Parlare di libri, parlare coi libri: il cervello che legge
Questo articolo riprende l’intervento “Leggere, comprendere, condividere: la classe come officina di letture” tenuto da Linda Cavadini presso il Convitto Cutelli a Catania il 22 novembre, nell’ambit odi Lettere di classe, incontri di formazione a cura di ADI-SD Catania.
A questi link è possibile scaricare la bibliografia dell’incontro e i testi che sono stati affrontati
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La lettura è come la pesca con la lenza. Potete rimanere ore senza prendere niente e improvvisamente prendete qualcosa. Non è nemmeno questione di pazienza, perché essere pazienti significa essere passivi, ma piuttosto essere vigili e di prendersi il proprio tempo
Hemanuel Hocquard
Milano, uno di quei giorni d’autunno in cui fa ancora caldo, sono di ritorno da un convegno in cui si è parlato di scuola, di ragazzi e di società. Salgo sul treno e apro il sistema periodico di Levi. Mi incollo a Idrogeno, storia dell’amicizia tra Enrico e Levi e della loro avventura nel laboratorio di chimica, luogo in cui imbastire la spasmodica ricerca de la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo, ossessione del giovane Levi che lamenta: a scuola mi somministravano tonnellate di nozioni che digerivo con diligenza, ma che non mi scaldavano le vene.
Ecco, tutto quello che avevo ascoltato in quella giornata stava lì, condensato in un racconto di Levi e al contempo marcava la differenza tra gli studenti del passato e i miei, che oggi non digeriscono più con diligenza le nozioni, ma anzi che scorrono e guardano molto, ma che sempre meno leggono libri. Con idrogeno come bussola e con molti altri libri in testa mi sono trovata, quindi, a ragionare sul cervello che legge, su come è cambiato il nostro modo di leggere e sul compito dei docenti e della scuola: per affrontare questo argomento non si può prescindere dai moderni studi delle neuroscienze (S. Dehaene I neuroni della lettura, Milano 2009, M. Wolf Lettore vieni a casa, Milano 2018, M. Wolf Proust e il calamaro, Milano 2009 J. Siegel la mente adolescente Milano 2013) ma, come spesso mi accade, ho trovato nella letteratura ulteriori stimoli di riflessione.
Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto.
E’ il 1979, Calvino inizia così “se una notte d’inverno un viaggiatore”, un romanzo sul piacere di leggere in cui il protagonista è il lettore. Stai per cominciare a leggere: notate come dilata l’incipit, mi sembra di vedere tutta la lentezza e la preparazione dell’azione di leggere, come una cerimonia. Tre sono le richieste: rilassati, raccogliti, allontana da te ogni altro pensiero, due verbi e una frase. Leggere è lasciare che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto, è opporsi alle interruzioni, siano esse la televisione, gli altri, la rete; è rallentare, immergerci, sollevarci fuori dal mondo, è una sorta di ponte che unisce la nostra memoria all’esperienza di altri. Ma vi svelerò una cosa, così ovvia che quando l’ho scoperta sono balzata sulla sedia: l’uomo è fatto di storie, ha bisogno di raccontare storie, ma non è nato per leggere. Siamo progettati per la parola che risuona e per l’immagine e le abbiamo trasformate in scrittura, per renderle eterne.
Noi non siamo nati per leggere
Gli ominidi sono sulla terra circa da due milioni e mezzo, l’homo sapiens, e cioè noi, da 200000 anni; per scoprire la scrittura (e la lettura) ci abbiamo impiegato un bel po’. Leggiamo e scriviamo da circa 6000 anni, 5400 a dar retta ad altri; l’alfabeto fonetico ha 3800 anni e se con la macchina del tempo tornassi indietro al 1919 circa il 35 persone su 100 firmerebbero con la croce. Seimila anni sono decisamente un periodo troppo breve perché si sia sviluppato un programma genetico ad hoc, dei circuiti cerebrali interni preposti alla lettura. Diverso il caso del linguaggio o della decodifica delle immagini: se porto un neonato in Cina e lo immergo in quell’ambiente, naturalmente imparerà a parlare cinese, invece non sono bastate vite intere a contatto con le iscrizioni latine nelle chiese per far sì che tutti i fedeli leggessero il latino. La straordinarietà della scrittura, il suo essere qualcosa di esterno all’uomo, ce lo spiega anche il mito: nei miti della creazione l’uomo nasce e parla, mentre la scrittura e la lettura sono consegnate brevi manu dalla divinità. Ea, dio babilonese, dona all’uomo tutte le conoscenze magiche, comprese la scrittura, il dio assiro Nabu insegna le arti, la tecnica, l’architettura e la scrittura, Ganesh rompe una zanna per farne un pennino e il Dio ebraico scrive le tavole della legge. Siamo dunque senza speranza? No, perché noi siamo nati per modificare ciò che abbiamo ricevuto per natura, per andare oltre: siamo geneticamente disposti allo sviluppo. Il cervello è un essere plastico, nasce predisposto a un gran numero di cose innaturali: potremmo dire che il nostro superpotere è la NEUROPLASTICITA’. Imparare a leggere non è un processo né naturale né lineare, è un gesto tortuoso arricchito da svolte impreviste e da inferenze e associazioni del lettore. I nostri geni legati al linguaggio e alla vista si combinano in modo tale da permetterci di decodificare ma non producono immediatamente abilità di lettura, è necessario un ambiente adatto, è necessario che leggere venga insegnato. La radice di tutti i disturbi di apprendimento è qui, a maggior ragione oggi che ci troviamo in una vera e proprio rivoluzione culturale e tecnologica, nemmeno paragonabile a quella dell’invenzione del libro a stampa, giacché il cambiamento riguarda un numero ben più grande dei lettori e scrittori del Cinquecento.
