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diretto da Romano Luperini

 (Su gentile concessione dell’editore Castelvecchi pubblichiamo oggi un estratto dal nuovo romanzo di Roberto Contu, La tigna)

«Posso sedermi professore?».

«Si accomodi preside, ma tra poco me ne vado. La prossima ora ho lezione».

«Ma guardi che dopo ricreazione ho concesso ai ragazzi di scambiarsi gli auguri e di mangiare i panettoni, da quanto sento nelle aule già hanno iniziato a fare festa».

«Lo so, ma appunto, dopo la ricreazione. La prossima ora la faccio eccome, devo assegnare i compiti per le vacanze e se le interessa, ma credo di no, devo anche finire il commento di un brano che abbiamo iniziato ieri».

«I compiti delle vacanze, ma li lasci un po’ liberi, non invecchi prima del tempo, Contro, allenti, allenti. Invece a me tolga una curiosità, Leopardi, o meglio, il Leopardi alla fine l’ha iniziato o no? Non mi dica che il brano che deve finire è una sua poesia».

«Sì, ha indovinato. Stiamo leggendo Leopardi, ma non è una poesia, sto commentando le Operette morali, il Dialogo tra la natura e un islandese per la precisione, questa almeno dovrebbe ricordarsela anche lei. Prende il caffè, preside». Non attese la risposta, si alzò e andò al bancone dove Marcello aveva appena posato la tazzina sul piattino.

Tornò al tavolo, gliela porse, si sedette di nuovo, «eccole la bustina di zucchero».

«Grazie».

Ci fu qualche istante di silenzio, ma senza ombra alcuna di imbarazzo da parte di entrambi, fu lui inaspettatamente a parlare per primo.

«Sa, preside, tanto per essere chiaro e non doverci tornare più, io non ho problemi con Leopardi, le dirò di più: è necessario e vivo, è forse uno dei pochi che sappia ancora stare in piedi qui dentro. Ma proprio perché è vero, mi permetta di potergli mettere contro la vita di questi ragazzi, misurarlo sulla loro: ha scritto parole che hanno le spalle larghe, reggeranno l’urto, ma il fatto è che c’è più vita qui che in tutti i suoi Canti, perfino più che nel suo Zibaldone. Sarebbe stato d’accordo anche lui: solo i grandi sanno che non c’è sufficiente vita nei libri».

«Non la seguo».

«Certo, nemmeno io riesco a capirlo fino in fondo, e non solo Leopardi. Fino a qualche anno fa non era così».

«E cosa è cambiato secondo lei, adesso?».

Renato Contro si mosse sulla sedia, Roberta avvertì impazienza da parte sua, come se quel momento inusuale di confidenza fosse durato già troppo.

«Bah, non saprei. Magari invecchio, magari sono stufo».

Lei non si accontentò di mettere fine a quello scambio con quella scusa da poco, volle insistere.

«Della scuola? Non mi pare, non è così da quello che dicono di lei gli studenti e i colleghi, mi parlano bene di lei. Oddio, Possenti a parte».

Renato Contro a quel punto non volle più sottrarsi, vide sé stesso che in altre mille occasioni si sarebbe alzato e allontanato con una scusa.

Guardò Roberta negli occhi.

«Sa? Una decina di giorni fa ho letto su un giornale un articolo di una biologa. Parlava della sintropia, sa cos’è la sintropia? È il contrario dell’entropia, del caos insomma. Queste cose dovrebbe maneggiarle meglio di me, lei dovrebbe essere una matematica, non una che come me si accontenta di quattro versi in croce. Per farla breve, esisterebbe insomma un processo opposto al caos che in natura tenderebbe all’ordine, alla ricomposizione, all’armonia. Peccato l’articolo fosse scritto in modo per me poco chiaro e con argomentazioni che perlomeno io, ignorante che sono, sono riuscito a cogliere a fatica, però mi ha colpito, profondamente».

«E che c’entra questo con la scuola, che c’entra con Leopardi, professore?».

