Un intellettuale corretto dalla scienza? Il personaggio-medico in Carlo Levi e Axel Munthe
Quali sono gli elementi che accomunano La storia di San Michele, 1929 e Cristo si è fermato a Eboli, 1945, due romanzi in apparenza così distanti: bestseller di un viaggiatore svedese, snobbato dalla critica italiana e non, il primo, pilastro della nostra narrativa post-bellica neo-realista, studiatissimo da allora ad oggi, il secondo?
Le convergenze partono proprio dalla figura del medico, uno e trino protremmo dire, che unisce infatti autore, narratore in prima persona e protagonista, creando con il lettore un patto di realtà immediatamente molto forte. Con Philippe Lejeune saremmo spinti a pensare che si tratti di scritti autobiografici, ma c’è nelle maglie del testo un ingrediente che li rende inequivocabilmente, con sfumature diverse, romanzi: la finzione.
Secondo elemento che accomuna questi due romanzi è il contesto sociale in cui, da lontano – e per motivi diversi – arrivano, una comunità contadina coesa di un piccolo centro del sud Italia.
Terzo elemento è il modo in cui entrano in contatto con questa comunità: uno sguardo reciprocamente benevolo. Anche se siamo portati a pensare che quello del protagonista sia il tipico sguardo dell’intellettuale sulla società, vedremo tra un attimo che non è esattamente così. È sì un occhio ‘colonialista’ (Said) perché esterno e dall’alto, ma che manifesta al contempo grande ammirazione e quasi invidia. Il protagonista medico è infatti fortemente attratto dalla semplicità dei rapporti che unisce la comunità contadina campana (Anacapri) e lucana (Grassano e Aliano) con cui si trova ad avere a che fare, causa il confino e una scelta di vita. Se poi cambiamo prospettiva, come fanno entrambi i narratori, ci accorgiamo che anche la comunità contadina è molto ben disposta nei confronti di questo ‘forestiero’, personaggio che arriva all’improvviso da fuori, e il motivo principale è che si tratta di un medico. Le comunità contadine mostrano subito una fortissima ammirazione per Carlo Levi e Axel Munthe in quanto medici con funzione salvifica e quasi taumaturgica.
Ulteriore tratto (il quinto sin qui) che accomuna i due romanzi, strettamente collegato al precendete, è l’esplicita ritrosia dei protagonasti nell’esercitare la professione di medico in quel contesto, nuovo per loro. L’identità del medico è un ingombro, è avvertita come un impedimento all’integrazione alla pari con il paradiso primigenio (la comunità contadina dai tratti ancestrali) di cui percepiscono immediatamente la forte coesione.
Tu sei il dottore che è arrivato ora? – mi chiesero- Vieni, che c’è uno che sta male”. Avevano saputo subito in Municipio del mio arrivo, e avvevano sentito che io ero un dottore. Dissi che ero dottore, ma da molti anni non esercitavo; che certamente esisteva un medico nel paese, che chiamassero quello e che percio non sarei venuto. Mi risposero che in paese non c’erano medici, che il loro compagno stava morendo. –Possibile che non ci sia un medico? – Non ce ne sono -. Ero molto imbarazzato: non sapevo davvero se sarei stato in grado, dopo tanti anni che non mi ero occupato di medicina, di essere di qualche utilità. Ma come resistere alle loro preghiere? Uno di essi, un vecchio dai capelli bianchi, mi si avvicino’ e mi prese la mano per baciarla. Credo di essermi tratto indietro, e di essere arrossito di vergogna, questa prima volta come tutte le altre poi, nel corso dell’anno, in cui qualche altro contadino ripeté lo stesso gesto. Era implorazione, o un resto di omaggio feudale. Mi alzai e li seguii dal malato.
Questi sin qui sommariamente delineati, i tratti comuni. Mi sono dunque domandata: perché è significativo che siano proprio dei medici, gli autori e personaggi-protagonisti nonché voce narrante in prima persona a narrare queste storie di comunità contadine meridionali di cui denunciano l’arretratezza delle condizioni materiali ma verso le quali dimostrano un amore e un apprezzamento per le qualità ‘sociali’ di comunità unita da abitudini e affetti che si stavano perdendo e si sono perse con la modernità?
