di Thésée? E non è questo un tentativo di decodificare ciò che la materia sa?
E se ogni vita è collegata ad un’altra, a Thésée, al «fratello che resta» e che si chiede se deve fare della morte del fratello un atto d’accusa contro la Storia intera, spetta il difficile compito di riconciliarsi con il grande enigma della condizione umana, dimostrando che è possibile passare da una vita all’altra: «rilanciare la vita, immergersi nel passato per mobilitare i morti perché esigono che noi scriviamo, in loro nome, un’altra storia in futuro».
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