«Gliela faccio più semplice. Anche lei, da adulta che è, intelligente mi pare, la conosce, ne avrà fatto esperienza, nel lavoro ma anche nella vita: parlo di quella forza che da sempre, senza tregua, sembra spingere tutto in basso, verso il caos, di quell’inerzia che a volte sembra letteralmente, anzi, proprio fisicamente volerci chiudere gli occhi. Non la metterebbe mai in discussione come io non l’ho mai messa in discussione, come tutti, ci facciamo i conti da sempre».

«Mi sembra un po’ vago il suo discorso».

«Vago è un termine leopardiano» disse come per sé Renato Contro.

«Eppure, io ora questo le dico: andare oltre quel caos, questo è il vero oltraggio. Pensi a suo figlio, pensi alla figlia che avranno Ferri e Mazzoli, questo fa saltare i nervi, questo è intollerabile, ma questo è l’umano, l’oltre».

«Questo è l’umano?».

«Lei non l’ha letto tutto Calvino, di sicuro. L’umano arriva dove arriva l’amore, lui dice; non ha confini se non quelli che gli diamo. E Calvino, quando lo scrive, non parlava di un tramonto o di un cielo stellato, ma di un contadino ignorante che schiacciava dentro il Cottolengo le mandorle a un deficiente bavoso con l’occhio animale e disarmato che era suo figlio. Eppure, questo è l’umano, preside, questa è la possibilità che ci sia luce, che il caos sia come vento che all’improvviso infiacchisce, che le storie possano esistere ed essere senso, sì, lo dico come bestemmiare: che le vite possano essere bene. Sa, preside, facciamo di tutto per negarlo, anche Leopardi forse l’ha fatto, ma le vite possono essere bene».

Roberta rimase in silenzio qualche istante, poi sentì un moto di stizza, «non me lo sarei aspettato da lei. Non le pare un po’ scontata come idea? Dà sollievo certo, ma è debole, consolatoria, ecco. Troppo facile risolverla così, non trova?».

Renato Contro rimase serio.

«Questo lunedì ho assistito alla Sala dei Notari alla presentazione di un libro di uno scrittore che ho sempre letto e amato. Quando è uscito l’ultimo romanzo ci sono state polemiche feroci, perché a un certo punto si racconta del suicidio di un bambino. Sì, ha capito bene, del suicidio di un bambino. Per carità, non è il primo, niente di nuovo, l’aveva scritto già Dostoevskij, ci si sente originali nell’essere cantori del buio, ci si illude di essere scomodi, di scandalizzare, ma molto più prosaicamente si è solo scontati e banali quando non si è Dostoevskij o pochi altri. Ma il punto non è questo, il moderatore che lo presentava alla Sala dei Notari durante la discussione gliene ha chiesto conto. Bene, lo scrittore ha risposto che il solo poter contemplare l’idea del suicidio di un bambino restava per lui il vero tabù, il muro invalicabile al senso umano, perché quello è il male, è il male assoluto. Esplorare quel territorio, inoltrarsi in quella terra proibita è inaccettabile per tutti. Eppure, per quello scrittore o la letteratura ha il coraggio di sondare anche quella profondità del male o diventa irrilevante. Uscito da quell’incontro ho pensato a quelle parole a lungo, tutt’ora ci penso».

«E alla fine a che conclusioni è giunto, professore, mi dica».

«Che quello scrittore ha ragione, e gli va dato il merito di essersi preso la responsabilità della letteratura che conta, ma ho pensato un istante dopo che c’è un passo in più, che se si ha il coraggio di farlo pestare in avanti quel passo si scopre che dopo quel baratro la possibilità del bene comunque persiste, rabbiosa, tignosa della tigna più pura, che il solo poter contemplare l’idea di quel bene, di quella luce, di tutta quella vita, quello è il vero finis terrae del senso umano. Arrivare fin là, inoltrarsi fino a quella vertigine proibita, oggi, è umanamente inaccettabile per tutti, non è credibile, di più: per chi ha il dono dell’intelligenza può sembrare ingiusto, perlomeno stupido. Eppure, o la letteratura ha il coraggio di osare oltre quelle colonne d’ercole, e con lei la vita, la sua vita, la mia vita o allora sì che diventa irrilevanti, allora sì che davvero si muore: ma non si muore, preside, no che non si muore, la domanda più importante che dovrebbe assillarci non è perché si muore, ma perché si vive».

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