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diretto da Romano Luperini

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In partibus infidelium ovvero delle lezioni di didattica apprese insegnando latino ai margini

 In partibus infidelium: «espressione usata in passato […], per indicare i vescovi […], le cui diocesi, puramente onorifiche, si trovavano in paesi occupati dai Turchi»; «L’espressione pare sia originata dalla distruzione od occupazione, da parte d’infedeli, di città sedi residenziali di vescovi: questi, fuggiti o lontani, conservavano il titolo» (Treccani, Vocabolario ed Enciclopedia italiana)

Barbaro e vescovo abusivo

Parlerò dell’insegnamento del latino, più precisamente di alcuni suoi aspetti, più precisamente di quello che mi è capitato durante una specifica lezione di letteratura. Tuttavia vorrei tirare conclusioni generali sull’insegnamento della letteratura senza aggettivi e partizioni di campo. Sono convinto infatti che certi fenomeni globali possano essere colti più nitidamente, se li si guarda dal margine e dalla periferia.

Ma in che senso “margine e periferia”? 1) Parlo di insegnamento del latino da laureato in letteratura italiana (da barbaro modernista insomma); 2) insegno in un liceo nel quale il latino è percepito come una materia secondaria (liceo delle scienze umane: 3 ore nel biennio, 2 nel triennio, quando peraltro la materia diventa solo orale e non si possono più fare versioni in classe. Quando mi sono attentato a chiedere a una classe di ottimo livello se avrebbero accettato che il latino fosse eliminato dal loro curricolo, lasciando il resto inalterato, ho dovuto constatare amaramente che due terzi ci sarebbero stati eccome); 3) il prestigio formativo del latino e in generale della letteratura nei nostri anni morde sempre di più la polvere.

In quanto vescovo in partibus infidelium, perciò, predico in una terra ostile un verbo di fronte al quale io stesso sono un barbaro; tuttavia continuo a predicarlo perché mi consente di conservare un titolo onorifico – insegnare letteratura –, nonché una discreta prebenda – una percentuale del mio stipendio deriva dall’insegnamento del latino, e tocca meritarsela.

Preliminari alla lettura

La settimana scorsa, leggevo con una quinta il racconto della caduta di Troia che Enea fa a Didone durante il banchetto in onore dell’ospite. A mero scopo esemplificativo dell’intero brano, riporto una piccola parte dei versi relativi a Sinone, il greco che si fa catturare appositamente dai Troiani, allo scopo di persuaderli, con un racconto inventato, ad accogliere il cavallo di legno dentro le mura. Sinone racconta l’intervento dell’indovino Calcante, il quale, dopo aver rivelato ai Greci che Atena è adirata con loro per il furto del Palladio da parte di Ulisse e Diomede, li invita a partire e ad offrire alla dea il cavallo di legno in sostituzione della statua rubata:

Subito Calcante vaticina che si deve fuggire per mare,

e che Pergamo non si può distruggere con armi argoliche,

se non ricerchino auspici ad Argo e riportino il simulacro

trasportandolo con sé sulle acque e sulle curve carene.

Ed ora, poiché veleggiarono alla patria Micene,

si preparano armi e dèi favorevoli, e rivarcato il mare

giungeranno improvvisi. Così interpreta gli auspici Calcante.

Esortati da lui collocarono questa effigie in compenso del Palladio,

in compenso del nume offeso, affinché espiasse l’infausto

sacrilegio. Tuttavia Calcante ordinò di elevare l’immensa

mole con roveri conteste, e di erigerla fino al cielo,

perché non si potesse accogliere tra le porte o condurre tra le mura,

né proteggesse il popolo all’ombra dell’antica religione.

Infatti se la vostra mano violasse i doni offerti a Minerva,

allora – prima gli dèi volgano l’auspicio su Calcante! –

una grande rovina accadrebbe all’impero di Priamo ed ai Frigi;

se invece per mano vostra ascendesse alla vostra città,

l’Asia verrebbe spontaneamente con grande guerra alle mura

di Pelope, e questi fati toccherebbero ai nostri nipoti

(Eneide, II 176-194, trad. Luca Canali)

Il nostro manuale (M. Bettini – M. Lentano, Mercurius, vol. 2) antologizza un brano di 233 versi, che ho letto interamente in classe, in italiano. Ci ho messo 4 ore di lezione, due settimane. È vero, siamo in dad e abbiamo ridotto le ore a 45 minuti. Ma credo che in presenza, e con ore di 55 minuti, non ce ne avrei comunque messe meno di 3. Il fatto è che la comprensione letterale di quel brano è stata faticosissima. Eppure la classe è tutto sommato di buon livello.

