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diretto da Romano Luperini

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Filippo Tuena: i territori non giurisdizionali del romanzo

Qualcosa accomuna i romanzi di Filippo Tuena e li rende immediatamente riconoscibili al lettore, ed è – oltre a una rara felicità di scrittura – il nucleo misterico, oscuro, notturno delle sue opere. Fantasmi, spiriti, ossessioni della mente sono presenze costanti della sua narrativa, tra le più originali e colte del panorama attuale. Nella nota alla riedizione di Cacciatori di notte (Corrimano, 2017) Tuena ricorda quando da ragazzo durante le villeggiature estive udiva «dalla campagna, di notte, arrivare i latrati dei cani randagi, i versi della civetta, lo squittire dei pipistrelli»: dal buio giungeva l’intero repertorio della paura, le ombre dei pini diventavano licantropi o fantasmi.

Spettri, apparizioni, visioni sono di volta in volta presenze di derivazione gotica (come nel caso dei Cacciatori), oppure magico-onirica (in Com’è trascorsa la notte), o ancora di natura psicologico-ossessiva (nei Memoriali sul caso Schumann o in Ultimo parallelo, tutti pubblicati da il Saggiatore). Ma al di là della specificità di ciascun romanzo, costante è l’idea, espressa fin dai primi libri, che con questo altro misterioso, spaventoso e irrazionale sia possibile una identificazione, e che proprio questo effetto di rispecchiamento (tanto difforme dal barthesiano effet de réel) sia il nucleo fondante del testo letterario. Analogamente a quanto avveniva nel Franco cacciatore di Giorgio Caproni, anche nei libri di Tuena il vero protagonista è colui che nella preda insegue l’immagine di sé stesso, i residui del suo passato, il doppio in cui riconoscersi. Questa ricerca-caccia ha luogo necessariamente di notte, quando la realtà è alterata e trasfigurata dall’immaginazione: come in un gioco di specchi, i corpi si duplicano, gli sguardi si fanno ambigui, gli amici divengono nemici, i vivi morti, e viceversa.

Figure

Ma c’è un’altra costante che attraversa la narrativa di Filippo Tuena, ed è l’interesse non ordinario per le opere d’arte e per l’interazione tra testo scritto e testo figurativo: convinto che «le commistioni non solo di generi ma anche di media» costituiscano il fronte oggi più interessante per l’evoluzione del romanzo, Tuena ha spesso forzato i confini del genere, tanto da auspicare in un’intervista di qualche anno fa «libri con inserti musicali, filmati, interviste, in continuo divenire, mutevoli, sempre imprevedibili» (in Narratori d’oggi. Intervista a Filippo Tuena). Un auspicio a cui ha fatto seguito l’esperimento coraggioso e oltranzista de Le Galanti.

Ne I memoriali del caso Schumann, come già ne Le variazioni Reinach, oggetto del romanzo è proprio un tema musicale, portatore ora della disarticolazione psichica e linguistica del protagonista, ora della scomparsa di una intera famiglia durante la Shoah. Per questo si può dire che il frammento sia la struttura portante della scrittura di Tuena, perché nella parzialità si illumina l’irragionevolezza e la fatalità dei casi umani. Il frammento in effetti allude alla mancanza che la scrittura vorrebbe colmare con un atto di fede, o meglio con un incantesimo, parente strettissimo delle sedute spiritiche dove tutto è contemporaneo a tutto: la vicenda narrata nelle Variazioni Reinach è esattamente questo, il tentativo di convocare un’assemblea di vivi e morti le cui voci si sovrappongono e confondono, annullando le distanze, colmando i vuoti, ricucendo gli strappi operati dalla Storia. E nel finale il progetto si adempie con la recita del Kaddish, la tradizionale preghiera ebraica dei morti. Questa opera (sacrale) di ricucitura non può tuttavia essere compiuta con le sole forze della parola: vengono così assemblate foto, lettere, sogni, referti burocratici (persino biglietti ferroviari), un ritratto dipinto da Renoir, divagazioni filologiche o stilistiche, come la stupefacente meditazione sul punto e virgola o le riflessioni su Lukács. Il tutto, al solo scopo di “recuperare la voce del sommerso”, di porre in cortocircuito l’impossibile narrazione di Auschwitz con i brandelli di un destino individuale e collettivo.