Una breve storia del lettore
Sapete quando ciascuno di noi ha iniziato a leggere? Quando un adulto ci ha preso in braccio e ha letto per noi. Qualsiasi lettura, infatti, non cade mai nel vuoto: permette di etichettare parole, di sentirci amati, di coltivare la nostra naturale genialità linguistica, di prevedere e dedurre, di sperimentare emozioni di altri. Quando noi leggiamo una parola, il cervello inizia una caccia al tesoro, non la collega a un solo significato: deve riconoscere, recuperare informazioni pregresse e collegare secondo lo sviluppo personale, biologico e intellettuale. Ecco perché un libro ci dice sempre cose diverse, non è un circuito chiuso.
Il nostro lettore emergente nei primi cinque anni di vita, grazie alla lettura di un adulto, ha imparato suoni, parole, concetti e immagini: è stato a contatto con la lingua scritta, ha imparato che le lettere sono collegate a suoni. Piano piano il nostro lettore acquista una lettura più scorrevole e sicura, è a questo punto che può verificarsi il cortocircuito: decodificare un testo non significa automaticamente capirlo. Per capire è necessario che la lettura sia fluida in modo da concedere più tempo per le ipotesi e le intuizioni, tempo per pensare. Ma perché la lettura diventi fluida è necessario lavorare sul lessico, sulle parole: tante meno parole si conosceranno, tanto più la lettura sarà faticosa. Ecco, noi docenti della scuola secondaria arriviamo qui: dovremmo trovarci di fronte lettori fluidi, anche se ciò non sempre avviene, lettori che sono pronti a diventare esperti, ed è in questa fase che i consigli espliciti del docente sono ancor più necessari perché gli studenti si pongano domande decisive su ciò che stanno leggendo. E’ la relazione con altre persone e con altri libri che fa maturare la lettura, essa stessa relazione cumulativa, complessa e stratificata.
Nel cranio abbiamo un t9 decisamente più potente di quello dello smartphone: se quello che sappiamo prima di leggere ci prepara a riconoscere anche le sagome delle parole, le nostre previsioni da varie fonti, la nostra esperienza, il nostro modo di essere ci aiutano a costruire il significato di un testo. Prendiamo questa microfiction di Hemingwey. “ For Sale. Baby shoes. Never worn.” Pare che un giorno lo scrittore sia stato sfidato a scrivere il racconto più breve possibile: il risultato è notevole, ma lo è solo grazie al nostro lavoro di ricostruzione del testo. Quando leggiamo attentamente un brano di narrativa si attivano regioni del cervello che sono allineate con ciò che i personaggi fanno: quando leggiamo del vestito di velluto si attivano i neuroni del tatto, quando leggiamo l’amore devastante di Anna Karenina il nostro cervello simula la conoscenza di un’altra persona, la conoscenza delle sue emozioni. Possiamo dire che noi viviamo nel libro, ma che anche il libro vive in noi, perché sono le nostre teorie sul mondo che determinano ciò che vedremo, il modo in cui leggeremo: le nostre conoscenze interiori di base sono essenziali per la lettura profonde. Si tratta di processi che richiedono impegno: il pensiero critico è la somma totale dei processi di lettura, ma non va d’accordo con la velocità e l’immediatezza, esso ha bisogno di esaminare, soppesare e potenzialmente confutare. Aiutare i ragazzi a compiere la lettura profonda significa aiutarli a sviluppare il ragionamento analogico e le inferenze: più sappiamo più potremo tracciare analogie, più riusciremo ad usarle per inferire, dedurre, analizzare; scegliere il meno significa poter leggere meno in profondità.
Cosa significa leggere oggi?
La Szymborska nella poesia Del non leggere parte da Proust e dall’assurdo di leggere “La Recherche” oggi: con un libro non puoi saltare le pagine, girare, cercare un punto più accattivante senza perdere qualcosa. La poetessa polacca scrive Viviamo tutti più a lungo ma con frasi più brevi e con minor esattezza, andiamo in quinta e stiamo bene, toccando ferro: a che ci serve allora la lentezza di quei romanzi? La lentezza di Proust? Oggi siamo in sovraccarico cognitivo, bombardati costantemente dalla necessità del multitasking: leggiamo come cavallette, saltando un po’ qua un po’ là. Lo skimming (lettura superficiale e orientativa) è la nuova modalità di lettura, sempre più praticata: leggiamo in modo veloce per elaborare le informazioni il più velocemente possibile ma siamo saturi di informazioni e distrazioni, persi in una sorta di outlet dell’informazione. Il pensiero sequenziale diventa così il meno importante e meno usato, non è un caso che i ragazzi siano perfettamente in grado di ripetere i particolari di una pagina, ma fatichino a individuare e riassumere la struttura di un romanzo. Per noi docenti l’attenzione al testo da leggere in classe deve essere massima: un testo troppo complesso per l’età (non solo in termini di fluidità di lettura ma anche di capacità di fare inferenze, collegamenti, analogie) è sbagliato tanto quanto proporre loro testi sciatti e troppo semplici, poco curati. Una volta scelto il testo adatto però, prima di annegarlo sotto strumenti e tecniche dobbiamo avere il coraggio di farlo risuonare con lentezza, di decodificarlo, partendo da come si legge.
