La “riforma” dell’Istruzione professionale di Stato
La redazione di LN si prende due settimane di pausa per le feste natalizie. Torneremo a pubblicare pezzi inediti il 13 gennaio 2020. Nel frattempo ripubblicheremo alcuni articoli dell’anno passato per i nostri lettori.
Premessa
Dividerò questo intervento in quattro parti: nella prima dirò in che cosa consista il D.Lgs 61/2017, Revisione dei percorsi dell’istruzione professionale nel rispetto dell’articolo 117 della Costituzione, nonchè raccordo con i percorsi dell’istruzione e formazione professionale, a norma dell’articolo 1, commi 180 e 181, lettera d), della legge 13 luglio 2015, n. 107; nella seconda cercherò di commentarne i tratti salienti e collocarlo nel quadro che solo può spiegarne la genesi, quello delle riforme europee dei sistemi educativi; nella terza, spogliandomi dei panni del docente e vestendo quelli del militante, individuerò i possibili “margini attuali per una scuola di opposizione” (per riprendere l’espressione di Emanuele Zinato), ovvero le forme possibili di una risposta collettiva che a mio avviso può esistere solo se si pone il problema dell’organizzazione, sindacale e politica, e non certo restando al livello della pur doverosa battaglia culturale, dato lo squilibrio di forze oggi annichilente; nella quarta, brevissima, formulerò una proposta.
Dichiaro subito un debito teorico, spero l’unico riferimento bibliografico che sarò costretto a fornire: l’e-book di Alberto Pian, docente e studioso torinese, Scuole “sparse” sul territorio? Che cosa nasconde la “riforma” dell’Istruzione professionale di Stato? La verità sul decreto delegato della 107[i], è, a mia conoscenza, l’unica trattazione organica di questo sottovalutato e poco discusso corollario della 107 ed un testo assolutamente imprescindibile per chi voglia approfondire seriamente quanto qui, per ragioni di spazio e di limiti di chi scrive, vale solo come primo momento informativo e orientativo sul tema.
I contenuti del Decreto
Il D.lgs 61/2017, in coerenza con le indicazioni della 107/2015, disciplina la revisione dei percorsi dell’istruzione professionale (Statale) in raccordo con quelli dell’IeFP (istruzione e formazione professionale, privata), attraverso una ridefinizione degli indirizzi, individuandone 11 che vanno ad integrare e sostituire i precedenti 6 (per corrispondere alla nuova domanda di competenze a livello settoriale).
L’anno scolastico appena iniziato, 2018-19, è il primo anno di attuazione di questa riforma che entrerà a pieno regime nel 2022-23. Gli istituti professionali vengono indicati come “scuole territoriali dell’innovazione”, in cui vigono percorsi individualizzanti improntati al principio della personalizzazione educativa, per rafforzare le competenze di cittadinanza ed aumentare l’occupabilità personale. Non mi soffermo sul linguaggio, non semino il testo di virgolette: il lettore di questo blog ha orecchie per intendere cosa si nasconda dietro al lessico tecnico e apparentemente scientifico, ma in realtà mistificante, di leggi, documenti e circolari ministeriali da un po’ di tempo a questa parte. Le discipline vengono aggregate in assi culturali, e la finalità complessiva dichiarata è quella di avere un profilo in uscita adeguato ad un saper fare di qualità, denominato Made in Italy.
I quadri orari vengono modificati, con una redistribuizione dei tempi scolastici che ha come tendenza, senza entrare in calcoli che pure in altra sede andranno fatti, quella di aumentare il numero di ore dedicate alle materie professionalizzanti, diminuendo, con il giochino delle tre carte degli assi culturali, le materie di orientamento generale. Facciamo un esempio per tutti, usando le parole di Alberto Pian: «Nel 2010 l’Area Comune del biennio aveva un totale di 1320 ore articolate per discipline. Nel 2017 abbiamo degli “Assi culturali” che raggruppano insegnamenti ridotti a 1188 ore, cioè 132 ore in meno. Queste 132 ore corrispondono a un insegnamento “tradizionale” di 2 ore alla settimana. In effetti viene soppresso l’insegnamento di Scienze della terra e Biologia.»
Tutto questo si aggiunge alla possibilità di iniziare i percorsi di Alternanza Scuola Lavoro già dal secondo anno di scuola superiore (15 anni) e di svolgere il proprio percorso formativo a stretto contatto con le aziende e i luoghi di lavoro, con una sostanziale sostituzione del ruolo della scuola nell’istruzione e nella formazione da parte delle aziende che rispondono alle cosiddette leggi del mercato e che spesso operano scelte a breve termine, che di certo non hanno come obiettivo la formazione complessiva del giovane in quanto essere umano e cittadino.
