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diretto da Romano Luperini

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Se volessi un’altra volta… A proposito di Pier Vincenzo Mengaldo I chiusi inchiostri – Scritti su Franco Fortini

 

 Gli imperatori dei sanguigni regni

guardali come varcano le nubi

cinte di lampi, sui notturni lumi

dell’orbe assorti in empi o rei disegni!

Già fulminanti tra fetori e fumi

irte scagliano schiere di congegni:

vedi femori e cerebri e nei segni

impressi umani arsi rappresi grumi.

A noi gli dèi porsero pace. Ai nostri

giorni occidui si avvivano i vigneti

e i seminati e di fortuna un riso.

Noi bea, lieti di poco, un breve riso,

un’aperta veduta e i chiusi inchiostri

che gloria certa serbano ai poeti.

Donatello Santarone ha curato la pubblicazione, raccolti in un unico volume, degli scritti di Pier Vincenzo Mengaldo su Franco Fortini: I chiusi inchiostri (Quodlibet, 2020). Il titolo è una citazione dal sonetto Gli imperatori…, che fa parte delle Sette canzonette del Golfo in Composita solvantur, riportato (pag. 237) dallo stesso Santarone nel puntuale saggio finale del volume.

 

Un dialogo ininterrotto

Il libro consente di cogliere la profondità del dialogo intellettuale che si instaura nel tempo tra Mengaldo e Fortini, fino a rendere il loro rapporto amicale. E da questo punto di vista bisognerà pur sottolineare che ai 16 testi assemblati da Santarone è necessario aggiungere il delizioso Ricordi di Franco Fortini di Mengaldo, posto a premessa per l’occasione dei successivi scritti, tutti cronologicamente precedenti. Avremo così testi che dal 1974 giungono fino all’agosto 2019. Ma, cosa forse più importante, potremo constatare come il primo dei 17 scritti illumini tutti gli altri: non già perché si voglia indulgere alla predilezione per l’autobiografismo, cosa che credo sia estranea a Mengaldo tanto quanto lo era a Fortini, ma perché è possibile attraverso quel testo travalicare i confini del libro, che pure è un recinto prezioso, per attingere a quello che c’è intorno, fatto di sostanza umana. E questo credo che a Fortini sarebbe molto piaciuto. Non è la storia privata, che pure ha una sua profonda essenza di storia, ad avere valore in sé, ma la possibilità di ricostruire nella loro fisicità i movimenti di due uomini che si incontrano sul terreno della letteratura, con le loro predilezioni ed insofferenze, ed anche in ragione di esse – e necessariamente attraverso esse – instaurano un confronto intellettuale che non ha nulla di teorico.

Se non ricordo male la prima volta che vidi (vidi non conobbi) Franco Fortini fu ad un magno convegno di linguistica e affini a Milano, inutile come quasi tutti i convegni ma sacrosanto per me per la presenza del grande Émile Benveniste, che sorrideva finemente alle sciocchezze che andava dicendo un giovane linguista italiano. A un certo punto vidi, senza avvicinarmi troppo, un gruppetto che faceva capo a Fortini, il quale tra l’ammirazione degli astanti improvvisò un epigramma endecasillabico sul convegno stesso che non credo abbia mai pubblicato: «Di pensier in pensier, d’Avalle in Zolla».  (pag. 9)

La teoria della letteratura del resto cammina sulle gambe di uomini dotati di grande acume e di formidabili antipatie, ma trascinati da amori indecifrabili nella loro realtà. Mengaldo e Fortini non hanno mai taciuto delle loro predilezioni letterarie (che credo non definirebbero così), anche quando uno dei due non le condivideva, come accade a Mengaldo riguardo all’importanza assegnata da Fortini a Noventa e, reciprocamente, a Fortini riguardo l’interesse di Mengaldo per Montale. Accade così che di fronte alle pagine più tecniche di cui Mengaldo è magistralmente capace, e penso in particolare a Un aspetto della metrica di Fortini (pagg. 115-135), il lettore possa scorgere l’attenzione dell’amico nei riguardi di ciò che l’amico ha fatto. Un’operazione di intelligenza della cosa, del testo poetico nella sua forma perfetta, analizzato – attraverso gli strumenti di un mestiere raffinato – dalla mano di un ammirato interprete, che scopre dell’amico quello che egli non vuole dire altrimenti. L’affetto dà sangue e vita allo scavo critico dell’uno che è un modo per capire l’altro, a volte troppo irruento. È il modo di sentire placata nella forma la «voce» «bellissima» e «tempestosa» (pag. 10) di Fortini.

