La dad a scuola finita
Premessa
La premessa è che a scuola finita la maggior parte degli insegnanti e delle famiglie, legittimamente, non ne può più di parole più o meno centrate su quello che è stata la didattica a distanza. Meglio per tutti, in questo inizio estate, riprendere contatto con il sole e le persone. Cercherò dunque la sintesi, affidando alla clemenza di chi legge il rischio di saltare a piè pari questioni dirimenti (per dirne una, quella che non c’è stata una questione dad come mediaticamente s’è raccontato, ma almeno cinque questioni dad: quella della primaria, quella della secondaria inferiore, quella del biennio, quella triennio, quella dell’università), al fine di isolare quattro dati a mio parere significativi in proiezione futura, opinabili, discutibili, ma scritti per ragionare insieme.
Tutti protagonisti
Il primo dato è che la questione della civiltà digitale (perché di questo parliamo quando discutiamo di dad) ha per la prima volta, nel 2020 e per necessità, tirato dentro tutti. Sul fronte insegnanti, fino a febbraio 2020, è esistita la tribù degli insegnanti (con i suoi soldati semplici e i suoi sciamani) che glorificava il digitale da più lustri e la tribù degli insegnanti (con i suoi soldati semplici e i suoi sciamani) che il digitale l’ha sempre maledetto. Certo, esisteva anche il grande popolo di mezzo, ma stiamo semplificando. Sul fronte delle scuole, fino a febbraio 2020, è esistito il villaggio delle scuole già nel futuro, iperconnesse, dotate di tablet anche per appoggiare il caffè e il villaggio delle scuole ipoconnesse e della lavagna d’ardesia. Certo, esistevano anche i numerosi villaggi di mezzo, ma stiamo semplificando. Dopo febbraio 2020 ovviamente non c’è stata palingenesi, ma è un dato che le due tribù di insegnanti abbiano per forza iniziato a mischiarsi, così come i piccoli villaggi delle scuole abbiano iniziato a guardarsi, non per invadersi a vicenda ma se non altro per invocare un processo più o meno possibile di allineamento, ineludibile anche per chi governa.
Giocare a carte scoperte
Il secondo dato è che finalmente la partita della civiltà digitale s’è giocata a carte scoperte e su un tavolo comune. Il fatto che dopo febbraio 2020, al netto di ritardi più o meno gravi (in alcuni casi drammatici), tutti abbiano avuto infine contezza di cosa fosse banalmente una piattaforma, un cloud, un file condiviso, un questionario on line ha determinato due effetti speculari. Da una parte i portabandiera del vessillo digitale hanno visto diffuso ovunque il tesoro prezioso, perché, è un dato anche questo, gran parte dei docenti digitali, almeno fino a febbraio 2020, erano stati tali perché in fondo sapevano mettere a frutto virtuosamente l’utilizzo di una piattaforma, di un cloud, di un file condiviso, di un questionario on line (certo, non solo questo, ma molto di questo). Forse si sono sentiti deprivati di una prerogativa che li aveva fatti sentire unici, baluardo a fronte di orde di passatisti, ma del resto non si stava avverando il loro sogno, una scuola dove chiunque avesse saputo linkare, condividere, taggare? Dall’altra parte i luddisti d’antan del digitale si sono trovati costretti, spesso con grandi lutti, a mettere mano a tutto ciò, ma in fondo, dopo qualche tempo hanno constatato che l’utilizzo di una piattaforma, di un cloud, di un file condiviso, di un questionario on line (certo, non solo questo, ma molto di questo) non era in fondo così proibitivo, così ostico, non era il male. Insomma, che l’altura digitale da cui il collega aveva fatto sentire a lungo idioti almeno altri dieci colleghi, non era in cima a una vetta himalayana ma al limite su una collinetta raggiungibile, con fatica ma nemmeno troppa, e soprattutto, per lo meno quella spocchia non così giustificata.
