Per un’ecologia della scuola. Perché ho firmato il Manifesto per la nuova scuola
Ho firmato il Manifesto per la nuova scuola, che il nostro blog ha rilanciato la scorsa settimana. Mi pare sulla strada giusta rispetto a due questioni:
1) centralità delle conoscenze e centralità dello studente possono essere produttivamente tenute insieme, mentre oggi è diventato senso comune il contrapporle polemicamente, attraverso una rappresentazione caricaturale dello studio delle conoscenze;
2) la consapevolezza del rischio di sovraccarico della scuola da diversi, eppure convergenti, punti di vista: di qui la richiesta di disconnessione dal mondo del lavoro (Pcto), dall’iperconnessione digitale, dalla rincorsa ai progetti, dai criteri di (apparente) efficienza del new public management (Rav, Ptof, Pdm) e della valutazione di sistema (Invalsi). La scuola subisce nevroticamente la più generale accelerazione della nostra società e i suoi miti della prestazione.[i]
Ma conosco troppo bene il dibattito pubblico per poter fingere di non sapere quali faglie pedagogiche e politiche aprano alcuni dei temi posti dal manifesto: la critica alle competenze, ad Invalsi, all’alternanza scuola-lavoro, al digitale, e quali spettri di sdegnoso aristocraticismo siano evocati alle spalle di chi nomina l’«ora di lezione» e le conoscenze disciplinari.
Vorrei sostenere la tesi che quello che a troppi appare conservatorismo, per molti versi è invece una forma di ecologia. Credo che per capire che cosa intenda dire non ci sia argomento più probante delle competenze.
La competenza del docente è data dalla qualità delle sue conoscenze
L’estrema aleatorietà della definizione stessa di competenza in sede teorica[ii] produce un dibattito pubblico confuso, dalle ripercussioni pratiche assai negative, in particolare sulla definizione della professionalità del docente, della sua formazione e aggiornamento, che rischia di diventare pasticciata. Se c’è un luogo comune nei corsi di formazione metodologica è “le conoscenze le mettete voi, è il vostro mestiere”. Falso. Un insegnante non ha mai conoscenze sufficienti, è un eterno principiante: specie da quando i saperi sono esplosi, da un lato per un iperspecialismo fuori controllo, dall’altro per una obiettiva estensione dei loro confini (ad esempio, oggi la letteratura è solo una parte dei più vasti territori dell’immaginario).
Un insegnante capace di sviluppare competenze negli allievi – un insegnante competente – è un insegnante che ha una conoscenza della propria materia, e delle connessioni fuori di essa, sufficientemente approfondita da saperne individuare i nessi significativi e da saperla mediare, riconfigurare, manipolare, senza scadere in formulette (è, tra l’altro, una approssimativa definizione di sapere competente: non di sapere erudito). Osservava Tullio De Mauro a proposito dell’educazione linguistica (ma il discorso è generalizzabile): se gli insegnanti insegnano la lingua solo nella sua astratta formalizzazione grammaticale, è perché non hanno letto decine e decine di libri di linguistica. Che cosa succede, invece, quando ti fanno studiare, oggi, da insegnante? Un esempio tornerà utile più di mille parole.
Mi laureo in letteratura italiana, con una formazione essenziale nelle discipline linguistiche; mi abilito poi alla Sis, quindi mi iscrivo a una seconda scuola di specializzazione in italiano a stranieri, dove spero di imparare la glottodidattica. Il fatto che fossi già abilitato in una scuola per insegnanti mi consente di accorciare il percorso di studi biennale e di accedere direttamente al secondo anno. Qui, per la seconda volta, studio metodologia: unità didattiche, uso delle nuove tecnologie, programmazione… Per mia sfortuna le conoscenze essenziali per saper insegnare una lingua – linguistica testuale, linguistica acquisizionale, … –, erano impartite al primo anno. Tale è l’ansia di insegnare, nel poco tempo a disposizione delle nostre vite, come si insegni, che si finisce per dimenticare non il cosa, giacché in questo caso l’apprendimento della lingua, dal punto di vista degli studenti, è un’abilità, ma la teoria esperta che presiede a quel come, dal punto di vista del docente.