Giochi di specchi

Pubblicate per la prima volta nel 2005, le Variazioni sono state riscritte a dieci anni di distanza, in una operazione di variazione al secondo grado, di scrittura frammentaria che ritorna continuamente su se stessa e riflette sulla propria aspirazione ad assomigliare a una partitura musicale che conduce agli inferi. L’immagine della variazione musicale e della convocazione medianica di vivi e morti torna anche ne I memoriali sul caso Schumann, un racconto circolare dove la vicenda di Robert Schumann è narrata da testimoni diversi: dall’amica Rosalie Leser, alla dama di compagnia Elise Junge, da Christian Reimers al figlio Ludvig, all’allievo Johannes Brahms, le diverse voci si alternato componendo una scrittura per la quale è stata richiamata la tecnica dodecafonica. Nessuno di loro è testimone del tutto attendibile, nessuno possiede informazioni sufficienti per ricostruire l’esatta sequenza degli eventi né tantomeno per interpretarli compiutamente. Non è un caso che le parole più ossessivamente frequenti siano sogno, incubo, angoscia, demone, fantasma: negli spettri che agitano la mente di Schumann, tutti i personaggi in qualche misura si contemplano. Come Schumann si sente perseguitato dal fantasma di Schubert, così Brahms si domanda se, compiendo le sue famose variazioni sulla musica del maestro, non rischi di abdicare alla propria identità in favore di quella di Schumann. La letteratura stessa per Tuena è ragionamento sul tema del doppio, in una eterna correzione del mito di Narciso.

In questo gioco di specchi tuttavia, i personaggi di Tuena rischiano di perdersi: affacciati sull’incubo, ne subiscono la fascinazione, cadono nelle spire dell’inquietudine più nera («mi chiedete che faccio – scrive Christian Reimers –: percorro i margini del baratro, frequento la vertigine, osservo il fondo dell’abisso»). La loro realtà coincide perfettamente con un particolarissimo punto di vista sulle cose, e nonostante esso sia «quanto di più vicino agli eventi», resta nondimeno parente stretto del sogno. Sia nelle Variazioni che nei successivi Memoriali, Tuena rilancia il potere di una narrazione che colma i vuoti lasciati da un narratore costitutivamente fallace e parziale, un narratore che come Joyce è ben consapevole delle maree sotterranee che si agitano negli individui, e che tenta di trovare la via stilistica più appropriata a renderne la complessità e l’oscurità:

Sembrava monologare più che conversare. Seguiva un suo percorso interiore, frammentario come certe sue ultime composizioni, e di tanto in tanto quel percorso emergeva in superficie. Allora sillabava lentamente poche parole e subito tornava a immergersi nel soliloquio. Così ho sempre pensato che anche le sue ultime musiche altro non fossero che frammenti, affiorati da un mare sotterraneo in continuo movimento.

Dopotutto, la scrittura di Tuena ingaggia una vera e propria sfida a edificare un nuovo alfabeto letterario a partire da schegge, frantumi, particelle disconnesse, proprio come Schumann provava a fare attraverso i mattoncini del domino, un sistema di scrittura criptata che replicava lettera per lettera quello alfabetico.

Rileggere, interpretare

Queste due dimensioni della letteratura (quella magico-onirica e la tensione all’ibridazione di arti diverse) convergono perfettamente in Com’è trascorsa la notte, dove lo shakesperiano Sogno di una notte di mezza estate avvia una singolare meditazione-narrazione sulla natura del sogno: appena risvegliatasi dal sonno fatato indotto dal succo di viola che Puck le ha sparso sugli occhi, Titania domanda al suo sposo Oberon come sia trascorsa la notte, ignara di essersi innamorata nottetempo di Bottom, tramutato in mostro dalle fattezze asinine. Da questa domanda, oltre che dai dipinti di Fuseli conservati alla Kunsthaus di Zurigo, si avvia una narrazione fondata su materiali spuri: riproduzioni pittoriche e fotografie, analisi psicanalitiche, interrogativi filologici e ricostruzioni aneddotiche concorrono a costituire il fondamento più intimo dell’opera, in un amalgama di commedia, saggio, soliloquio d’amore, grazie al quale l’autore porta in collisione Shakespeare, Freud, i Beatles (curiosi interpreti del Sogno nel 1964) con i satelliti di Urano scoperti da Herschel nel 1852 e battezzati con nomi shakespeariani. La tecnica dell’innesto, l’ibridazione tra il saggio e il romanzo diventa in questo libro ancora più salda e dà luogo a un vero e proprio gioco inscenato a beneficio del lettore che Tuena vorrebbe trasformare, da spettatore passivo, in collaboratore e alleato nella ricerca e nell’approfondimento dei possibili piani di lettura. Nel bosco in cui la scena è collocata, in effetti, il lettore si smarrisce e ritrova su molteplici sentieri interpretativi: Tuena coglie così il mistero di ogni rilettura, nella quale è occultata una traccia memoriale che, come un sogno, balena e poi svanisce. Una traccia mnestica di cui il narratore (forse memore di quel «no quiero recordarme» che inaugurava il Don Chisciotte) dice: «non la ricordo e non voglio ricordarla».