Risignificazione dei pesi
Il terzo dato è che le legittime (sì, legittime entrambe) ragioni dei fautori del digitale e di chi nel digitale ha da sempre visto una minaccia possano oggi confrontarsi su un terreno nuovo, quello della risignificazione dei valori, alla luce di una esperienza a questo punto sottratta all’ambiguità. Da questo punto di vista, e qui comincia davvero a farsi sentire un po’ di aria fresca, c’è stato un grande processo di presa di coscienza collettiva, che potrebbe sgomberare il campo da equivoci annosi. Quattro mesi di dad hanno fatto sì che a giugno, a tutti i livelli, da quello governativo a quello del bar social (che spesso si sono confusi), da quello dei docenti smart a quello dei docenti deamicisiani, si sia sentita ripetere questa frase: «la dad non può sostituire la didattica in presenza». Potremmo già fermarci qui e magari elencare i motivi dell’occorrenza naturale e spontanea di questo sentire collettivo, che ha il peso del dato di realtà, pesante per chiunque volesse nonostante tutto rovesciarlo (penso all’università, dove il rischio è esponenzialmente più alto rispetto la scuola per mille motivi che non sto a dire). Quattro mesi di dad ci hanno poi fatto vedere ciò che può fare la dad e ciò che non può fare la dad. Per usare due esempi personali ha ridicolizzato ad esempio la memoria del formatore ipersmart che qualche anno fa volle convincere un intero collegio mostrando l’effetto hype della sua app di realtà aumentata e l’obsolescenza del nostro libro di testo ma ha ridicolizzato anche il docente che sempre qualche anno fa mi mostrò il suo verbale scritto in bella grafia a mano, a fronte della mia proposta di un file condiviso per non perderci tra mille invii mail. Quattro mesi di dad hanno imposto a tutti il passo dovuto di sapere maneggiare dati, caricarli, modificarli, scontrarsi con i tempi morti di gestione degli stessi, velocizzando i processi, conoscendo le macchine e i programmi, sperimentando dopo le prime frustrazioni l’immenso risparmio di tempo da rinvestire poi in valore aggiunto, perché poi scuola non abbiamo continuato a farla sui dati ma a partire dai dati. Quattro mesi di dad hanno infine sgomberato il campo sul tema della centralità del docente, che mai come in tempo di dad si è riproposta come imprescindibile, ma anche sugli annosi dibattiti sulla lezione frontale che, al netto delle mille strategie messe in atto e dei distinguo su cosa significhi nel 2020 “lezione frontale”, si è confermata centrale proprio in tempo di dad.
Una riflessione che sarà di tutti
Il quarto e ultimo dato è che mi pare sia quindi giunta una nuova stagione di riflessione sulla civiltà digitale e l’educazione, che finalmente e per la prima volta coinvolge tutti e alla quale tutti dovrebbero portare il loro apporto. La questione della nuova civiltà digitale ha bisogno sia dell’entusiasmo di chi rincorre il nuovo in fondo per migliorare la scuola, ma anche di chi mette a sistema la complessità dei modelli precedenti, che a volte sembrano essere la risorsa primaria affinché lo scatolone digitale possa essere riempito significativamente e non rimanere vuoto come spesso negli anni passati è stato. Le questioni sono decisive. Esistono rischi epocali, penso ad esempio al tema dell’ingresso dei grandi colossi digitali privati nella scuola che di colpo è stata traslocata dentro mura virtuali private, a scuole letteralmente brandizzate da soggetti privati planetari che sollevano il tema, oltre dell’edilizia fisica anche dell’edilizia digitale, della libertà e della democrazia. Ma esistono anche opportunità epocali, in primis la ridefinizione della funzione docente e della sua centralità, della rinegoziazione di un linguaggio comune tra sistema educativo e l’altra componente a torto spesso assente dal dibattito pubblico: quella delle ragazze e dei ragazzi di questa e delle generazioni che verranno. Meriterebbe una riflessione a parte la coscientizzazione (verificatasi in molti casi) della assenza fisica e della nostalgia della presenza dell’altro, da parte di una generazione di adolescenti che sembrava potesse vivere tranquillamente le proprie relazioni per via digitale. Questioni storiche, imposte da questo 2020 e che pretendono a un processo di elaborazione, al quale il mandato intellettuale che gli insegnanti sono tenuti ad assumere non potrà sottrarsi.
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