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diretto da Romano Luperini

Cambiare prospettiva per capire il presente. (2) Imparare con i libri e con le tecnologie: una conversazione con Gino Roncaglia

A cura di Stefano Rossetti

La cultura contemporanea è attraversata dall’intreccio fra valori e comportamenti collettivi, istituzioni pubbliche, interessi privati ed economici. La ricerca di un equilibrio condiviso fra tradizione e innovazione impegna fervide energie intellettuali, ma si traduce spesso – in particolare sui mezzi di informazione più popolari – in stereotipi e semplificazioni.

Su questi temi, abbiamo pensato di interpellare alcune figure di studiosi e studiose che, in diversi ambiti del dibattito accademico e pubblico, affrontano la complessità in prospettive originali e stimolanti.

In questa seconda conversazione, il nostro interlocutore è il professor Gino Roncaglia: sostenitore e studioso delle potenzialità culturali di Internet fin dalla fine del secolo scorso, promuove un uso consapevole delle nuove tecnologie attraverso programmi televisivi, progetti in rete, attività di formazione rivolte ai docenti; attualmente insegna “Editoria digitale” e “Digital humanities e filosofia dell’informazione”” all’università di Roma Tre.

Il rapporto fra il libro e le tecnologie digitali è oggetto di interpretazioni molto diversificate. Per molti docenti e intellettuali queste due dimensioni sono separate da una frattura che non può essere ricomposta, caratterizzata da un sostanziale impoverimento cognitivo. Discutendo l’argomento, lei insiste invece su una concreta continuità e su un’integrazione fra i due ambiti di lettura e comprensione. In base a quale logica?