Criteri culturali e criteri funzionalistici
Se i corsi di formazione per docenti finiscono preda di questi paradossi, c’è una ragione. È l’aria che tira. È un epocale tic. Il costrutto di competenza oggi si è caricato di connotazioni tutte emotive e ideologiche, che hanno rinnovato l’atavica (e generica) polemica del non vitae, sed scholae discimus. Ma questa nebulosa e inanalizzata “vita”, “realtà”, “utilità per la vita” (mi perdoni l’amato Nietzsche) può significare troppe cose: per cui, per fare un solo esempio, l’insegnante che polemizza col collega per il metodo antiquato di insegnamento del latino si trova sullo stesso fronte di chi il latino vuole abolirlo in quanto quintessenza dell’inutilità.
La decisione a monte sull’utilità culturale e sociale di studiare il latino non verrà da nessuna discussione sulle competenze, che sembrano essere diventate un assioma autoevidente da cui dedurre l’intero spettro delle possibilità didattiche, sulla base di un paralogismo del tipo “cambiamenti epocali, dunque nuovi bisogni formativi, dunque competenze”.[iii] Servono invece una riflessione sulle tradizioni culturali e una discussione politica: quelle tradizioni culturali che vengono espunte con una scrollata di spalle, come semplici mezzi per quel fine che è la competenza, e quella politica che ormai sembra ridotta ad amministrazione dell’esistente e a governance.
L’Europa ha deciso da decenni di rafforzare l’Unione per via tecnocratica e le competenze si prestano perfettamente allo scopo: grazie ad esse si può fare del tutto a meno dei canoni, dei valori culturali depositati nelle tradizioni, della dimensione simbolica e antropologica delle culture umane, e si può fingere che si possano fornire criteri meramente funzionalistici per tenere insieme le nazioni europee. Basta leggere uno qualsiasi dei molti Quadri di riferimento europei (sulle lingue, sulle competenze chiave, …) per averne una palmare dimostrazione. Il canone storico-letterario, storico-filosofico, storico-artistico italiani sono ormai decrepiti? Benissimo. Mi piacerebbe molto assistere a una discussione su un canone europeo e sulla letteratura contemporanea. Rinuncerei al nostro Foscolo (che io, sia chiaro, adoro) per studiare per bene Goethe. Invece vedo solo tabelle con indicatori, descrittori, livelli di prestazione attesi, …
Burocrazia
Scrive Perrenoud: «L’accento messo qua e là – effetto della moda! – sulle competenze dette “trasversali” può, paradossalmente, nuocere all’approccio per competenze, che non nega le discipline, anche se le organizza a volte per la risoluzione di problemi complessi. La trasversalità totale è un fantasma, il sogno di un no man’s land dove l’intelligenza si costruirebbe al di fuori di ogni contenuto o, piuttosto, utilizzando i contenuti solo come terreno di esercizio più o meno fecondo di competenze “transdisciplinari”». Eppure assistiamo alla vittoria di un’idea di competenza trasversale, imparaticcia, vuota di contenuti o riempita di soft skills (l’improvvisazione all’Esame di Stato di un percorso interdisciplinare su due piedi, a partire da uno documento di spunto chiuso in busta, dice niente?). Perrenoud osserva anche che la competenza è un saper fare esperto, non un’astratta griglia di descrittori, che riporterebbe alle vecchie tassonomie comportamentiste. Eppure tutti i tentativi di importare a scuola il discorso delle competenze moltiplicano le scartoffie in cui si dichiarano obiettivi, criteri, input e output di sistema. Suggerisco due possibili spiegazioni al mistero che mistero non è.
Quando seguo i tentativi di uno studioso di definire saper fare e saper essere, provo sempre l’istinto di afferrare il rasoio di Occam e di fare pulizia concettuale. Mi pare infatti di assistere a una paradossale moltiplicazione di enti proprio lì dove si predica il massimo grado di concretezza: come se si fosse davanti al tentativo di ricostituire chirurgicamente un perduto rapporto di verginità con la realtà per via di artificio mentale. Insomma, la mia sensazione è che ci sia qualcosa di stonato proprio in questo tipo di letteratura.
Inoltre mi pare che troppi sottovalutino il contesto storico-politico. Proprio chi predica adattabilità ai contesti dovrebbe sapere che ogni azione prende colore e figura dalla temperie storica. Il discorso delle competenze, una volta che lascia la pagina degli studiosi e si acclimata alla realtà scolastica, finisce nelle grinfie della burocrazia e diventa cartacea fissazione per le definizioni e gli elenchi. Mi si obietterà: ma la scuola delle competenze andrà a braccetto con la scuola autonoma, flessibile, meno centralisticamente irrigidita! C’è da dubitarne.
