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diretto da Romano Luperini

Le parole, le cose e i gruppi whatsapp. Riflessioni sulla comunicazione nella scuola

La qualità della comunicazione all’interno delle comunità scolastiche è un tema sfaccettato e delicato. Negli ultimi mesi, complice la costante emergenza, è stato spesso al centro del dibattito pubblico sulla scuola. Dell’argomento, però, si è discusso quasi esclusivamente un aspetto: la relazione classe/ docente; con una attenzione particolare per questioni come la lezione frontale e la componente emotiva nell’apprendimento.

Tuttavia, la nostra esperienza recente, in cui presenza e assenza si sono alternate e confuse come mai era accaduto in passato, induce a riflettere anche su diverse vie di comunicazione e tipologie di relazioni.

Consapevole della parzialità del mio punto di vista, e della difficoltà cui si va incontro nel tentativo di generalizzare considerazioni ad alto tasso di soggettività, vorrei ugualmente provare a ragionare su soggetti spesso lasciati a margine della riflessione sulla comunicazione scolastica: insegnanti, dirigenza, famiglie.

Per farlo, propongo di partire da quattro parole-chiave, che in modi e misure diverse credo riguardino tutte le persone coinvolte nella vita della comunità: continuità, deregolamentazione, autoreferenzialità, complicità.

Continuità

Sono in atto da anni i processi di cambiamento che investono contenuti, modi e tempi della comunicazione fra i diversi soggetti protagonisti della vita scolastica. E che determinano un generale scadimento delle relazioni, con occasioni e pretesti sempre più numerosi di incomprensione. Se l’emergenza ha avuto un ruolo particolare in essi, lo si può individuare in una loro progressiva accelerazione, con la crescente diffusione dell’invio e della ricezione di messaggi tramite schermi.

In termini generali, si tratta di una progressiva dis-umanizzazione delle relazioni, che si manifesta in diverse forme.

Innanzitutto – prima e oltre il lockdown – è sempre più difficile il semplice parlare ed incontrarsi fra persone, al di fuori di occasioni ed impegni formali. I tempi vuoti (le ore buche, ad esempio) tendono a scomparire o a riempirsi di adempimenti; lo stesso saluto del mattino si trasforma spesso in cenno distratto, mentre si è già connessi per firmare il registro elettronico. Le comunicazioni interpersonali sono in buona misura colonizzate dai formalismi istituzionali: ci si interroga spesso reciprocamente su procedure, reperimento di informazioni, inserimento di documenti e dati sul supporto tecnologico di turno (registro elettronico, Classroom, piattaforme varie).

Questo lento movimento dal confronto sulle idee (dove per idee si intende anche l’ultimo film visto, o il risultato della partita dalla squadra del cuore) al confronto sulle procedure investe anche i momenti collegiali: ad esempio, l’ordine del giorno dei Dipartimenti disciplinari è in larga parte occupato dalla compilazione di documenti generati da nuove disposizioni cui adeguarsi; in questo senso, la parola-incubo è diventata “obiettivi”, che può essere declinata in mille modi: obiettivi disciplinari, trasversali, minimi, per gli studenti che studiano all’estero, per i piani individualizzati di varia natura (DSA, BES, HC), eccetera eccetera.

In questo modo, la comunicazione sulle finalità del percorso formativo, il confronto sulle esperienze, la valutazione degli esiti reali delle classi reali viene progressivamente ridotto e demandato alla libera scelta del singolo docente, La dimensione collegiale, infatti, è stata progressivamente erosa dal peso di anni di nuove incombenze burocratiche e dalla compilazione di scartoffie di varia natura.

Deregolamentazione

L’indebolimento del canale diretto/ umano di comunicazione è stato accompagnato da una progressiva moltiplicazione di canali meno diretti e meno umani.

La tecnologia imperante in quest’ultimo anno e mezzo ha moltiplicato a dismisura gli effetti di questo fenomeno, con gli strumenti di Gsuite, le piattaforme, l’introduzione di nuove occasioni di contatto come i gruppi e le chat di vario tipo, il ricorso forzato ai webinair in sostituzione dei tradizionali incontri in presenza di formazione e aggiornamento. Naturalmente, non si tratta di strumenti e canali di per sé invasivi e negativi. Lo dimostrano, per esempio, alcune bellissime esperienze di formazione progettate e attuate grazie alle piattaforme, nell’impossibilità di incontrarsi fisicamente.