Partirei dall’osservare che, sia quando parliamo di libro sia quando parliamo di schermo, parliamo in realtà di “famiglie di tecnologie”. Il libro è “tecnologia”, in realtà già prima di Gutenberg: è un prodotto tecnologico dell’ingegno umano, che richiede un’organizzazione e una produzione di strumenti. Lo è ancora di più il libro gutenberghiano, È una famiglia di tecnologie, perché esistono molte tipologie di libri. Già solo la differenza fra un paperback e un libro ben rilegato è rilevante, per la qualità dell’esperienza di lettura del testo. A sua volta, lo schermo è una famiglia di tecnologie, ancora più differenziata: schermi a cristalli liquidi, schermi OLED e AMOLED, come quelli degli attuali smartphone, schermi a carta elettronica, come quelli degli e-reader, che utilizzano una tecnologia completamente diversa da quella dei computer. Quindi bisognerebbe prima di tutto capire a quali tecnologie specificamente ci vogliamo riferire. In un certo senso, anche la pagina di carta può essere pensata come una sorta di schermo, e al MIT di Boston hanno sperimentato tecnologie di inchiostro digitale che usano direttamente il foglio di carta come supporto. Dunque il punto veramente centrale, io credo, è quanto sia funzionale l’interfaccia di lettura con la quale abbiamo a che fare, rispetto al particolare contenuto che, di volta in volta, ci vogliamo leggere sopra, alla situazione di lettura e all’uso che intendiamo fare di questo contenuto. Non c’è dubbio che da tanti punti di vista, oggi, un libro su carta ben impaginato, stampato e rilegato sia ancora superiore, come interfaccia di lettura, rispetto alla maggior parte delle tipologie di schermo. Per fare un esempio banale, nonostante i libri elettronici permettano di fare annotazioni, e in teoria siano aperti a tipologie di annotazioni non possibili su carta (ad esempio, annotazioni multimediali), di fatto sulla maggior parte dei dispositivi di lettura le tipologie e la qualità delle annotazioni sono molto più limitate rispetto a quelle che possiamo fare su una pagina di carta, avendo a disposizione una matita: tecnologie più antiche e più “povere”, se vogliamo, sono in certi casi ancora superiori rispetto alle tecnologie digitali odierne. Questa considerazione muove però da un confronto fra situazioni specifiche. Spesso, invece, chi fa il confronto fra carta e digitale è come se ipostatizzasse le tecnologie di oggi, le trasformasse in una specie di canone eterno, e idealizzasse tanto la carta quanto il digitale, senza considerare che quello che conta è il modo concreto in cui li utilizziamo. Ho fatto l’esempio delle annotazioni per mostrare che ci sono ancora dei campi in cui gli schermi digitali e i dispositivi di lettura di oggi sono meno funzionali rispetto al libro a stampa. Naturalmente ci sono altri aspetti rispetto ai quali i dispositivi odierni presentano dei vantaggi rispetto al libro a stampa tradizionale; per esempio la possibilità di contenere molti libri in un unico supporto. Soprattutto, noi sappiamo che le tecnologie cambiano e si evolvono con il tempo. Questo vale anche per la carta: un libro di carta, oggi, è un libro che viene scritto dall’autore probabilmente al computer, viene impaginato dalla casa editrice in digitale, revisionato e editato in digitale, e appoggiato sulla carta solo al momento della stampa, per la lettura: già oggi potrebbe essere considerato come una sorta di supporto per un testo elettronico. Ecco, io trovo che in tante contrapposizioni astratte fra carta e digitale si commetta quest’errore: non andare a vedere di quali tecnologie stiamo parlando. C’è una quantità enorme di ricerche sulla maggiore o minore efficacia dei dispositivi di lettura elettronici rispetto al libro su carta, ma ognuna di esse si riferisce a situazioni di lettura diverse, dispositivi diversi, tipologie diverse di testi: sono difficilmente confrontabili, e non stupisce che diano risultati spesso discordanti. Da alcune di esse emerge che i dispositivi odierni sono meno efficaci nella memorizzazione di lungo termine, ma più efficaci nel confronto rapido e nella verifica, in alcuni tipi di testualità; come nel caso degli articoli scientifici, che oggi vengono letti prevalentemente in digitale. Ma molto dipende dal dispositivo, e dal tipo di testi che stiamo leggendo. Le conclusioni generali e apodittiche mi convincono poco, e rischiano di creare confusione e pregiudizi. Detto questo io, che mi occupo di cultura digitale da tanto tempo, ho una biblioteca di circa 33.000 volumi, che costituisce un vanto ma anche una dannazione, come chiunque si occupi di libri sa (i libri sono ospiti amati ma molto invadenti). E oggi in genere quando leggo un libro preferisco leggerlo su carta. Però le tecnologie stanno cambiando: c’è stato un enorme salto, nell’ambito della lettura, dai libri digitali di prima generazione (intorno al 2000) alla generazione dei tablet e dei Kindle di oggi (apparsa intorno al 2010). La prima generazione aveva un tasso di penetrazione minimo, di circa il 2%; la seconda negli USA ha un tasso di penetrazione di circa il 22-23%, che è fermo da 5/ 6 anni, anche perché sono sostanzialmente ferme le tecnologie. La carta elettronica ha fatto fare un notevole balzo in avanti alla lettura in digitale, ma non sufficiente a colmare il distacco dalla lettura su carta. Tecnologie di carta elettronica che fossero più capaci, per esempio, di lavorare bene con i colori, con le animazioni, con i video, senza disturbare la vista (come molti utenti percepiscono negli schermi elettronici tradizionali) ovviamente sarebbero un ulteriore passo in avanti. Io ho l’impressione che l’evoluzione tecnologica porterà a realtà in cui gli strumenti digitali potranno presentare per certi versi soluzioni ancor più simili a quelle della lettura su carta; per altri versi, potranno arricchire la lettura, con le capacità di innovazione del digitale, come la multicodicalità o la possibilità di utilizzare contemporaneamente strumenti diversi: per esempio, già oggi, per chi legge un libro in una lingua straniera, il vantaggio di poter toccare la parola per consultare un dizionario o un’enciclopedia è enorme. Recentemente ho ripreso a leggere in tedesco, lingua che ho studiato ma non conosco benissimo, e la comodità di farlo tramite ebook è decisamente superiore rispetto a leggerlo su carta.

Lei abbraccia una prospettiva legata all’evoluzione degli strumenti, rinunciando a pronunciare giudizi di valore assoluti sul passaggio storico fra civiltà del libro e società dell’informazione. Tuttavia, nel suo libro “L’età della frammentazione”, sottolinea che il digitale attuale produce un’esperienza di studio e di conoscenza caratterizzata dalla frammentarietà, mentre quella legata al libro è associata alla complessità e alla profondità. Potrebbe approfondire questo punto?

