Sempre tornare. Sull’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli
Loro urlano, ma io non li sento.
Mi girano intorno, mi spingono, ma niente e nessuno mi farà cambiare idea.
«Mo’ falla finita e monta in macchina.»
Alessio mi prende per un braccio con forza, è più alto e più largo di me, ma io resto immobile.
«Nun te piamo più pe’ ‘r culo, veramente, se semo divertiti, ma mo’ te lo giuramo, basta.»
Claudio, che già sputa di suo quando parla, è una fontana che zampilla saliva in mezzo alle parolacce.
Li guardo entrambi.
«Ve lo ripeto ‘n’altra volta, nun è pe’come è annata la nottata, ho deciso de torna’ a casa pe’ conto mio, mi madre prima der 31 nun m’aspetta, nemmeno ce sta a casa, vojo st’ pe’ conto mio, tutto qua.»
Alessio si passa le mani in mezzo ai capelli fradici di sudore, gli occhi spossati dalla nottata mutata in giorno, senza un minuto di sonno che sia uno.
«Tutto qua? Te rendi conto che stamo a Misano e che casa tua sta a quattrocento chilometri? Secondo te quello che stai a di’ è ‘na cosa lucida? Tu sei lucido, Danie’? Pe’ me no. Pe’ me stai ancora sotto ‘n treno pe’stanotte»
(Daniele Mencarelli, Sempre tornare, Mondadori, 2021, p.7)
Un percorso autobiografico a ritroso
Sempre tornare di Daniele Mencarelli sembra concludere, componendo una trilogia, un percorso che ha un vistoso tracciato autobiografico a ritroso, cui forse non è estraneo anche l’intenso lavoro poetico (come, ad esempio, farebbe pensare, fin dal titolo, la raccolta di poesie del Tempo circolare 2019-1997). È infatti il 1999 l’anno in cui si ambienta la vicenda narrata ne La casa degli sguardi (Premio Volponi e Premio John Fante Opera Prima nel 2018), in cui il protagonista, Daniele, è un poeta già affermato ma con gravi problemi di alcolismo, che, alla ricerca di una occupazione con cui riempire le giornate, trova lavoro in una cooperativa di pulizie presso l’ospedale pediatrico Bambin Gesù; ed è il 1994 l’anno in cui si ambienta Tutto chiede salvezza (Finalista al premio Strega, Premio Strega Giovani nel 2020), in cui s’incontra nuovamente il personaggio di Daniele, ma alle prese con la umanità dolente che condivide con lui l’esperienza di un reparto psichiatrico, dove sono ricoverati i pazienti sottoposti a TSO. Il protagonista di Sempre tornare è ancora Daniele. Qui però è un ragazzo diciassettenne che, nell’estate estate del 1991 – un’estate torrida e dai contorni leggendari, come sono un po’ quelle di ogni adolescente che si affaccia, lieto e pensoso, alle soglie dell’età adulta – è partito da Roma (da una “borgata” romana, per la precisione) in automobile per una vacanza in Emilia Romagna con degli amici appena più grandi di lui; ma un episodio piccolo, banale, capitato a Daniele in una rinomata discoteca la notte di ferragosto, gli fa decidere di interrompere la sua vacanza con gli amici e proseguire da solo, in autostop. Ha poco più di una settimana di tempo per tornare a casa in concomitanza con il rientro dei suoi familiari, ignari della sua decisione e, pure loro, in vacanza al mare (una vacanza semplice e lungamente agognata); unico contatto: un saltuario e un po’ rocambolesco appuntamento telefonico settimanale. È il 1991 – si diceva – quindi il viaggio di Daniele è un viaggio senza cellulare e senza Google maps; per di più il ragazzo dimentica il marsupio con i documenti e il denaro nell’auto degli amici e quindi il suo viaggio si carica da subito di ulteriori elementi di difficoltà. La mancanza del documento di identità, anche senza voler scomodare Mattia Pascal o Ulisse-Nessuno (il primo viaggiatore-narratore senza documento di identità della storia della letteratura), è significativa dei tratti che assumerà ben presto quel viaggio: un vero e proprio percorso di formazione, alla ricerca di sé.