Tuttavia, le circostanze e le modalità della loro massiccia introduzione hanno spesso diminuito (talvolta cancellato) la dimensione etica e di condivisione che dovrebbe essere insita in ogni atto comunicativo.

Mi riferisco in particolare a tempi ed orari della comunicazione. In questo campo, si assiste a una sostanziale caduta/ deregolamentazione del “galateo” preesistente: la virtualizzazione dell’atto comunicativo (al cui interno la presenza è diventata spesso un feticcio del passato) priva di effettività il concetto di limite orario e di ricezione del messaggio: la dirigenza spesso sottintende che un messaggio partito debba essere ricevuto. L’onere di stabilire il contatto, in questo modo, viene scaricato su chi deve ricevere, non su chi invia la comunicazione. In quest’ambito, alla dematerializzazione si accompagna quindi una sorta di irresponsabilità del mittente.

Questa situazione determina nel (potenziale) destinatario di una comunicazione una notevole inquietudine, soprattutto quando sa che un messaggio magari importante potrebbe arrivargli attraverso differenti canali e in orari imprevedibili.

Volenti o nolenti, siamo investiti in pieno da quella che, in un diverso contesto, Ruggero Eugeni definisce “condizione postmediale”: nella nostra postmedialità docente, la comunicazione non è ugualmente controllabile da ciascun soggetto coinvolto, ma diventa sovente una condizione continua, pervasiva e naturale.

In un contesto simile, l’atto stesso di rispondere rischia di essere vissuto più come obbligo che come scelta.

Autoreferenzialità

In questo ecosistema comunicativo, ad una soggettività consapevole e condivisa si sostituiscono sempre più spesso logiche di autoreferenzialità e individualismo, particolarmente evidenti in ambiti significativi della vita di chi esercita la professione di insegnante.

Una manifestazione palese è costituita dalla crescente produzione di format, modelli precompilati, moduli adattabili, che hanno come scopo raggiungere una sostanziale uniformità di contenuti e procedure. In generale, questo processo di cancellazione delle differenze si giustifica con esigenze di velocità di compilazione e autodifesa istituzionale, che ha alla base il timore di irregolarità, controlli e ricorsi. Tuttavia, è indiscutibile che quanto più cresce la ragnatela delle procedure uniformi tanto più aumenta la paura di dimenticare un passaggio: di non aver compilato la scheda allegata al modulo C, che serve per giustificare le spese relative al progetto B (retribuito con il FIS), inserito nel quadro D del Piano Triennale dell’Offerta Formativa. Si diffonde inoltre la convinzione (largamente preesistente all’emergenza) che stiamo scrivendo parole che nessuno leggerà.

Dunque da una parte cresce a dismisura la quantità di messaggi che circolano nella comunità, dall’altra decresce (talvolta raggiungendo livelli inquietanti) la qualità delle nostre parole. In questo processo di svilimento la tecnologia ci soccorre: la semplicità delle procedure di duplicazione e di copia-incolla è infatti ormai parte integrante della nostra quotidianità.

L’autoreferenzialità si traduce anche – complici le limitazioni imposte dalla pandemia – in una reinterpretazione di momenti tipici della vita della comunità. Il più evidente è il momento dei colloqui scuola-famiglia. Spogliati della dimensione collettiva (di cui nessuno ovviamente rimpiange gli aspetti più caotici, come certi pomeriggi al limite dell’assurdo), essi sono stati spesso privati di un minimo di credibilità e rispetto reciproco. A me, per esempio, è capitato di “dialogare” con una mamma che faceva la spesa al supermercato (“aspetti, professore, che cerco una corsia meno affollata”); oppure, via bluetooth con un’altra mamma che guidava in mezzo al traffico, con effetti quasi da videogioco (“non si preoccupi, prof: la macchina saprebbe tornare a casa da sola!”). Ma erano appuntamenti, fissati con tutti i crismi, secondo le procedure attivate dalla dirigenza: che, semplicemente, non aveva pensato di dover imporre che il dialogo si svolgesse da casa, seduti su una sedia, guardando negli occhi l’interlocutore.