Quando leggo i suoi saggi critici mi vien da dire lo stesso di quando lo ascolto attaccare, provocare, polemizzare: «Finché parla, ha sempre ragione». Ma questo è molto meno una riserva che un riconoscimento affascinato, perché è forse la definizione stessa del grande critico: infatti Thomas Mann, da cui ho citato, lo diceva di Lukács.  (pag. 90) 

Fascino a cui molti, i più, si sottraggono come con dispiacere nota Mengaldo nel 1985

Silenzio o imbarazzo sono da tempo le reazioni normali di fronte alla voce, di saggista e poeta, di Fortini, una delle pochissime che continui a parlare in modo scomodamente radicale il linguaggio dell’opposizione e del marxismo: e proprio per questo è ritenuto dai più ora fastidiosamente ripetitivo, ora – e peggio – «superato». (pag. 71)

È il tempo del primo governo Craxi. L’11 giugno del 1984 muore Berlinguer, che sarà ritenuto responsabile all’interno del partito della sconfitta elettorale nelle amministrative del maggio 1985 per il suo «viscerale anticraxismo», e il PCI viene guidato da Natta che lascerà nel 1988 ad Occhetto. L’Italia di allora si identifica in Milano, che «è positiva, ottimista, efficiente. Milano è da vivere, sognare e godere»: è la «Milano da bere» degli anni d’oro del rampantismo e della corruzione. Fortini non poteva che essere «superato». Alla nostra distanza è chiaro che sia così. A onore e merito di Fortini che continua proprio per questo a far sentire anche oggi la sua voce. Ce lo ricorda Mengaldo

Non c’è verità, o inseguimento della verità, se non riusciamo a portare in noi, assieme a un vivo, un morto e non ne reggiamo il peso.

Già, il dubbio e la certezza… (pag. 114)

L’ordine e il disordine

Leggiamo in Lettera a Franco Fortini sulla sua poesia:

Mi limiterò a enunciarti, rapidamente e alla buona, qualche problema che ti riguarda servendomi in parte della scaletta e delle schede che avevo usato mesi fa in una presentazione milanese, te astante, e che volevano essere soprattutto a te rivolte. […] Io quella sera non tanto intesi circoscrivere una «individualità poetica» Fortini, quanto indicai l’esistenza nella poesia del dopoguerra di una ‘funzione Fortini’ (pagg. 53-4)

Il dialogo critico pubblico si snoda attraverso sentieri incrociati in praesentia e in absentia. La relazione privata si palesa e si approfondisce per diventare categoria utile a sistematizzare la letteratura nella storia. La «funzione Fortini» «consiste, in una parola, nell’integrale politicità della poesia»

Tu sei sempre poeta politico, anche quando parli di alberi e di fiori. Come Brecht. (pag. 56)

E, appena dopo la scomparsa di Fortini, quando la presenza è solo nella storia e l’unico presente possibile è quello del testo, Mengaldo torna a puntualizzare

Fatto sta che egli esercitò una funzione che oggi ci pare ovvia, ma che non lo era affatto allora, né lo fu lungo tutto un trentennio: ragionare in termini fermamente marxisti e di prospettiva comunista demolendo nello stesso tempo in modo instancabile e quasi feroce le forme, i modi di essere del socialismo reale. Questa divaricazione, oggi lo sappiamo bene di fronte a tanti tradimenti di chierici, può costare la perdita della bussola, lo scetticismo, il passaggio allo schieramento avverso, specie se ci sia lì qualcuno, come oggi, abile a gettarti l’offa. Questa perdita d’identità non ha mai toccato, neppure nelle forme più lievi, Fortini, coerente marxista antistalinista. (pag. 101)                                                       

Ma il discorso critico e ideologico prende le mosse da una dichiarazione netta in cui l’esperienza di uno tracima in quella di un’intera generazione segnata culturalmente dal Fortini utopico ed eretico.