La nostra cultura è distratta e polarizzata, amiamo condividere istantanee che sono facili da manipolare, tutto è bianco o nero, come bene ci mostra alba Donati nella sua poesia A Mark che ci ha rubato le infanzie: leggiamo sempre più su schermo. Secondo le ricerche della Wolf (Lettore vieni a casa, Cortina editore) la lettura digitale diminuisce l’attenzione, il tempo, la rilettura e la possibilità, di conseguenza, di sviluppare la lettura profonda. Più estesa è l’esposizione a un determinato strumento più le sue caratteristiche influenzano l’osservatore: stiamo sviluppando la mente a cavalletta saltando da un punto all’altro, distratti dal compito originale. I bambini sono abituati al flusso continuo di concorrenti per l’attenzione, il loro cervello è costantemente immerso in cortisolo e adrenalina, a tal punto che la noia naturale è sempre di più soppiantata dalla noia indotta, quella che nasce da una sovraesposizione ai videgiochi, ai social, alla connessione perpetua. La nostra sfida è educare i bambini e i ragazzi dalla scuola dall’infanzia all’università a sviluppare un acume tecnologico e ad immagazzinare profonde riserve di conoscenze interiorizzate che siano il filtro per far dialogare e per interpretare la complessità del mondo che li circonda (Wolf, Lettore vieni a casa). Le competenze insomma.
Noi, adulti che leggono coi ragazzi
Parliamo di noi, adulti che leggono, ma facciamolo usando quattro personaggi lettori.
La signora Felpa è la bibliotecaria del libro Matilde di Roal Dahl: si trova davanti uno scricciolo di quattro anni che giunge da sola in libreria per leggere. Le mostra i libri e la lascia esplorare, non fa troppe domande, non indaga non cerca di capire.
La signora Amesfoort è una strega, o almeno così si dice, che abita vicino a Thomas ne il libro di tutte le cose di Kujer: il bambino entra, sarebbe meglio dire fugge, in casa da lei. Lei gli offre un’aranciata, mette della musica e poi spara: “Ti piace leggere?
La professoressa Hicks del meraviglioso La commedia umana insegna allo stesso modo a tutti i suoi studenti, nonostante le differenze di ceto: “Voglio che i miei ragazzi siano persone originali, felicemente diversi. Questo è quello che intendo usando la parola civili – ed è quello che dobbiamo imparare studiando storia.”
Cosa hanno in comune questi adulti?
Credono che i ragazzi leggeranno (“Provaci dice la signora Felpa, se non ti piace – e non se non riesci- ti porto qualcosa d’altro”);
Si fidano di loro (lasciano loro in mano i libri e libri preziosi, non libri che insegnano ma che raccontano);
Danno loro tempo perché i ragazzi si fidino di loro e rispettano la giusta distanza (non si impicciano, non li sommergono di parole).
La Professoressa HInks legge e se ne va, la signora Felpa guarda i bambini e non commenta. La signora Amesfoort dà a Thomas tè e musica
Tutti per prima cosa osservano: guardano, aspettano e sospendono il giudizio.
Insegnano cose difficili, vogliono e danno il meglio ai loro studenti, i libri più belli che hanno, i libri che loro stessi amano.
I ragazzi a cui abbiamo la fortuna di insegnare sono in formazione, sono in ricerca: significa che devono poter esplorare, cercare sbagliare, anche coi libri.
Ma cosa dobbiamo leggere coi ragazzi quindi? Il più e il meglio direbbe Pinocchio, il burattino a cui mancava il più e il meglio, cioè l’abbecedario, un libro, non a caso.
La differenza tra un Harmony e “Guerra e pace” non è la struttura, non è la téchnē: da quel punto di vista gli Harmony sono costruiti con grande maestria, sono fatti per tenerci incollati. Ciò che cambia è che alla fine dell’Harmony abbiamo tutte le risposte, alla fine di Guerra e pace usciamo stravolti e con ancora più domande, tutta la complessità del mondo ci balla in testa. Quando leggiamo Kafka sentiamo che le domande che suscita in noi vanno sempre al di là della comprensione. Sono domande che permettono una risposta, ma non ora, la prossima volta forse alla prossima pagine (Alberto Manguel Vivere coi libri, un’elegia e dieci digressioni).
E io credo che il senso della nostra lettura in classe sia tutta lì, in quelle domande e in quelle risposte alla prossima volta.
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