David Graeber ha fissato una «legge ferrea del liberalismo»: a dispetto della retorica liberale, che promette di mettere ai margini l’inefficiente e verticistica macchina statale, lasciando libero gioco alle forze sociali (e alle forze del mercato), norme e autonomia, norme e mercato, sono aumentati in perfetta sinergia. Ne abbiamo prove banali proprio dall’interno della scuola: liberalizzare la didattica (dai programmi alle programmazioni, per dirne una), dare autonomia gestionale alle scuole, impone la necessità di stabilire standard comuni e di misurarli. Il controllo si è semplicemente spostato ad un livello superiore: non importa questo o quel contenuto, questa o quella pratica gestionale. Sei “libero” di decidere tu. Ma su quanto si può, e deve, ricavare da quel contenuto o pratica in termini di efficacia, sarai sottoposto a una misurazione minuziosa e “obiettiva”. I processi di valutazione e di accountability hanno aumentato la pretesa di misurare prestazioni, altro che diminuirli. L’ossessione per la trasparenza dei processi ci ha incartati, altro che svincolati. Mi spiace persino dover ribadire cose che dovrebbero essere ormai arcinote.[iv]
Ert ed Europa
L’aleatorietà teorica della definizione di competenza, il suo uso ideologico, l’ansia di superare i saperi scolastici verso la “concretezza della vita” hanno attualmente spostato la frontiera del discorso sulle competenze alla richiesta di includere le “character skills” nei curricoli scolastici. Taccio qui dei brividi che provoca in me l’idea di misurare cose evanescenti come “l’apertura all’esperienza” o lo “spirito di iniziativa”: credevamo di esserci lasciati alle spalle positivismo, neopositivismo, comportamentismo; e invece eccoli lì, eternamente risorgenti.[v] Mi limito a osservare che se è vero che il concetto di competenza si presta a definizioni strumentali al mondo del lavoro e a definizioni provenienti dalle pedagogie attive, l’attuale insistenza sulla ineluttabilità (a)storica delle competenze rimuove dal racconto una serie di dati di fatto che sono cronaca: la strategia di Lisbona della UE ricalca le proposte nate prima in seno all’Ert (European Round Table), una tavola rotonda degli industriali, a fine anni Ottanta. In altre parole l’idea di scuola dell’Europa è stata interamente dedotta dalle pretese del sistema produttivo.[vi] Senza una chiara coscienza politica di questo, si rischia di portare l’acqua con le orecchie a progetti economici e socio-antropologici che con la nobile tradizione della pedagogia democratica non hanno molto a che vedere.
Artigianato delle competenze
Mi riconosco in un «significato “minore” e molto artigianale» di competenza.[vii] Esistono indubbiamente pratiche meccaniche e pratiche significative, di insegnamento e di apprendimento; esiste certamente un costante rischio di scadere nel nozionismo. Ma come accennavo sopra, per avere studenti competenti bisogna avere insegnanti competenti, che si ottengono con l’approfondimento culturale. Se i saperi disciplinari e il loro insegnamento così come sono non funzionano più, è su di essi che occorre lavorare, con la pazienza dei tempi lunghi della cultura. Scriveva Remo Ceserani, commentando luci e ombre del più recente progetto di “competenze per la letteratura”: «prima di avviare un lavoro interdisciplinare, bisogna rivedere a fondo il nostro sistema delle discipline».[viii]
Quali testi, autori, valori, vogliamo continuare a trasmettere e su quali vogliamo continuare a lavorare in forme attive e critiche? Come gestire l’esplosione della produzione culturale in una società di massa interconnessa via web? Come difendere l’ancora necessario logocentrismo della nostra scuola, senza però fingere di non vedere che siamo immersi in immagini, musica, link? Si cerca di sfuggire a questa magmatica complessità, rifugiandosi in un metadiscorso che pretende di sovradeterminare ogni contenuto.
Le mie discipline, nella loro materiale concretezza, possiedono strumenti e habitus propri. Ad esempio mi risulta difficile ridurre le competenze delle materie umanistiche a quei «compiti di realtà» verso cui la didattica viene obbligatoriamente orientata.[ix] È un “compito reale” lavorare non alla ripetizione delle formule critiche su Leopardi, ma all’interpretazione dei suoi testi? Se lo sforzo interpretativo non precipita in un “prodotto” o in una “azione”, non esiste? O saper interpretare un testo è di per sé un compito di realtà?[x] Se no, vuol dire che i compiti di realtà puntano semplicemente a rendere superflua la letteratura, e non mi si può chiedere di consentire alla mia estinzione. Se sì, allora si dovrà ammettere che anche i testi, la lettura, l’atto di sedersi e astrarsi dalla realtà per entrare in mondi linguistici, sono realtà.