Direi che bisogna innanzitutto ricordare che noi siamo abituati a leggere tante differenti tipologie di testi da sempre: la “Biblioteque Bleue”, la collana francese di libri popolari molto diffusa dal XVIII secolo, era costituita per lo più da opuscoli che raramente superavano le poche decine di pagine. Abbiamo sempre usato fogli volanti, leggiamo diversi generi di giornali e riviste: la frammentazione esiste anche nel mondo analogico. In digitale, indubbiamente, le forme della testualità hanno oggi una forte tendenza alla frammentazione. Pensiamo ai post di un blog, ai messaggini Wathsapp, ai tweet o ai messaggi di stato sui social network, alle mail: non c’è dubbio che nell’ecosistema digitale prevalgano oggi contenuti frammentati. Questo in un certo senso fa di nuovo da contraltare rispetto alla forma libro, che non è penetrata a fondo nel digitale (anche per i problemi citati di interfaccia di lettura). Se però la frammentazione caratterizza il digitale odierno, da una parte questo fenomeno non è nuovo e da un’altra parte non si tratta di una sua caratteristica essenziale. Di per sé il digitale è solo un meccanismo di codifica delle informazioni: posso codificare un tweet o “Guerra e pace”, e il meccanismo resta identico. Il problema riguarda quindi gli usi che noi facciamo del digitale, come del resto successe anche per la scrittura. All’inizio della “civiltà della scrittura”, noi abbiamo cominciato a conservare traccia scritta di transazioni economiche e commerciali, trattati politici, lettere, preghiere, prima di arrivare a forme di scrittura articolata, complessa. Prima di passare dalla frammentazione a strutture complesse c’è voluto tempo: “Gligamesh, “Iliade”, “Odissea”, la stessa “Bibbia” si sono costruite progressivamente per aggregazione di testi che viaggiavano su altri codici, orali. Il passaggio alla complessità richiede sempre del tempo, e questo vale anche nell’ecosistema digitale, che di per sé non è necessariamente granulare o frammentato. Ci sono molti indizi del fatto che anche l’ecosistema digitale stia progressivamente sviluppando forme di elevata complessità informativa e culturale, Un esempio è costituito dai videogiochi: alcuni di essi sono oggetti testuali informativi estremamente articolati, in cui si ricostruiscono mondi che hanno altissima complessità strutturale. In altri campi questo richiede più tempo, e la forza del modello tradizionale del libro, cui siamo a ragione affezionati, rende più lenta la ricerca di nuove forme di organizzazione delle informazioni. Robert Darnton, un grandissimo storico e esperto conoscitore del mondo dei libri e della circolazione dell’informazione, ha proposto ormai più di vent’anni fa l’idea di utilizzare la forma ipertestuale per organizzare i contenuti, all’interno di nuove tipologie monografiche di ricerche accademiche: queste potrebbero essere basate sull’integrazione fra lo strato del testo, quello della documentazione e delle fonti, quello rappresentato dai contenuti multicodicali, e da uno strato di sintesi e di presentazione. In questo testo stratificato, la rappresentazione ipertestuale dell’informazione permetterebbe di passare con facilità da un livello ad un altro. La proposta è molto sensata, ma realizzare questo tipo di oggetti informativi è un lavoro assai più complicato rispetto a costruire una monografia accademica tradizionale; richiede infatti un livello più alto di collaborazione, di regia, un impegno di equipe che sappiano lavorare bene con questi strumenti. Tutto questo non è facile, richiede tempo, e ho l’impressione che noi cominceremo ad apprezzare le nuove possibilità dei libri elettronici aumentati probabilmente fra venti o trent’anni. Quello che è già cambiato è invece il nostro modo di leggere i libri, anche quelli tradizionali su carta. La lettura comporta sempre delle “uscite” dal testo, la dimensione intertestuale dei libri non è una novità; i testi rimandano ad altri testi, ad altri oggetti esterni al testo (possono essere dei luoghi, dei personaggi storici, degli avvenimenti…), e questo è sempre successo. Oggi il lettore, anche il più tradizionale dei lettori su carta, molto spesso ha accanto il telefonino o il computer e quando trova un riferimento che vuole approfondire va a cercare informazioni integrative in rete. E la rete offre spunti di approfondimento, di esplorazione di questa dimensione intertestuale allargata, infinitamente maggiori di quelli che erano possibili in passato. Da questo punto di vista, è il lettore che oggi sta costruendo una lettura aumentata. I libri aumentati fanno fatica, e ci vorrà parecchio tempo perché vengano fuori, la lettura aumentata è una pratica diffusa.