Che difficoltà hanno incontrato? Difficoltà di comprensione del lessico: i latinismi e le parole che si riferiscono a oggetti o idee specifici della civiltà antica (auspici, simulacro, Palladio). Spiazzamento di fronte ad alcuni stilemi tipici dell’epica: per fare un solo esempio, il fiorire, intorno a uno stesso referente, di sinonimi, metonimie, sineddochi (Argo, poi Micene, a indicare in generale la Grecia, l’Asia per indicare la Troade, i Frigi, le mura di Pelope).

Ma la difficoltà ricorrente, e che qui più mi interessa, è stata quella di costruire progressivamente il senso del testo, aggiungendo un blocco di comprensione all’altro, per ricavarne un quadro coerente: operando inferenze, riempiendo gli impliciti, riconnettendo porzioni di testo al cotesto (quanto avevamo già letto) e al contesto (che fornivo io con apposite spiegazioni). Ad esempio, di fronte ai vv. 183-188 sono stato io a dover rimettere ripetutamente ordine: Calcante esorta i Greci a compensare la dea Atena (nume offeso) con il cavallo (effigie), allo scopo di espiare l’infausto sacrilegio del furto del Palladio; il cavallo (l’immensa mole) dovrà però essere talmente grande da non poter essere portato dentro le mura di Troia, impedendo ai suoi abitanti di riceverne la protezione. In altre parole, il cavallo, nelle parole messe in bocca simulatamente a Calcante dal racconto di Sinone, doveva proteggere i Greci, ma escludere i Troiani. Secondo la logica per la quale se qualcosa mi viene proibito io sono spinto a farla, Sinone sta manipolando gli ascoltatori perché facciano quello che si dice non dovrebbero fare. In questo intrico di discorsi nei discorsi (Enea narra a Didone di Sinone che narra ai Troiani di Calcante che si rivolge ai Greci, ma quest’ultimo discorso in verità non si è mai tenuto ed è stato inventato ad arte), di intenzioni manifeste e celate, di parole vere e parole false, di narrazioni scorciate (l’epica classica è in questo molto diversa dalle forme narrative a noi più consuete), di impliciti culturali, di difficoltà linguistiche, la lettura è diventata una fatica di Sisifo: “professore, ma non ci aveva detto che il cavallo era un’invenzione di Ulisse, che c’entra ora questo Calcante, e chi è?” (“ma il discorso di Calcante è in realtà inventato da Sinone!”), “perché il cavallo non deve proteggere i Troiani?”, “dove sono finiti i Greci?” (“si sono nascosti in una baia, l’abbiamo letto nei versi precedenti!”), “ma se l’ira divina è inventata, allora da dove vengono i sue serpenti che uccidono Laocoonte e i figli?” (“la caduta di Troia è decisa ormai dal fato, la morte di Laocoonte che cerca di impedirla è un segno del destino!”), …

Se la comprensione di un testo dipende in minima parte da quello che il testo dice esplicitamente e per la gran parte dall’azione del lettore e dalla sua enciclopedia, per arrivare a far comprendere questo testo sono stato costretto a un regresso ad infinito nelle spiegazioni, fino al punto che non stavo più spiegando il testo (men che meno ero nelle condizioni di interpretarlo!), ma stavo fornendo le informazioni enciclopediche preliminari alla sua comprensione. L’oggetto stesso della lezione mi era cambiato sotto il naso mentre la tenevo.

Il latino, in italiano

Nelle Indicazioni nazionali per il latino nel liceo delle scienze umane (sintetizzo per sommi capi) si legge che lo studente del triennio conosce la lingua e sa tradurre, sa valutare le scelte di traduzione altrui e riflettere su versioni contrastive, conosce la letteratura nel suo profilo storico generale, ha letto gli autori principali dall’età arcaica fino ad Agostino, avendo una estesa conoscenza delle opere in versione italiana e avendo affrontato sotto la guida dell’insegnante brani in lingua originale.