Ancora: pensiamo alla storia. Più la insegno, più mi accorgo che tra tutte le discipline umanistiche è quella che più ha bisogno di una solida base di nozioni, di conoscenze fattuali, che non possono che essere fornite nella scuola secondaria. Questo lavoro “sporco” preliminare non vogliamo più vederlo. È naturalmente più eccitante l’idea di formare alte expertise, geniali traduttori di abilità raffinate e complesse in contesti nuovi. Soddisfa di più il nostro narcisismo e la nostra onnipotenza.
Conclusione
La didattica per competenze promette di produrre un sapere che ha ricadute concrete, contro l’astrattezza tipica dei saperi scolastici. Ho provato a rovesciare il punto di vista, suggerendo che quel discorso a me pare aumentare l’astrattezza, dunque i rischi di dispersione. Ho aggiunto che quando si polemizza con la scuola delle conoscenze, ci si raffigura sempre l’insegnante che spiega un pacchettino di saperi striminziti agli studenti. Ho provato a suggerire l’idea che dovremmo invece concentrarci sui saperi esperti in possesso degli insegnanti: quella è la premessa necessaria per migliorare l’insegnamento-apprendimento. Soprattutto, ho invitato a non perdere di vista il contesto storico-politico e quell’eterogenesi dei fini per la quale la scuola, stretta da mille riforme confuse ma tutte sempre benintenzionate, rischia di finire in stato confusionale.
[i] Cfr. Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, Einaudi, 2015; Thomas Hylland Eriksen, Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato, Einaudi, 2017.
[ii] «La parola [“competenza”] si presta a molteplici usi e nessuno oserebbe pretendere di darne la definizione»: Philippe Perrenoud, Costruire competenze a partire dalla scuola, Anicia, 2010. Ma non pochi sono i problemi in cui incappa anche uno studioso che peraltro ha preso chiaramente posizione contro quello che lui stesso chiama «progetto pedagogico neoliberale»: Massimo Baldacci, Curricolo e competenze, Mondadori, 2010; Id., La scuola al bivio. Mercato o democrazia?, Franco Angeli, 2019. Cfr. questo intervento di Rosario Paone.
[iii] Esemplare di questo schematismo storiografico Federico Batini, Insegnare per competenze, Loescher, 2013.
[iv] David Graeber, Burocrazia, Il Saggiatore, 2016: «Il risultato paradossale è un mare di documenti che parlano di incoraggiare “la creatività” e l’“immaginazione” in un contesto che sembra fatto apposto per strangolare nella culla qualsiasi manifestazione di creatività e immaginazione». Sull’ossessione per la trasparenza e la valutazione cfr. Byung-Chul Han, La società della trasparenza, Nottetempo, 2014; Valeria Pinto, Valutare e punire, Cronopio, 2019 (1a ed. 2012).
[v] Ma c’è una ragione storica di questo ritorno di fiamma, e non è troppo chiedere che anche parlando di scuola se ne prenda consapevolezza. C’è infatti un reciproco richiamarsi e potenziarsi tra il revival ideologico di queste forme di scientismo e l’invasione massiccia di big data e algoritmi nella nostra vita: la prevedibilità e plasmabilità del comportamento umano sono una necessità assoluta in un mondo sempre più gestito da automatismi informatici. Cfr. Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, Luiss University Press, 2019. Cfr. anche Richard H. Thaler – Cass. R. Sustein, La spinta gentile. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità, Feltrinelli, 2014.
[vi] Una utile sintesi si legge sul blog di Lucia Capuana. Cfr. anche Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Laterza, 2019.
[vii] Guido Armellini, Letteratura “alla griglia”: una ricetta difficile, in in N. Tonelli (a cura di), Per una letteratura delle competenze, Loescher, 2013.
[viii] Remo Ceserani, La crisi della scuola e il nuovo sistema dei saperi, in N. Tonelli (a cura di), Per una letteratura delle competenze, Loescher, 2013.
[ix] Cfr. circolare Miur n. 3 del 13 febbraio 2015.
[x] Sono pronto a discutere di quali testi. Il canone e le tradizioni non possono essere un feticcio.
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