Il riferimento ai videogiochi implica uno dei grandi temi che attraversa il dibattito odierno sull’istruzione: il rapporto fra la scuola e il mondo, il grado di permeabilità fra la cosiddetta “cultura colta”, della quale la scuola è da sempre portatrice, e la “cultura popolare”, il patrimonio di strumenti, contenuti, modalità, testi che caratterizzano le culture giovanili. Studiosi come Henry Jenkins o James Paul Gee auspicano percorsi di insegnamento in cui l’integrazione fra le “due culture” sia forte: il primo addirittura pensa che inserire la media education nella scuola costituisca un cambio di paradigma. Ma altri grandi intellettuali, come Neil Postman, ritengono invece che la cultura popolare debba essere tenuta lontana dalla scuola, perché largamente dominante nella vita quotidiana; e che al contrario l’urgenza sia costituita dalla salvaguardia di un approccio tradizionale al sapere.

Qual è il suo punto di vista su quest’argomento?

Sono convinto che la scuola dovrebbe fornire strumenti per interpretare il mondo, e poiché il mondo cambia è normale che cambino anche gli strumenti e le aree in cui si lavora. In particolare, se parliamo della lettura, ci accorgiamo subito di quanto sia problematico fare appassionare alla lettura le studentesse e gli studenti di oggi su canoni che, quando va bene, risalgono alla seconda metà del Novecento (quando va male, anche alla prima). Io credo che qualunque lettore sappia che l’amore per i libri viene fuori dall’incontro con opere che si scoprono, più che con libri del canone; poi si impara anche ad apprezzarlo, in alcuni casi felici la scoperta è quella di un canone che non si sa ancora essere tale. Ma noi abbiamo sempre imparato ad amare i libri su libri che abbiamo scoperto noi, e che rispondevano ai nostri interessi di ragazze e di ragazzi di allora. Questo secondo me vale anche oggi. Io credo che bisognerebbe conoscere molto meglio il mondo che viene chiamato a volte della “cultura popolare”, ma che in realtà è l’intreccio di canoni delle nuove generazioni. Se noi non conosciamo quel mondo, siamo tagliati fuori non solo da tante cose interessanti (compresi alcuni videogiochi), ma anche dalla possibilità di fare bene il lavoro di educatori: un insegnante dovrebbe infatti essere molto curioso rispetto al mondo comunicativo e informativo delle nuove generazioni, e se lo fosse si accorgerebbe che in quel mondo circola molto più di quanto noi non pensiamo. Faccio l’esempio di un tema che la scuola affronta pochissimo, e che è invece vivissimo nel mondo culturale delle nuove generazioni: le questioni di genere. Sono temi vitali per ragazze e ragazzi fra i dodici e i diciotto anni, perché a quell’età tutta una serie di questioni vengono scoperte e vissute. Quando mai la scuola si è preoccupata di affrontare seriamente questi temi, e di affrontarli guardando anche a quelli che sono i nuovi canoni, i nuovi soggetti informativi, i nuovi tipi di sensibilità che emergono dalle generazioni di oggi? Molte tipologie di testi, dalla nuova letteratura ‘Young Adults’ alle graphic novels, ai manga, affrontano temi che gli adulti sostanzialmente non conoscono, e a volte non vogliono conoscere. Se noi ci rifiutiamo semplicemente di conoscere un fenomeno, non solo perdiamo la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo – e un educatore dovrebbe essere curioso di farlo -, ma perdiamo anche la possibilità di lavorare sulla formazione e sull’apprendimento, usando anche quegli spunti e quelle possibilità. Quindi, in linea generale, credo che il punto non sia tanto la distinzione fra cultura popolare e alta (che è piuttosto labile, difficile da stabilire): il punto è l’importanza di cercare di conoscere l’ambiente comunicativo in cui vivono le nuove generazioni. Poi all’interno di quell’ambiente comunicativo, che pratica molto la contaminazione e l’ibridazione, non è difficile riportare anche i testi canonici e le cose belle della tradizione. Ma per farlo bisogna sapere dove stiamo cercando di portarle: se noi non conosciamo la destinazione è molto difficile riuscire a traghettare da una generazione all’altra i contenuti culturali che per noi sono rilevanti e che vogliamo trasmettere ai giovani. Secondo me, quest’elemento di curiosità è necessario. Naturalmente il digitale è una parte di questo discorso, perché una parte importante di questo ecosistema comunicativo oggi vive attraverso i canali digitali e della rete: anche in quest’ambito, se non conosciamo e se non sappiamo usare gli strumenti, non possiamo lavorare con piena efficacia sull’ecosistema della comunicazione di quelli che dovrebbero essere i nostri interlocutori.

