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Pubblico e privato in L’Evento di Annie Ernaux

 «Ho finito di mettere in parole quella che mi pare un’esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo»

Con queste parole Annie Ernaux si avvia a concludere L’Evento, uscito in Francia nel 2000 per Gallimard e quasi vent’anni dopo pubblicato in Italia da L’ombra e tradotto da Lorenzo Flabbi.

Il punto focale della narrazione è dunque il corpo, quello di una studentessa di lettere che nel 1963 a Rouen scopre di essere incinta e decide di abortire clandestinamente. In Francia la legge di quegli anni vietava l’aborto, e perciò per questa ragazza, dal momento in cui il ginecologo pronuncia il verdetto, avrà inizio un tormentato e angosciante viaggio alla ricerca di una soluzione. Perché lei non vuole saperne di portare avanti la gravidanza, di arrendersi ad un destino che non vuole accettare e che le sembra orribile, come annota sul suo diario di studentessa: «È orribile: sono incinta». Mentre la vita intorno a lei continua a scorrere inesorabilmente, la protagonista sente di essere ormai esclusa dal mondo: nemmeno la morte di Kennedy a Dallas una settimana dopo la terribile scoperta può scuoterla da tale sensazione.

Completamente sola e costretta ad affrontare l’ipocrisia di medici che invece di aiutarla le ricordano soltanto l’illegalità nella quale sta precipitando, Annie finirà fra le mani di mammana, una «fabbricante di angeli» che per 400 franchi le infilerà una sonda nell’utero, tra le urla di dolore: «su, piccina, la smetta di urlare, devo pur fare il mio lavoro».

Le pagine che descrivono le ore dell’aborto, dell’espulsione del feto nel bagno dello studentato, in una notte che non sembra volgere al termine, sono le più intense dell’intera narrazione: «È zampillato all’improvviso come lo scoppio di una granata, in un fiotto che si è allargato fino alla porta. Ho visto un piccolo bambolotto penzolarmi dal sesso, appeso a un cordone rossastro. Non avevo immaginato di avere dentro di me una cosa così. Dovevo camminare portandomelo dietro fino alla stanza. L’ho preso in una mano – aveva una strana pesantezza – e mi sono trascinata lungo il corridoio stringendolo tra le cosce. Ero una bestia».

Siamo di fronte al compimento di un rito sacrificale, di cui è protagonista il corpo della donna. Ma sarà proprio questo corpo devastato, e il dolore – un dolore concreto, fisico – che la ragazza prova, a cambiare per sempre la sua vita, consentendole alla fine di avvertire anche una certa fierezza per avercela fatta, per aver superato l’evento: «Non sapevo se ero stata ai confini dell’orrore o della bellezza. Provavo un senso di fierezza. Forse la stessa dei navigatori solitari, dei drogati e dei ladri, quella di essersi spinti fin dove gli altri non oserebbero mai andare»

La crudezza e la spietatezza di queste pagine, scritte cercando di resistere alla tentazione di lasciarsi andare «al lirismo della collera o del dolore», colpiscono con violenza. Rifiutandosi di affidare la scrittura agli artifici retorici e a espressioni troppo esplicite e dichiarate, Ernaux vuole restare fedele alle sensazioni di un momento di profonda infelicità. E ci riesce, accompagnando il lettore, pagina dopo pagina, nel flusso della quotidianità di quei giorni, non in cerca di consolazione, ma soltanto con la volontà di rappresentare una realtà viva, di dire il vero e di dare voce a un’esperienza che parla semplicemente di un corpo – della materialità di un corpo -, inserito nella realtà brutale di un preciso momento storico.

Come spesso accade nelle opere di Ernaux, siamo infatti di fronte ad una vicenda privata e personale che riesce a parlarci di una ferita collettiva, costringendoci a fare i conti con la solitudine e il dolore di una donna che nella Francia e nell’Europa di quegli anni decide di abortire, e obbligandoci a pensare alle tante donne che ancora oggi non si vedono riconosciuto il diritto di disporre di se stesse.

Ancora una volta si tratta di un’opera autobiografica, ma come già per Il posto, L’altra figlia, Memorie di una ragazza, e soprattutto Gli anni, anche questa vicenda diventa un modo per andare oltre il semplice autobiografismo e parlare di un io storico, affrontando questioni del mondo contemporaneo. Del resto Ernaux ha più volte dichiarato che a lei interessa che l’Io sia legato al Noi e che ci sia un legame indissolubile fra collettività e individualità attraverso la presenza della Storia. L’autobiografismo insomma non è un rifugio nel privato, ma una denuncia di una situazione storica; un modo per tornare alla realtà dopo il postmodernismo.

Rispetto a Gli anni, storia di una generazione dal dopoguerra ad oggi, con L’evento siamo indubbiamente davanti ad un autobiografismo più tradizionale, in cui il privato prevale decisamente e l’io del narratore coincide con l’io della protagonista. E non manca – neppure qui, come in altre opere della scrittrice – una punta di compiacimento letterario nel ritenere la scrittura un privilegio unico ed eccezionale. Tuttavia è alle ultime parole che è affidato il messaggio più vero di questo romanzo che nasce dalla necessità di raccontare qualcosa che altrimenti andrebbe perso. Non raccontare questa esperienza di clandestinità e di dolore significherebbe infatti tacere delle vittime e continuare a nascondere aspetti decisivi della storia della femminilità, nella sua materiale concretezza:

«Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento, che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il solo scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella testa e nella vita degli altri».

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