Forse perché sono degli intellettuali corretti, ovvero privi dell’inettitudine che generalmente contraddistingue gli umanisti, sono al contrario proni all’azione, scaltri e hanno un occhio lucido nei confronti dei pazienti e del mondo. E sono – a differenza del tipico personaggio alter-ego dell’autore intellettuale umanista, introverso e ripiegato su se stesso – estroversi, con lo sguardo rivolto agli altri. Questo genera una forte ammirazione da parte della società e dunque accoglienza, inclusione e non esclusione.
Il medico non è succube e non è ai marigini della società perché non è misantropo (come i personaggi tozziani, ad esempio i fratelli Gambi in Tre Croci, e anche i personaggi pirandelliani, si pensi a Tullio Buti in Il lume dell’altra casa). Non è un introverso autoriflessivo fino allo sfinimento, non è vittima di se stesso, non è, in una parola, inetto, come per antonomasia i personaggi sveviani (si pensi a Una burla riuscita) e come un po’ tutti i protagonisti primonovecenteschi, si pensi anche al borgesiano nevrotico antieroe Filippo Rubé, che è appunto ‘corretto’ dal deuteragonista amico medico Federico.
Inoltre il personaggio medico non è ipocondriaco (come a modo loro, tutto psicologico, i personaggi sveviani), al contrario assiste i pazienti, osservando da fuori e da antagonista, la malattia. Il colera a Napoli e la malaria in Lucania, che colpiscono gli strati inferiori della società, sono per il personaggio medico di questi due romanzi quasi un antidoto. Il personaggio-medico non è mai contagiato dalle malattie dei pazienti che assiste (ma Axel Munthe è affetto da insonnia e poi da cecità – come i bibliotecari alter-ego degli autori intellettuali) tantomeno dalle malattie nervose dilaganti nell’alta borghesia che cerca di capire e combattere anche con l’ipnosi o con la diagnosi della colite che ha un miracoloso un effetto placebo.
I personaggi medici, proni all’azione ed estroversi, filantropi, scaltri, sani e apprezzati al punto da doversi schernire dalla scoietà che li ammira oltremodo, sembrano quasi opposti ai personaggi intellettuali, inetti, misantropi, introversi, ipocondraci e destinati all’insuccesso.
A differenza dei personaggi intellettuali (puri) frutto della penna di autori letterati – a. Svevo, inetti Una burla riuscita o bisognosi di cure, La coscienza di Zeno; b. Pirandello, “fuori dalla vita”, I vecchi e i giovani e emarginati, Il lume dall’altra casa; c. Tozzi, misantropi, Tre Croci – i personaggi medici, frutto della penna di autori intellettuali (ibridi) medici, sono vincenti, sani, centrati e hanno un ruolo di spicco nella società.
Che cosa dunque differenzia il personaggio medico dal tipico personaggio (intellettuale) novecentesco? È un intellettuale corretto (dalla scienza); non è inetto, ha successo nella vita; non è ripiegato su se stesso, è estroverso; non è misantropo, è filantropo; non è emarginato dalla società, riveste un posto di rilievo; non è ipocondriaco, le malattie sono antidoto.
Nel call for paper su Il personaggio medico nella narrativa moderna e contemporanea (panel proposto al XXIII Congresso dell’Associazione degli italianisti, dedicato a Letteratura e Scienze, svoltosi a Pisa nel settembre 2019) dicevo, un po’ azzardatamente, che il personaggio del medico (protagonista, deuteragonista o antagonista) costituisce un alter ego dell’autore nella narrativa moderna e contemporanea in Italia. Mi chiedevo se fosse possibile identificarne i tratti ricorrenti e facevo alcune ipotesi: ha uno sguardo “scientifico” e dunque diverso e distanziato da quello dell’intellettuale? Mi chiedevo inoltre se ha un ruolo di primo piano nella comunità in cui si trova ad operare, se ha una funzione salvifica nei confronti del “sistema dei personaggi”. Quale impatto ha la presenza del medico sulle dimensioni narrative dello spazio e del tempo? Il medico, rappresentato in ambienti domestici, o in luoghi impersonali ma storicamente connotati – quali cliniche, sanatori, ospedali – con la sua comparsa crea una sosta temporale nella narrazione che consente la descrizione degli spazi e la veicolazione dell’ideologia da parte della voce narrante? Provo ora a rispondere a queste domande.