Fortini è stato un mio grande amico – e uso questa espressione in tutti i sensi, compreso quello che si appiatta in una poesia così intitolata di Vittorio Sereni, carissimo a lui come a me. È stato anche, Fortini, l’uomo più intelligente che abbia conosciuto: di un’intelligenza abbagliante e perfino umiliante. La forte differenza d’età ha fatto sì che io non frapponessi ostacoli d’orgoglio fra quell’intelligenza e me, accogliendone gli implacabili consigli –  o piuttosto ordini – di coraggio e di onestà intellettuale. Quanto debba a quell’uomo, non posso dire, ma so che, con me, ha segnato in modo profondissimo tanti della mia generazione. (pag. 99)

Nel sentiero che ho deciso di seguire trattando di questo libro non mi allontano di molto dalla via maestra: è proprio Mengaldo, a proposito di Composita solvantur, ad indicarmi il senso, che provo ad esplicitare, della notizia biografica. Non si deve cadere nelle trappole dell’odioso io «come Fortini sempre ha inteso, la biografia personale allude cripticamente alla storia.» (pag. 96). La storia di questa amicizia è il percorso di due intellettuali nella seconda metà del Novecento con tutti i suoi sovvertimenti in un’Italia scossa dai brividi del riflusso, che è presto diventato marea nera e maleodorante. Nella Nota alla sua ultima raccolta, il titolo viene illustrato cripticamente da Fortini: «si dissolva quanto è composto, il disordine succeda all’ordine (ma anche, com’era nel vetusto precetto alchemico, si dia l’inverso)». La raccolta precedente, Paesaggio con serpente, dedicata A Pier Vincenzo Mengaldo, si apre giustappunto con L’ordine e il disordine, che è lo stesso testo che chiudeva Questo muro. La nuova raccolta si apre dove l’altra finiva: il punto di partenza è il punto d’arrivo e la conclusione avvia un nuovo discorso. La poesia, diceva Fortini, «torna indietro su se stessa».

Dunque Fortini applica ai propri messaggi, anche nell’architettura dell’opera, la stessa intenzione dialettica che suole applicare ai messaggi, alle ideologie, ai comportamenti altrui. Non solo, ma così architettando afferma il valore autonomo del momento costruttivo, cioè eminentemente intellettuale e artigianale, rispetto alla somma dei vari messaggi poetici. È in causa anche qui la nozione fortiniana della forma come ostacolo e distanza dai contenuti e dall’odioso io; la stessa che promuove […] l’aguzza  «classicità» dello stile poetico a lui peculiare (pag. 72)

Due amici non smettono mai di parlare, anche se stanno in silenzio. Un poeta non perde la voce, seppure morto, se noi lo ascoltiamo e ne reggiamo il peso,

ma è anche vero che la sua accanita formalizzazione e stilizzazione, e la vigilanza intellettuale che queste implicano, sono un salutarissimo contravveleno alla poesia di analfabeti che tiene sempre più il campo in Italia. Leggendo ‘Paesaggio con serpente’ si è sempre richiamati al sano pregiudizio che anche la poesia sia opera di pensiero. (pag. 73)               

Il pensiero è forma che compone il disordine in cui ci muoviamo, contando sulla comprensione di chi ha la pazienza di ascoltare quello che vogliamo dire.

Ma chi spera di leggere domani

E d’altra parte la forma, così concepita, è stata ed è per lui il luogo della mediazione intellettuale, imprescindibile, fra sentimento poetico dell’esistente e vocazione «metafisica» (pag. 73)

Ma anche la critica è luogo di «mediazione non fra autore e lettore, ma fra l’opera e quel che l’opera non è», scrive Fortini nei Saggi italiani , come ricorda Mengaldo in tre scritti (pagg. 79; 86-7; 103).

Forse il passaggio o ponte fra ideologia e poesia è costituito soprattutto, in Fortini, dall’attività di critico letterario. Fortini è stato uno dei maggiori critici di questo secolo in Italia, su questo non dovrebbe esserci discussione. Ma mi piacerebbe poter suggerire che tipo di critico è stato. Due aspetti mi sono sempre apparsi evidenti. Il primo è che Fortini, pur essendo un poeta, e di quella statura, non è un critico-poeta ma un critico-filosofo. […] Secondo: Fortini è un critico che, come disconosce l’autosufficienza del pensiero e della poesia, così quella della critica. (pag. 103)

«Il discorso critico fortiniano» che procede «per strappi» è «un discorso sul mondo».