La linea d’ombra
Proprio per l’età giovanissima del suo protagonista, per le scelte cui è chiamato, per le trasformazioni cui va incontro nell’attraversamento difficile della linea d’ombra, la narrazione presenta parecchi dei tratti dei romanzi di formazione, cui appartiene tanto il tema del viaggio quanto il tema dell’incontro. Ogni tappa del viaggio di Daniele è necessariamente scandita da uno o più incontri, non solo perché è una delle implicazioni di ogni vero viaggio, ma perché questo viaggio in particolare si svolge attraverso la modalità dell’autostop e dunque va avanti solo se Daniele incontra chi gli dia un passaggio. Daniele è un habitué dell’autostop, anzi, tra il serio e il faceto, a un certo punto dice pure di voler scrivere un manuale del perfetto autostoppista:
…un giorno scriverò un manuale, una specie di guida, il decalogo del buon autostoppista: mai dare l’idea che il passaggio che si chiede sia un’abitudine. Ogni automobilista deve essere trattato come fosse il primo, deve sentirsi di fronte a una specie di occasione speciale, come un colpo di fulmine, qualcosa di nuovo e potente. Per ognuno un nuovo sorriso, sempre come fosse il primo apparso sulla nostra bocca, poco importa se si vede rifilare lo stesso fatto al suo predecessore. Poco importa. Il rituale è questo e va rispettato. La pratica dell’autostop, altra perla, non stanca nessuna parte del corpo, ad eccezione proprio della bocca. Dopo centinaia di sorrisi i muscoli dentro le guance bruciano. E bisogna riposarsi un po’. (p.62)
Ma questa stramba “teoria dell’autostop”, tenera e ragionata, è la chiave d’accesso alla vicenda: è la pratica umile e dignitosa del chiedere aiuto, coniugata ad una grande disponibilità di ascolto verso la persona alla quale lo si chiede; che forse ha bisogno di darne, per star bene, o, più spesso, di riceverne.
L’incontro e il caso
In un saggio molto importante e molto noto, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e il destino dell’uomo occidentale (Laterza, 2007-2017), Luperini spiega così il senso della sua operazione critica concentrata su questo unico ma prismatico oggetto che è l’incontro:
«L’incontro è un evento. In genere si tratta di un accadimento che coinvolge due o più persone: dopo un percorso (di una di esse o di entrambe, non importa), esse entrano in contatto fra loro in modo volontario o involontario, programmato in partenza o del tutto casuale. L’evento presuppone dunque un movimento e un successivo interscambio di segni» (p.5)
Il romanzo di Mencarelli, secondo una consolidata tradizione, è proprio costituito da un succedersi e moltiplicarsi di incontri: Daniele infatti non trova mai nessun automobilista che gli dia un passaggio fino a Roma, ma sempre e solo per tratti relativamente brevi, a volte addirittura brevissimi, sebbene alcuni degli automobilisti si rendano disponibili a dargli pure ospitalità per la notte o per i pasti. Rispetto a quello che scrive Luperini, gli incontri di Daniele hanno una particolarità: sono al tempo stesso casuali, perché Daniele ovviamente non sa chi si fermerà per dargli il passaggio, ma sono anche perseguiti con ostinazione, perché il ragazzo rifiuta qualsiasi soluzione per tornare a casa che non sia fare l’autostop, e sarà solo l’ultimo, terribile incontro nel sottofinale ad obbligarlo, per sfuggire alle minacce di due malviventi, a percorrere a piedi e poi in treno il tratto conclusivo fino a Roma. E tuttavia, nessun incontro avviene senza quello “scambio di segni”: è proprio quella disponibilità di Daniele verso le persone che lo aiutano a creare sempre una corrente biunivoca; e se a volte chi lo ospita imprime su di lui il marchio di un’esistenze infelice o vuota o crudele, più spesso è lui a lasciare a ciascuno l’impronta della sua dolcezza. Daniele è un ragazzo timido, eppure viaggia da solo in autostop; possiede una sensibilità vibratile e un poco morbosa, si immedesima totalmente nel dolore altrui e vive dolorosamente perfino la gioia, per il timore di vedersela sfuggire; e per questo talvolta la sua malinconia si gonfia in una rabbia spessa ed esplosiva. «Io sono nato per vedere cose» (p.270), dice Daniele; e in nome di questo suo credo esistenziale buono, semplice, ma non necessariamente ingenuo, con lo stesso sguardo sgombro da pregiudizi, si fa amica una sartina bigotta come un ricco pediatra, e prepara i maccheroni al pomodoro a un contadino scorbutico che vive solo e lo sconvolge la vista di un giovane morto sul selciato per lo schianto di un’auto. E tuttavia il suo è un viaggio di ritorno, un viaggio per tornare. Lo dice con disarmante chiarezza nella pagina finale:
Resto a distanza.