Nella nostra nuova condizione di insegnanti postmediali anche le più semplici norme di rispetto reciproco non possono essere date per scontate. La stessa forza simbolica di questi incontri istituzionali, dentro il luogo che rappresenta l’istituzione (l’edificio scolastico, la classe) tende a perdersi, insieme al rispetto delle regole.

La chiacchierata con la mamma “al supermercato” è un simbolo chiarissimo: nella percezione di molte famiglie, la scuola è già lì, fra detersivi, bottiglie di vino e mozzarelle. Come è un simbolo la scena del collega di Educazione fisica che partecipa al consiglio di classe dal campo di atletica, mentre fa l’allenatore; e quando lascia il microfono aperto, ascoltiamo le istruzioni per una flessione corretta, mentre stiamo parlando della nostra complicatissima prima.

Complicità

Nessuna di queste trasformazioni potrebbe attuarsi senza la complicità di chi le subisce.

Per essere chiaro, saper scrivere un verbale preciso ed efficace deve (o dovrebbe) essere parte integrante della nostra professionalità, ed è possibile farlo in ogni circostanza, anche in presenza di ausili e tracce complicate e ridondanti (come accade per esempio all’esame di Stato). La ragione per cui spesso invece leggiamo verbali non pensati e scritti male è la disinvoltura con la quale molte colleghe e colleghi delegano la loro responsabilità al modello, arrivando sovente a fare affermazioni assurde e illogiche: “Il verbale non prevede di scriverlo: come posso fare?”. A un simile punto di passività molte e molti di noi si sono lasciati docilmente condurre.

Lo stesso processo degenerativo agisce nella moltiplicazione dei gruppi di comunicazione, determinata da semplici esigenze di immediatezza, in base alle quali si valuta l’efficacia di una comunicazione in relazione alla sua maggiore o minore rapidità. Nascono quindi, come minimo, la chat di Dipartimento e quella di ogni singolo Consiglio di classe; ma spesso, purtroppo, anche quella con i rappresentanti di genitori e studenti e, per i docenti più friendly, anche quella con gli studenti. Oltre ad accrescere esponenzialmente il numero di messaggi, e ad abbassare la qualità dell’attenzione individuale al contenuto di ciascuno di essi, questo tipo di comunicazioni contribuisce spesso a creare distorsioni e fraintendimenti, proprio perché veicola idee pensate come scorciate e mozze, non di rado enfatizzate e rese in forma puramente emotiva. Le intenzioni di mittente e destinatario che hanno in comune questi strumenti sono spesso divergenti, e così gli effetti dei loro messaggi. D’altronde, non prendere parte al gruppo costituisce elemento di esclusione, e agisce quindi una forte spinta a partecipare, se non altro come osservatore (alzi la mano, però, che è capace di restare solo un osservatore). Stupisce, se pensiamo che chi insegna dovrebbe essere “esperta/ o in comunicazione”, la disinvoltura con la quale molte e molti di noi preferiscono anteporre la rapidità (una chat) alla chiarezza del pensiero (una mail, per esempio).

Basta inoltre cambiare punto di vista per accorgersi che distorsioni e incomprensioni anche peggiori si verificano fra gli altri soggetti che vivono l’esperienza scolastica. Nel mio caso questo è avvenuto quando sono stato rappresentante dei genitori durante il quinquennio di mia figlia nella Primaria: non avevo mai visto in precedenza nella mia vita un potenziale di conflitto e di critica distruttiva come quello che si accendeva periodicamente nelle parole di tante mamme e papà.

L’effetto complessivo di queste dissonanze non può che essere cacofonico e distorto.

Eppure, come singoli individui, desideriamo spesso rompere la continuità che caratterizza questi processi e spesso ci riusciamo, stabilendo regole etiche orientate alla condivisione e non all’individualismo. Sarebbe bello, però, se ci riuscissimo anche come collettività, come categoria di lavoratrici e lavoratori.

Comunicare in modo etico, infatti, è certamente uno dei pilastri della nostra professione.

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