In questo tentativo di coniugare forme di insegnamento/ apprendimento, sensibilità e canoni diversi, lei sottolinea il ruolo della biblioteca scolastica come centro delle attività e motore dell’innovazione: in che senso?

Credo che dovremmo pensare alla biblioteca scolastica non solo come alla stanza dei libri, anche se in una buona biblioteca scolastica essi sono ovviamente una componente importante; la biblioteca scolastica è un luogo in cui si lavora all’alfabetizzazione informativa a tutto tondo, in cui si favorisce l’incontro con tante tipologie di contenuti diversi e si cerca di promuovere l’acquisizione di competenze legate ad una buona fruizione dei contenuti. Si tratta di una sorta di motore culturale della scuola: organizza eventi e attività, lavora sui libri ma per esempio anche sulla musica e sull’approfondimento culturale. Pensiamo ad esempio a quanto oggi siano importanti le serie televisive, non solo nell’ambito della cultura giovanile; pensiamo al livello sofisticato e alla complessità della costruzione narrativa di alcune storie televisive, a volte davvero notevoli. Lavorare per farne apprezzare gli aspetti interessanti, per capire insieme i meccanismi di costruzione, per fare il lavoro tipico di smontare e rimontare che aiuta a far comprendere come funzionano i testi: questo si può fare anche rispetto alle serie, ai videogiochi, alla musica, e promuovere queste pratiche aiuta a fare lo stesso lavoro sui libri. La biblioteca, concepita in questa forma, è un motore di attività e approfondimenti culturali. C’è poi un altro aspetto molto importante, che fa comprendere quanto siano centrali le biblioteche: noi abbiamo una scuola che è in genere molto legata ai rigidi confini disciplinari, per cui è molto difficile lavorare su argomenti che non sono curricolari. Questo è un limite enorme: in un mondo in cui l’ambito degli interessi si allarga sempre più a campi che non sono riconosciuti come curricolari nella scuola, la biblioteca diventa uno strumento prezioso per rendere possibile approfondire anche gli interessi personali, che spesso non si riescono a incasellare nelle discipline scolastiche tradizionali. Se ci sono studenti interessati ai manga o alla musica coreana, il cosiddetto K-pop – uno dei campi popolari presso i giovani dei quali noi adulti sappiamo pochissimo – dare spazi in cui si possa lavorare anche sugli interessi personali significa non perdere una straordinaria occasione formativa. Quello che la scuola dovrebbe insegnare è innanzitutto ad approfondire correttamente gli interessi, attraverso la padronanza di metodi, strategie e strumenti di conoscenza e approfondimento. Di questo lavoro, i libri sono parte essenziale, e possono essere conosciuti e assimilati più efficacemente a partire dagli interessi di ciascuno. Se pensiamo di poter svolgere questo lavoro basandoci esclusivamente sull’attività curricolare, “perdiamo” in partenza persone a cui potremmo potenzialmente fornire strumenti molto utili. A volte la scuola si rifugia nelle discipline perché l’insegnante ha paura di quello che c’è fuori, e ne ha paura perché lo conosce poco. Allo stesso modo, ci si rifugia nelle aule, in un’organizzazione basata esclusivamente sul gruppo-classe, mentre un lavoro impostato diversamente permetterebbe in alcuni momenti di riorganizzare i gruppi, di affiancare ai gruppi-classe altre forme di intreccio, anche fra studenti che possono avere un minimo di differenza di età ma hanno interessi e passioni comuni. Si possono attivare meccanismi di educazione fra pari molto più facilmente se noi moltiplichiamo le situazioni di interazione. La biblioteca scolastica deve essere pensata come terzo spazio e terzo tempo, rispetto agli spazi e ai tempi tradizionali delle aule e delle discipline.

Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad una massiccia e indiscriminata introduzione di tecnologia nella scuola. Molte persone e gruppi di insegnanti denunciano il rischio concreto che la tecnologia diventi un valore in sé e per sé, una finalità dell’istituzione scolastica. Bisognerebbe invece collocarla nell’ambito degli strumenti fra i quali scegliere come, non cosa o perché insegnare. Tuttavia, in una prospettiva di media education, in questo modo si corre il rischio di lasciarsi sfuggire il valore più profondo della tecnologia: il suo contenuto, i significati e i valori che attraverso gli strumenti tecnologici vengono fruiti e prodotti. Qual è la sua opinione rispetto a queste diverse visioni?

La prima considerazione da fare sul tema è che la scuola ha sempre usato tecnologie: è una tecnologia, per esempio, la lavagna con i gessetti, lo sono i quaderni con le penne. L’uomo ha imparato ad allargare le proprie possibilità cognitive e operative sul mondo esterno costruendo tecnologie. A maggior ragione le usano i processi didattici di insegnamento e apprendimento attuali, perché devono preparare a lavorare in un mondo in cui esse sono uno strumento fondamentale di interazione con la realtà. Da questo punto di vista, il dibattito è un po’ assurdo: la scuola è caratterizzata per sua natura dalle tecnologie. Ѐ chiaro che a quelle della tradizione oggi se ne integrano di nuove, come accade nel mondo esterno alla scuola. In alcuni casi ci sono delle sostituzioni, perché talvolta i vecchi media muoiono e sono soppiantati da altri; per esempio, nessuno oggi usa più una macchina da scrivere, perché oggi un computer fa le stesse cose di una vecchia Olivetti e in più ne fa molte altre. Nella scuola, in alcuni casi si verifica un affiancamento tecnologico: per esempio, è normalissimo affiancare contenuti digitali e contenuti su carta. Altre volte è possibile una vera e propria sostituzione: una scuola che abbia una buona lavagna elettronica, e studenti e insegnanti capaci di usarla, non ha probabilmente più bisogno della lavagna tradizionale e dei gessetti. In generale, tuttavia, che una scuola usi tecnologie è normale, anche perché deve preparare le persone a lavorare in ambienti in cui poi le tecnologie ci sono. Ѐ un po’ strana l’idea che alle ragazze e ai ragazzi sia chiesto di lasciare lo smartphone fuori dall’area scolastica, quando poi loro passano sullo smartphone gran parte del loro tempo: è un po’ come abdicare a qualunque possibilità di influenzare il modo in cui viene usato lo smartphone. Ѐ indubbio che lo smartphone sia anche molto distrattivo, e quindi bisogna insegnare a non usarlo in alcune situazioni. Mentre si insegna a non farsi distrarre dallo smartphone o da altre tecnologie distrattive, si può però imparare a usarlo in situazioni in cui può essere uno strumento di interazione didattica. Ovviamente questo presuppone delle competenze che non sempre i docenti hanno, ma anche un livello di apertura mentale che dovrebbe caratterizzare la professionalità di chi insegna: da queste deriverebbe la flessibilità che consente di capire quando è il caso di usare certe tecnologie e quando invece è il caso di usarne altre. Però ripeto: le tecnologie fanno parte da sempre del mondo della scuola, e una scuola senza tecnologie semplicemente non esisterebbe. Non avrebbe senso vivere in un mondo che ha le tecnologie del XXI° secolo, frequentando una scuola che insegna con quelle del XIX°.

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