Facciamo un piccolo calcolo: le ore annuali previste per il latino sono 66, detraiamo le ore impiegate in verifiche e interrogazioni, detraiamo le ore perse per malattie del docente (io mi ammalo pochissimo, in ogni caso), scioperi, nevicate, PCTO, conferenze varie, orientamento in uscita (doveroso). Diciamo, ad essere molto ottimisti, che restano 40 ore. Ho impiegato il 10% del tempo a mia disposizione nella lettura (lettura e niente di più, sottolineerei) di un brano di Virgilio. Non solo: ho letto Virgilio in italiano. E il latino? Qui siamo alla parafrasi della traduzione. Se la classe non fosse stata, come è, di quelle che seguono e studiano anche per senso del dovere, li avrei persi dopo la prima mezzora.

Passare dal testo o non passare dal testo

Per ciascuna delle abilità e competenze individuate dalle Indicazioni nazionali, servirebbe un lavoro continuativo di mesi, che produca ben precisi habitus: ad esempio, per saper valutare due versioni contrastive non basta un laboratorio una tantum. Quando leggere tutti gli autori previsti, estensivamente in italiano e intensivamente in originale, mentre si fornisce anche un profilo storico-letterario che non sia una mera linea del tempo con data di nascita e di morte degli scrittori? Quando mantenere gli studenti in esercizio con la lingua, se non hanno nemmeno più la spada di Damocle della versione in classe e la letteratura è un mare magnum?

Ma concentriamoci ancora sul problema della lettura del testo in originale, che mi pare il cuore del problema. È un segreto di Pulcinella che la lezione di quelli che una volta si chiamavano “autori” spesso si riduce a fornire agli studenti una versione italiana che essi appiccicano sull’originale latino. Se si volesse essere sicuri che lo studente ne abbia una vera comprensione, sarebbe necessario guidarlo a una ricognizione linguistica molto più minuziosa. Probabilmente l’ideale sarebbe lasciargli il tempo di produrre la propria traduzione, in forma laboratoriale. Solo a quel punto sarà possibile interpretare, discutere, contestualizzare, collegare. (Lascio che sia il lettore a calcolare se le 40 ore sono già state o no superate).

Per esprimersi in termini più rigorosi: prima lettura / comprensione / traduzione / spiegazione, poi interpretazione / valutazione / commento, come insegna la critica ermeneutica e come ha scritto in molte occasioni Romano Luperini. In effetti, si può “appiccicare” allo stesso modo un’interpretazione critica a un testo nella propria lingua: interpretazione che lo studente può ricavare dai cappelli introduttivi del manuale, dalle guide alla lettura al fondo dei brani, dalle spiegazioni dell’insegnante. In tutti i casi, del testo si può fare completamente a meno.

Qual è il punto? Che in questo caso io e la mia classe siamo rimasti inchiodati alla prima fase, che è necessaria ma non sufficiente. Non leggiamo un testo tanto per leggerlo, ma perché ci dica qualcosa. Però necessario significa necessario: il primo passo non può essere saltato. Infatti non ho voluto saltarlo. E ci sono rimasto impantanato.

Oltre il latino

Problemi simili si danno anche al di fuori dell’insegnamento del latino, anzi direi che si tratta di un problema generale e strutturale della didattica della letteratura. Vuoi per difficoltà strettamente linguistiche – la prosa di Boccaccio o di Machiavelli, i versi dei Sepolcri, e sono esempi fra altri–, vuoi per carenze nell’enciclopedia degli studenti, leggere testi letterari è complesso, probabilmente sempre più complesso con il passare degli anni. Non ci sono soluzioni semplici. Certo le hanno quanti fanno spallucce davanti al presunto (secondo loro) esaurimento della funzione formativa del latino e della letteratura. Ricordo ancora lo sbuffare di una mia formatrice: ma a che serve fare Eliot a scuola! Bisogna imparare la lingua per comunicare! Ecumenicamente le obiettai che potevamo e dovevamo fare entrambe le cose. Oggi non ci credo più. Le Indicazioni nazionali possono esibirsi nella finzione di prescrivere tutto senza vincolare a nulla. In classe entriamo noi e contro i muri del tempo scarso e dell’impossibilità del compito ci finisce il nostro muso.

Credo che dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la coperta è corta: se leggo per bene i testi, potrò affrontare pochissimi autori; se voglio privilegiare una conoscenza più a volo d’uccello della storia della letteratura, dei suoi temi, autori, generi, non potrò lasciar intendere che gli studenti abbiano anche sviluppato l’habitus di commentatori, traduttori, parafrasatori di testi. E così via.

