Trentanove cadaveri + tre
Merce cinese
25 ottobre 2019: «Sono di nazionalità cinese le 39 vittime ritrovate ieri dalla polizia britannica a Grays, nell’Essex all’interno del container frigorifero di un tir appena sbarcato nel Regno Unito. Lo riferisce la Bbc.» (ANSA)
La cronaca tritura un numero impressionante di cadaveri. Forse tanti quanti la distopia di Cavalli ne ha immaginati (di Carnaio, su questo blog si veda qui ). E di questi 39 ci dimenticheremo, come abbiamo dimenticato i 58 morti a Dover nel 2000, i 366 a Lampedusa nel 2013. Anzi, questa orribile contabilità suscita in molti una reazione di difesa: un’impermeabile diabolica indifferenza. La feroce noncuranza nei confronti di una persona, come è stato ognuno di quei 39 cadaveri, è il crimine contro l’umanità più comunemente diffuso oggi. La smemoratezza ci difende dalla responsabilità. Cancelliamo la sofferenza di gente in fuga, dimenticando dei numeri.
Questo sciupìo di cifre diventa un modo per rimuovere, per rendere astratto il dolore vero, la bruciante umiliazione, la disperazione.
Uomini sotto il sole
Era rimasto sedimentato nella mia memoria, ma poi il racconto è balzato netto alla mia coscienza agganciato dall’analogia (il camion) oppositiva (frigorifero) e nel leggere la notizia, inaspettatamente, ho recuperato un libro: Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani, uscito in lingua araba nel 1963, pubblicato da Sellerio nel 1991. È una storia semplice e crudele che allora mi ha svelato, senza alcuna possibilità di scampo, cosa prova una persona che decide di attraversare un confine da clandestino. Ho capito, grazie a quei personaggi, il meccanismo del contrabbando di uomini e l’inganno che le vittime temono e tuttavia subiscono pur di avere la speranza di una possibilità.
Tre palestinesi + 1
Abu Qais vorrebbe mandare di nuovo a scuola suo figlio e crescere la figlia nata da poco. Vorrebbe avere una casa e qualche albero di ulivo. Ha perso tutto perché palestinese. Ma si sente vecchio, teme che raggiungere il Kuwait sia impossibile per lui che non può camminare per tanto tempo come i giovani.
Asad è giovane, è giunto clandestinamente dalla Giordania in Iraq. Abbandonato nel deserto dalla sua guida, è stato raccolto in auto da uno straniero che capisce cosa gli è accaduto, perché accade sempre ai palestinesi in fuga dai campi profughi.
Anche lui vuole raggiungere il Kuwait, terra in cui si fanno facilmente i soldi, per essere libero di vivere la sua vita: sposare una donna scelta da lui e non imposta dallo zio, per esempio.
Marwàn ha 16 anni, voleva diventare medico, ma deve lavorare per mantenere la famiglia: la madre abbandonata dal padre e quattro fratelli, dopo che il primogenito, andato in Kuwait, ha smesso di mandare soldi a casa perché si è sposato. Adesso tocca a lui, gli ha scritto Zaccaria, «doveva lasciare quella stupida scuola che non insegnava niente e “tuffarsi nella padella” come tutti gli altri.» Anche lui vuole andare in Kuwait, ma ha solo 5 dinari.
Il contrabbandiere grasso a cui, come Abu Qais e Asad, anche Marwàn si rivolge, lo picchia e lo caccia. Per strada incontra un uomo che gli propone di fargli attraversare il confine per 5 dinari, a patto che trovi altri disposti a pagare di più.
Canna è un abilissimo autista, capace di guidare un camion perfino sulle piste di sale. Ha combattuto per la libertà della Palestina, ma su una mina ha perso «virilità e patria». Adesso vuole fare soldi per cercare di dimenticare nel benessere ciò che ha perduto. È lui che propone ai tre di attraversare il confine nascosti dentro un’autocisterna.
L’autocisterna
Canna assicura che staranno dentro la cisterna chiusa non più di 5 minuti. Il tempo di far firmare le carte al posto di frontiera in uscita. Poi continueranno il viaggio all’aperto e poco prima di raggiungere il confine del Kuwait si chiuderanno di nuovo dentro la cisterna per 6 minuti. Poi saranno liberi.
L’inconcepibile incandescente calore del cielo iracheno cola sull’autocisterna che attraversa il deserto un mattino di agosto. Dopo il primo passaggio i tre escono inebetiti da quel «pozzo maledetto», da quel «forno» che li ha tenuti nascosti. Senza forze, senza sguardo, ritorna nella loro mente il motivo per cui hanno deciso di subire quel supplizio.
«L’enorme camion fendeva la strada insieme con i loro sogni, le loro famiglie, le loro ambizioni e le loro speranze, miseria e disperazione, forza e debolezza, passato e futuro, come se stessero spingendo un’immensa porta verso un nuovo destino sconosciuto.»
Al posto di frontiera un funzionario, invece di firmare, come ha sempre fatto, fa perdere tempo, minuti preziosi, a Canna, che insiste perché lo lasci andare. Ma quello scherza, provoca, ottiene la promessa di un incontro con una ballerina.
Dovevano essere sei minuti: Canna aveva detto che sarebbero stati solo sei minuti. Quando lo aveva detto erano le undici e trenta. Quando apre il coperchio della cisterna sono le dodici meno nove minuti. Dentro i tre sono morti.
La notte, Canna abbandona tre cadaveri in una discarica. Gli prende i soldi. L’orologio. La testa gli scoppia, la stanchezza gli toglie le forze. Soltanto un pensiero gli scivola sulla lingua
«E tutto il deserto, improvvisamente, cominciò a rimandargli l’eco:
-Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché? Perché? Perché?»
I vivi e i morti
Ghassan Kanafani è morto nel 1972 in un attentato a Beirut. Aveva 36 anni. Quello che ha scritto è legato indissolubilmente alla vicenda palestinese, come la sua morte al suo impegno politico. Eppure, quello che ha scritto cinquantasei anni fa ci riguarda ancora e non solo in Palestina. Ci sono ancora camion sulla rotta dei Balcani e nei deserti. Gommoni e barche in avaria nel Mediterraneo. Ci sono ancora contrabbandieri grassi. Ancora morti. Ancora l’eco nel deserto. Ancora tir con container frigorifero.
26 ottobre 2019: «Una delle vittime è la vietnamita Pham Thi Tra My, 26 anni.» (Rainews)
Merce cinese.
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