Seduto su un pezzo di muretto, al riparo.
Ad adorare la mia casa.
A mangiarmela con gli occhi.
Per tutta la sua bellezza visibile e invisibile.
Perché è la mia. E di quello che più amo al mondo.
Vivrò tutta la vita che verrà con un punto fermo.
Ogni viaggio mi riporterà a casa.
Lontano da casa, per sempre, morirò.
Potrà essere questa che ho di fronte, o un’altra, non importa, va bena anche la casetta di mattoni in mezzo alla discarica di Rignano. Purché ci accolga e protegga.
Ma ogni viaggio deve prevedere un ritorno, altrimenti non è un viaggio, è randagismo. (p.320)
Dialetto&Poesia
Fra gli incontri, il più importante, quello che lascia il segno più vistoso, dolce e lancinante insieme, è sicuramente quello con Emma, una affascinante coetanea, che lotta per superare la sua tristissima storia familiare: la morte della madre per un tumore, la disperazione del padre, preda di una depressione senza scampo dopo la scomparsa della sua compagna. Per lei Daniele s’impone di non parlare romano:
Ho tentato, per quanto nelle mie possibilità, di darmi un tono, di controllare il romano. Il risultato tutto sommato mi sembra accettabile. Il cervello va in una direzione, la lingua spesso in un’altra. (p.70)
Emma è dunque per Daniele il detonatore di una sorta di reset linguistico carico di significato, il segnale più vistoso di una trasformazione interiore che cerca parole adeguate non solo per dirsi, ma per farsi; e a lei è dedicata la poesia che Daniele scriverà nell’unica, insolita notte che trascorreranno insieme. Questa poesia Daniele la porterà con sé fino al termine del viaggio, senza poterla mai consegnare alla ragazza, nemmeno quando la incontra quasi miracolosamente alla stazione Termini; e il lettore la legge soltanto voltando l’ultima pagina del libro, quando crede che sia finito. La natura intimamente poetica della scrittura di Mencarelli si rivela tuttavia anche all’interno della narrazione, perché spesso, sul finire di un capitolo, la sintassi si stempera in frasi brevi che sono quasi versi, in parole ad alto tasso semantico, come puntine da disegno a fermare ritagli e foto sulla bacheca di un ragazzo inquieto.
Guardarti è domandare
Arriverò un giorno non lontano
Al significato del tuo corpo
Cosa ci faccia davvero al mondo
Perché la nuda bellezza che sei
Metta il cuore sempre in viaggio
Verso un dove senza nome,
ma è muta la tua pelle
chiede con la forza dei vulcani
senza dare risposte in cambio,
tu inconsapevole di tutto
non sai a quale potenza corrisponda
il tuo naso stellato di lentiggini
e quanto stanco arrivi all’alba
da tanto guardarti e domandare.
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G.B. Palumbo Editore
Complimenti! Condivido l’articolo e trovo in Mencarelli l’ottimismo speranzoso dell’eterno ragazzo. Il libro considerato è certamente un romanzo di formazione ma la saggezza e la capacità di giudizio del protagonista costituiscono un bagaglio personale, una ricchezza ntrinseca che fa da controcanto agli accadimenti e non il punto d’arrivo di un percorso esperienziale. Da leggere per la semplice pur immensa sensibilità e compassione di Mencarelli.