Lo so, la faccio facile. In effetti credo che se aprissimo una tavola rotonda riformatrice, per trovare la soluzione, finirebbe in duelli all’ultimo sangue. Perché nessuno accetta compromessi molto al ribasso. E dover ammettere che in una quinta mi sono dovuto accontentare solo della lettura di Virgilio in italiano, in tutta evidenza lo è. Eppure proprio con loro, in prima, ho lavorato in modo accurato all’epica omerica, non erano affatto digiuni sull’argomento. Certo potremmo tirare in ballo metodologie di insegnamento non adeguate (da parte mia), studio insufficiente (da parte loro), per spiegare lo scacco. Ma credo che ci sia una risposta più produttiva e che ci pone sfide più interessanti. La loro enciclopedia del mondo antico è ridotta, non solo perché non hanno scelto il liceo classico, ma anche perché nel mondo che ci circonda quella porzione della cultura occidentale è diventata una parte minima e marginale. Dobbiamo fornirgliela noi a scuola, dirà l’ottimista. Certo, va bene. Però dobbiamo sapere e dirci, allora, che stiamo facendo quello, alfabetizzazione al mondo antico: un gesto preliminare a quelli in cui fingiamo invece di essere impegnati. Ci basta davvero?

Soluzioni? Al massimo espedienti

Si è parlato molto, negli ultimi anni, di riservare lo studio del latino al solo liceo classico, lasciando agli altri licei, al più, lo studio della letteratura e cultura su testi in traduzione. Sostanzialmente le attuali Indicazioni nazionali non hanno sposato questa tesi, ma sono pilatesche: ci sono ambiziosi obiettivi di studio della letteratura e cultura e di studio della lingua, nel biennio del liceo linguistico, al liceo delle scienze umane, al liceo scientifico (ma in quest’ultimo con una drastica riduzione oraria: nel biennio si è passati da 4 e 5 ore all’anno a 3 e 3). Certo la soluzione suddetta sarebbe per certi versi un sollievo per la didattica: potremmo smetterla di far finta di leggere le Catilinarie sull’originale, dedicando tutto il nostro tempo alla conoscenza di quella (lontana ed esotica) cultura. Ma questa proposta, oltre ad avere la grave controindicazioni di cancellare lo studio della lingua al biennio, a mio parere altamente formativo, sarebbe una soluzione comunque strabica: il problema non è solo la lingua, ma la comprensione dei testi. Ed essendo la comprensione dei testi un fenomeno non solo linguistico, ma culturale, in un mondo in cui la cultura classica e letteraria vengono vieppiù marginalizzate, anche un gesto solo all’apparenza “tecnico” come la lettura di un testo non strettamente contemporaneo diventa così complicato che dirsi “allora tanto vale rinunciarci” assomiglia parecchio a una profezia che si autoavvera e che anzi facciamo di tutto per accelerare.

Io, per intanto, mi sono piegato a malincuore a qualche espediente, che mi guardo bene dal considerare la mia pars construens o una proposta risolutiva da condividere. Ammetto che il fatto di essere un barbaro modernista mi abbia facilitato la vita. Capisco bene che un collega classicista sia più ritroso e possa considerare questi espedienti dei mezzucci. Però la realtà sta lì, dolorosa.

Dunque, come ho provato a districarmi? Messa da parte la presunzione ipocrita che le mie classi davvero sappiano leggere testi d’autore in originale, continuo a farle esercitare per tutto il triennio su versioni di manuale, alla loro portata. Insomma, continuo a fare (un po’) di lingua come al biennio. Ciò mi costringe a ridurre in modo abbastanza drastico il novero di autori che affronto: privilegio le due età classiche, di Cesare e di Augusto (questa seconda, in questo modo, mi accompagna fino in quinta, il cui programma di età imperiale finisce strozzato). Procedo per generi e temi (il teatro, la crisi della Repubblica, l’amore, la satira). Leggo i testi d’autore in italiano, facendo eccezione per un paio di brani di Cesare, Cicerone, Seneca e un paio di poesie di Catullo e di Orazio, che però sviscero fino in fondo: un brano di 15 righe di Cesare mi porta via, in questo modo, parecchie ore. Limito le analisi e le interpretazioni criticamente raffinate e mi accontento dell’obiettivo più semplice di far conoscere alcuni testi e temi centrali della cultura latina (ad es. la declinazione fortemente morale della loro filosofia, tra Cicerone, Orazio e Seneca).

Complessivamente vengo gravemente meno alle Indicazioni nazionali. Quando guardo la rendicontazione dei programmi svolti a fine anno, mi vergogno sempre della loro smilza figura e penso di essere un barbaro. E stavolta lo dico senza autoironia.

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