Ha uno sguardo ‘scientifico’ e dunque diverso e distanziato da quello dell’intellettuale-uomo di lettere? Sì, ha uno sguardo diverso perché seppur rivolto all’uomo, è rivolto all’altro da sé, cerca rimedi e non è vittima di malattie né della propria inettitudine.
Ha un ruolo di primo piano nella comunità in cui si trova ad operare? Sì, le comunità contadine di questi due romanzi apprezzano la funzione del medico e perciò danno risalto a chi, recalcitrante, ne è portatore.
Ha una funzione salvifica nei confronti del “sistema dei personaggi”? Sì, perché come spiega Axel Munthe, la principale dote di un medico di successo è ispirare fiducia (“Non ero un buon medico, i miei studi erano stati troppo rapidi, il mio tirocinio d’ospedale troppo breve, ma non c’era il minimo dubbio che fossi un medico riuscito. Qual è il segreto del successo? Ispirare fiducia”), oggi parleremmo di empatia, di cui chiaramente i due medici in questione sono dotati, seppure la lotta contro la morte (che per Munthe è un’ossessione) faccia sentire entrambi i protagonisti impotenti.
Infine (tornando al temario) il medico, rappresentato in ambienti domestici, o in luoghi impersonali ma storicamente connotati – quali cliniche, sanatori, ospedali – con la sua comparsa crea una sosta temporale nella narrazione che consente la descrizione degli spazi e la veicolazione dell’ideologia da parte della voce narrante? Sì e no. No: perché la sua presenza genera azione, le sue azioni hanno un effetto. Sì: perché entrambi sono anche scrittori, Levi è anche un pittore, un artista e intellettuale, e Munthe un cittadino del mondo, colto e riflessivo. Questo consente anche una riflessione più o meno esplicita sul ruolo del medico nella società. Distanziandolo da sé, nella figura del medico di famiglia, i personaggi medici si dimostrano solidali, ne apprezzano il lavoro, ma non possiamo fare a meno di notare una punta di paternalismo, ovvero un sentimento di superiorità, chiaramente di natura ‘intellettuale’. In Svevo poi, modernista antipositivista, la figura del medico di famiglia non esce bene: nella Coscienza di Zeno il medico fraintende il senso di colpa di Zeno nei confronti della moglie appena tradita con un sincero affetto. Ma Svevo non è un medico, e dunque la rivalità, messa in scena anche con il dottor S., si spiega da sé.
Parallelismi? Levi: la provenienza alto borghese torinese e l’«attivismo» in politica (Con Gobetti e GL) comporta una visione dall’alto. Le credenze popolari impediscono alla scienza di sconfiggere la malaria. Munthe: riflessione continua su malattia e morte, malata è la società borghese che osserva a Parigi (colite e isteria femminili); la comunità anacaprese è la faccia sana del mondo.
Al di là delle tangibili divergenze di natura extratestuale, tra cui ricordiamo, in ordine sparso – 1. luoghi di composizione (la Torre della guardia di Anacapri, semicieco vs Firenze, nascosto); 2. Anno di pubblicazione (1929 vs 1945); 3. Provenienza Nord (Svezia vs Torino); 4. stile, corrente, spessore, pubblico, motivo di interesse – i due romanzi e i due autori sono profondamente diversi. La Storia di San Michele ha una struttura a cornice in cui il corpo del testo è costituito da quelle che potremmo definire Le memorie di un medico, il titolo che l’autore aveva scelto di non dare alla sua opera, ambientato prevalentemente in Francia, nell’alta società, ma anche a Napoli, durante il colera, mentre la cornice è appunto ambientata ad Anacapri nella scoietà contadina, avvolta in una sorta di realismo magico. Levi osserva con occhio lucido la terra di confino a cui è stato destinato e che percepisce da subito (seppure le condizioni materiali siano ben al di sotto di quelle dello stile di vita alto borghese torinese a cui è abituato) come ambiente amico e non ostile, un habitat primigenio, che, nella sua rudezza e nella sua innocenza, accoglie il medico scrittore come in un ventre materno.
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