È ovvio che tutto questo ha una ricaduta pratica che porterà, nell’arco dei 5 anni, ad una riduzione delle cattedre per gli insegnanti di determinate materie e a un non indifferente aumento delle cattedre degli ITP (insegnanti tecnici professionali). Non ho nulla contro la formazione specialistica, ma essa deve e e può essere affiancata ad una solida formazione culturale e non invece sviluppare l’una a scapito dell’altra, lasciando comunque un margine di autonomia decisionale e organizzativa alle singole scuole, trascinate sul finire dell’anno scorso in Collegi Docenti chiamati a decidere a quale materia (o a quale collega) tagliare la testa.
Non sarà inteso come un problema da umanista attardato, a questo punto, ciò che è avvenuto in alcune scuole, dalle quali scompare l’insegnamento della storia nel primo anno del biennio, con le conseguenze immaginabili sulla composizione delle cattedre, la programmazione e l’adozione dei libri di testo, oltre che con un evidente impoverimento del percorso di studio, in barba a tutte le chiacchiere – perchè di chiacchiere si tratta – sulla individualizzazione del percorso, che si rivela essere nient’altro che la traduzione soggettiva del processo oggettivo di frammentazione di un percorso generale e collettivo (della classe). Nulla a che vedere con la migliore tradizione pedagogica che richiama alla necessità di tenere in considerazione caratteristiche intellettuali, storie di vita e interessi degli studenti.
Perchè si cambia? Le politiche europee sull’istruzione
Chi sostiene il riordino non la fa poi troppo lunga: l’istruzione professionale ha una crisi di vocazioni (ma pochi considerano in questo calcolo il calo complessivo della popolazione scolastica attuale e quello che si verificherà nei prossimi anni a causa del calo demografico), che richiede un riavvicinamento tra la “filiera formativa” e la “filiera produttiva”, secondo un sistema duale di ispirazione tedesca, ma ben lontano dalle condizioni in cui si realizza in Germania, per le ragioni che proverò a dire tra breve.
Nell’arco di 15 anni, dalla “riforma” Moratti del 2003, passando per il DPR 87/2010, per arrivare al D.Lgs 61, si consuma lo smantellamento dell’Istruzione professionale che, dopo essere stata inserita nello stesso sistema della formazione regionale, viene trascinata insieme ad essa a rispondere alle esigenze delle imprese e alla vocazione del territorio. Che cosa era stata prima? Lo dice molto bene Alberto Pian: «L’Istruzione professionale statale è nata per offrire alla classe operaia una formazione e una specializzazione in tutti i settori dell’economia, che fosse legata ad una solida cultura generale, come fattore di emancipazione sociale e di miglioramento personale». Per questo le qualifiche e i diplomi professionali sono riconosciuti nei contratti collettivi di lavoro nazionali. Se si toglie valore all’istruzione professionale, si toglie valore ai CCLN, si abbassa la forza contrattuale della classe lavoratrice. Dequalificando i percorsi di formazione, depotenziando i laboratori, smembrando i curricoli e le discipline non si fa altro che realizzare sul piano scolastico l’obiettivo politico di uno Stato che rinuncia ad avere una politica economica definita, un sistema industriale adeguato, degli apparati produttivi capaci. Ecco perchè il sistema duale italiano non è quello tedesco, nonostante si cerchi di ammantare questa operazione di una dignità pedagogica che resta solo carta morta.
Saltato il patto sociale alla base della Costituzione, saltano gli strumenti che hanno provato, con tutti i limiti che nessuno vuole dimenticare rimpiangendo i bei tempi passati, a rimuovere gli ostacoli materiali che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e le differenze socio-economiche che caratterizzano le cosiddette società a capitalismo maturo. È un passaggio politico non da poco quello che stiamo cercando di descrivere e che non a caso attua in maniera scientifica quanto da un trentennio a questa parte l’Unione Europea sta prescrivendo ai paesi membri in tema di istruzione, peraltro con una intensificazione via via più evidente. Su questo forse varrà la pena di tornare in un’altra occasione. È questo il livello al quale si gioca la partita decisiva: il polo imperialistico europeo combatte il suo duello all’ultimo sangue nella competizione internazionale; per farlo deve costruire un sistema della formazione che sia in grado di mettere in relazione e sul mercato le classi lavoratrici dei diversi paesi, a seconda del ruolo che ognuno di essi gioca nel quadro continentale. All’Italia tocca una parte da semiperiferia produttiva, che acuisce la spaccatura interna (il riferimento è chiaramente la questione meridionale!) e produce un peggioramento drastico nelle condizioni di vita delle giovani generazioni. La selezione di classe è un dato di fatto e fa sì non solo che gli studenti dell’istruzione professionale, più di 400.000 ragazzi, appartengano in percentuale sempre maggiore alle classi subalterne, ma che queste abbiano sempre meno gli strumenti per emanciparsi. Questa riforma indebolisce ancora questi strumenti, depauperando per l’ennesima volta i curricula, appaltando ancora una volta alle aziende e alle loro immediate esigenze la formazione di questi giovani. I giovani delle classi subalterne dovranno apprendere a scuola che la precarietà è la regola, la mobilità una necessità, mansioni lavorative chiare un ricordo del tempo dei padri, un salario decente un privilegio di quello dei nonni.