Inconsistenza e moltiplicazione sono le parole costitutive di questo testo: i personaggi, fedeli alla tradizione che ce li ha consegnati, riflettono su questa stessa tradizione e sulla loro natura di interpreti. Veniamo così messi a parte delle parole che pronunciano in scena così come delle meditazioni che, in quanto attori, dietro le quinte affidano al lettore. Essi si interrogano sul rapporto tra apparenza e sostanza che era già in Shakespeare e che Tuena, anche grazie alla lezione di Debenedetti, porta alle sue estreme conseguenze: tessendo la tela di un personalissimo teorema d’amore, l’autore si interroga sulla natura di quel sussulto interiore che è di volta in volta ritrosia, smania di fuga, ma anche degenerazione, desiderio oscuro, pulsione di morte e attrazione gravitazionale. In fondo l’amante è propriamente un lunatico, (dunque un parente di quei lupi mannari con cui Tuena aveva avviato la sua ricerca letteraria) in continua oscillazione tra la levità di Puck e la malinconia di Filostrato. E proprio Filostrato (personaggio quasi irrilevante nell’originale shakespeariano, dove era congedato già alla terza battuta per non far più ritorno in scena) diventa qui centrale: Tuena gli attribuisce il compito di indagare la natura dei personaggi, ne fa una sorta di alter ego dell’autore e del critico. Filostrato è, etimologicamente, “l’amante delle classificazioni”, ma rinvia anche al personaggio boccacciano che mette in scena l’amore come ragionamento, come pensiero di sé e dell’altro, dunque ancora una volta come meditazione sul doppio. Nascosto in biblioteca, seduto accanto al lettore come l’uomo in più dello stupefacente Ultimo parallelo, Filostrato è capace di dar luogo e nome ai sogni, indagando ciò che nell’opera resta occulto.

Il terzo uomo

In Ultimo parallelo – recentemente ripubblicato con una nuova introduzione e materiali inediti – questo terzo uomo di derivazione eliotiana procedeva «incappucciato avvolto in un mantello bruno» al fianco degli esploratori in marcia verso l’Antartico: come in ogni libro di Filippo Tuena, la storia è narrata da una apparizione, un incubo o un fantasma impossibile da scacciare, da un ignoto pellegrino che «all’ora del tramonto, lungo un sentiero indeterminato» cammina al nostro fianco. Questo spirito misterioso, che gli uomini della spedizione Shackleton raccontavano di aver percepito accanto a loro durante la marcia che li avrebbe portati a recuperare rullini fotografici e diari di Robert F. Scott, sarebbe stato cantato in seguito da Eliot, e sovrapposto al brano evangelico dei discepoli di Emmaus, per i quali la presenza numinosa lungo il cammino schiude la possibilità di dar sfogo alle parole, che così escono dalla disgregazione e si fanno storia.

Questa figura misteriosa e senza volto è il medium che consente di intessere un rapporto ambiguo tra lettore e narratore, che si specchiano l’uno nell’altro attraverso il libro, un libro che diventa un resoconto della lettura stessa. La nuova edizione di Ultimo parallelo accentua ulteriormente questa impressione di labirinto di riflessi, riproducendo versioni intermedie del testo, appunti di lavoro, aneddoti legati ai mesi di stesura del libro, nella convinzione che ciò che si scrive «va a intrecciarsi con la vita del lettore». Non siamo di fronte solo a una operazione di auto-filologia di un autore che peraltro dichiara scarso interesse per gli Ur-text e in generale per le ragioni dell’oblio: ripubblicare un libro, recuperando pagine stralciate o rifiutate, significa anche andare alla ricerca dell’«origine delle passioni», procedere in una ricognizione che ha lo stesso grado di incertezza «di chi procede nella nebbia o nella tempesta».

Come gli uomini di Scott, anche Filippo Tuena si avventura in territori ignoti, in quelle che Caproni chiamava le terre non giurisdizionali: i suoi romanzi deformano il genere stesso, i suoi personaggi più che persone sembrano miraggi, enigmi contro cui si scontra il tentativo di edificare una storia. Consapevole dell’impossibilità di risolvere la questione, Tuena pone al centro della vicenda «la descrizione delle macerie che emergono dall’impatto che la storia narrata ha col narratore» (Narratori d’oggi. Intervista a Filippo Tuena cit.). Anche per lui, dunque, vale il principio eliotiano:

These fragmets have I shored against my ruins (The waste land, v. 430).

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