Il fatto è, mi pare e in breve, che anche in questo Fortini stava con Adorno: l’arte non è tipicità e specchio […] è opposizione e utopia. Ed è un prodotto individuale, in cui insomma l’individuo non è un semplice tubo di passaggio. (pag. 104)

Convintamente eretico

Credo che Fortini sia stato il critico marxista italiano più attento ai problemi della lingua e della tecnica (e non solo, si faccia attenzione, a quelli delle ‘forme’, da sempre sotto il mirino dei grandi critici di uguale ideologia). (pag. 105)

Fortini poeta-critico-filosofo-pensatore politico è un intellettuale che crede nel valore della funzione di mediazione

Se la letteratura per esprimere l’interiorità e la realtà passa attraverso una tecnica, vuol dire che non è in sé mimetica, che la sua relazione col reale è sia ‘indiretta’ che ‘convenzionale’. E poi: tecnica e lingua non appartengono solo all’individuo, appartengono al rapporto fra questo, la tradizione e la società, in altre parole sono un fatto ‘sociale’. (pag. 105)

Mengaldo afferma che ogni aspetto dell’attività intellettuale dell’amico si riverbera per vie oblique ed oscure, indirette ma inderogabili, nella poesia, essendo Fortini «soprattutto poeta».

Ma, venendo al critico, va ricordato in primo luogo che questa funzione in Fortini si sdoppia, come è noto, in una critica in atto e in una riflessione sul ruolo della critica nella società moderna, in una meta-critica, per dirlo col linguaggio di oggi: che, a sua volta, implica un’estetica non sviluppata sistematicamente ma certo additata in alcuni suoi punti di forza. E si può aggiungere subito che uno degli elementi che danno alla critica fortiniana il suo peso specifico, e la sua dignità, è la costante compresenza, in essa, della riflessione sul proprio ruolo e significato; anche così egli ha sempre cercato di essere fedele al precetto di Barthes, da lui citato una volta: «ogni critica è critica dell’opera e critica di se stessa». (pag. 78)

Il bambino che gioca

Mengaldo in più occasioni sottolinea la peculiarità di Fortini che combina in modo assolutamente originale allegorismo e dialettica

È evidente la vicinanza all’allegorizzazione della storia di pensatori contemporanei sospesi tra marxismo e teologia, come Benjamin. E dal punto di vista formale proprio l’allegoria […] garantisce quella tensione – non identificazione alla moderna – fra segno e senso cui Fortini con Brecht tiene tanto.

Ma alla staticità verticale e assoluta dell’allegorismo è compresente sempre l’opposta dinamica orizzontale, storica e relativizzante della dialettica, che a sua volta riceve dalla prima il divieto di compromettersi troppo con il qui-e-ora. (pag. 149)

Lo «strappo dal presente»  dà senso, secondo Mengaldo, all’allegorismo fortiniano

In lui […] il presente è schiacciato fra un passato che lo preannuncia e come lo contiene già e un futuro che incertamente simboleggia; la natura stessa, che occupa sempre più la poesia del Fortini anziano, non è tanto un’antistoria quanto, a guardar bene, un antipresente. (pag. 109)

Per allontanarsi dal presente e dall’io, Fortini predilige la lingua morta, il classicismo, la maniera, l’architettura dell’intelligenza e del pensiero. Ma

Fortini sapeva bene – contro gli sciocchi che lo giudicano un puro ragionatore in versi – che in poesia pensiero poetico e gioco sono uno. (pag. 135)

Fortini assume in pieno e consapevolmente la sua funzione, prendendosi gioco, alla fine, sul punto di dissolversi, della gloria dei poetiI chiusi inchiostri rende evidente come dal 1974, Mengaldo, invece, tenda a stabilire un ordine nel secondo Novecento, a comporre  ciò che sembra dissonante. Egli pone nettamente la questione di una terza via poetica, una linea Fortini, Sereni, Raboni, Giudici (un certo Caproni), che si oppone alla lirica dominante e che fatica ad entrare nel canone. Contro il simbolismo e l’assoluto ermetico, contro la neoavanguardia e il surrealismo, Fortini oppone polemicamente, nota Mengaldo, l’allegoria, il pensiero, il gioco delle forme, dei suoni, delle disposizioni, dei versi. Fortini ortodossamente eretico, al sogno e all’illusione preferisce l’utopia.

E oggi, spente le attese di una rivoluzione, sembra che quell’utopia sia un sogno sognato da altri, un’illusione caduta. Eppure, mai come oggi, forse, abbiamo bisogno dell’utopia che ci consenta di guardare ad un futuro che dia ragione di quello che appare un insulso presente.

Il bambino smise di giocare

e parlò al vecchio come un amico.

Il vecchio lo udiva raccontare

come una favola la sua vita.

Gli si facevano sicure e chiare

cose che mai aveva capite.

Prima lo prese paura poi calma.

Il bambino seguitava a parlare.

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