Che fare?
Alla fatidica domanda non si sfugge. Certo esiste un piano di intervento, come quello proposto dal blog che mi ospita, che ci dice che l’appiattimento culturale non ha spazzato via del tutto la capacità di lavoro serio e documentato. Che chi vuole provare a capire, lo può fare, senza cercare alibi. Aggiungo di più, per rimanere in ambito scolastico: un docente che non studia la sua disciplina (per lo meno) e non ragiona sul contesto in cui vive e lavora non è degno di insegnare, questo va affermato con chiarezza.
Ci sono però alcune discriminanti che bisogna iniziare a esplicitare, altrimenti il mondo va in fiamme, Salvini è cattivo, Saviano è buono, i ragazzi non studiano, i lavoratori non lottano, etc. etc. e la “cultura di sinistra” è sempre lì a chiedersi perchè non c’è una risposta, perchè gli insegnanti dei professionali non si ribellano, perchè dobbiamo perdere ore a parlare di pseudoconcetti e non possiamo leggerci il nostro amato Petrarca e così via. Sono discriminanti politiche, hanno a che fare con le gambe che vogliamo dare alle nostre idee, con le forme di organizzazione che vogliamo dare ai soggetti dello sfruttamento, alle prospettive intorno alle quali costruire tutto ciò.
Queste discriminanti, che mi limito ad enunciare, sono tre:
- Esiste una discriminante di collocazione sindacale: non si può più sostenere una separazione tra la condizione materiale del lavoratore della scuola (contratto, salario, mansioni) e la sua funzione. Chi non difende la prima, non ha a cuore la seconda. Non si può firmare un contratto pessimo, o non dire mezza parola sul riordino dei professionali e poi organizzare un bel corso di formazione su Gramsci e la scuola o Pasolini e la poesia, per ripulirsi la coscienza, perchè è in questa schizofrenia che dilaga il sindacato autonomo, corporativo e i ricorsifici. Scuola di opposizione, per tornare alla definizione iniziale, significa superare questa scissione.
- Esiste una discriminante politica: chiunque studi le politiche scolastiche ed universitarie nel nostro paese da Berlinguer in poi, sa bene che il marcio, a livello di elaborazione complessiva, viene dalla sinistra. Con questo mondo bisogna chiudere, in primo luogo con il suo ceto politico e con buona parte del “popolo della sinistra” che ha perso ogni contatto con il soggetto sociale che avrebbe dovuto rappresentare. Tra di loro le famiglie disagiate, gli alunni stranieri, i figli di licenziati che affollano oggi le classi dell’istituto professionale di Torino dove insegno e dove con fatica si prova a resistere e contrattaccare.
- Esiste una discriminante strategica: l’Unione Europea è un nemico politico, i suoi trattati fanno a pezzi il dettato costituzionale, le sue politiche educative sono la base della “Buona Scuola” e del riordino dei professionali. Chi non ne trae le dovute conseguenze è destinato a lasciare spazio all’antieuropeismo di facciata della destra.
Una modesta proposta
Riprendo un passaggio fortiniano che risale a sessant’anni fa e più. Occorre pensare a due piani paralleli ma convergenti, culturale e politico: «col rinvio degli intellettuali-politici ad un lavoro specialistico, autonomo, pianificato, e dei politici-intellettuali ad una verifica della circolazione culturale per entro la classe oggi e per entro la nazione domani»[ii].
Occorre che i due percorsi paralleli ma convergenti vadano a verifica. Occorre iniziare ad incontrarsi, a conoscersi, a parlarsi. Esiste oggi un tessuto di riviste che produce analisi di alta qualità ma che non è stato capace di uscire da una circolazione che tutto sommato resta nell’acquario della sinistra. Esistono delle soggettività politiche e sindacali che intercettano oggi una parte viva e disposta a lottare del blocco sociale, che all’interno di questo si sforzano di costruire anche strumenti teorici adeguati. Verificare le possibili convergenze, per alzare il livello della battaglia politica e culturale della scuola di opposizione, è un compito non più rinviabile.
[i]
[i] https://books.google.it/books?id=ZbZaDwAAQBAJ&pg=PA2&lpg=PA2&dq=scuole+sparse+sul+territorio+pian&source=bl&ots=A-51PIIRpg&sig=mgtwEJZo6NXNxBOs294m_8g5e2Q&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwjo9_egzq3dAhWGDewKHfqCBYkQ6AEwAXoECAcQAQ#v=onepage&q=scuole%20sparse%20sul%20territorio%20pian&f=false
[ii] F. Fortini, I politici-intellettuali, «Il Contemporaneo», n.14, 1956, poi in Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956, a cura di G. Vacca, Rinascita-Editori Riuniti, Roma 1978, p. 41.
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