(Ri)leggere un classico della critica letteraria /5: Lukács, Saggi sul realismo
Terza media in provincia a nordest. Verso febbraio abbiamo affrontato approfonditamente l’opera di Verga: la storia, i contenuti, le irripetibili innovazioni formali, il portato esplosivo alla data di pubblicazione di un romanzo che oggi, agli occhi di un quattordicenne, non deve sembrare così rivoluzionario. Dopo alcune ore su Malavoglia, Novelle, un po’ di biografia, al mezzo della lettura di Libertà uno studente alza improvvisamente la mano. Riporto l’intervento, a quanto pare covato a lungo.
Professore, mi scusi, ma io non capisco una cosa. Noi abbiamo studiato Leopardi, che era uno che ha pensato oltre il proprio tempo, e abbiamo studiato Foscolo, che magari è un po’ noioso ma almeno stava circa dalla parte giusta. Perché adesso ci tocca studiare uno scrittore reazionario come Verga? Che non voleva i cambiamenti, che voleva che il mondo restasse così com’è, anche se è ingiusto? Perché a questo punto non studiamo invece Gramsci, che è stato il più grande filosofo italiano del Novecento?
Di Gramsci c’è una foto sul libro di storia, la classe tempo prima aveva chiesto delucidazioni per una (davvero) vaga somiglianza fisica con chi scrive. L’intervento dello studente N., ad ogni modo, dà una certa soddisfazione al docente, ma lascia intatta la difficoltà. Perché dovremmo studiare un reazionario come Verga, in effetti? O come Balzac – già rifletteva Engels – o D’Annunzio, Céline, Pound e tutti i grandi scrittori variamente di destra?
Una storia da Mitteleuropa
Lukács è figlio di un banchiere ungherese e durante l’adolescenza ha modo di approfondire la propria formazione sui classici della filosofia europea non marxista. Gli anni dell’anteguerra sono particolarmente inquieti; ne resta traccia nel diario del 1910-11, emerso dopo la morte, avvenuta nel ‘71. Le figure fondamentali di questi anni sono Irma, la fidanzata, e l’amico Leo Popper: la prima morirà suicida a seguito di un matrimonio infelice (dopo la separazione da Lukács), il secondo di malattia. L’anima e le forme e, nel complesso, Teoria del romanzo recano traccia di questi lutti; vi riflettono allegoricamente i bei saggi brevi di Fortini Lukács giovane e Contro la retorica del suicidio, partendo da un incontro fiorentino mai avvenuto fra il filosofo ungherese e Michelstaedter.
L’incontro con il marxismo dà frutti diversi. I saggi scritti durante il lavoro per la repubblica sovietica di Béla Kun confluiscono in Storia e coscienza di classe (1919), testo centrale per la nuova sinistra quasi mezzo secolo dopo la pubblicazione; scrive Cases dell’incontro con l’opera in Svizzera, nel 1944:
Cosa c’era tra l’infelicità psichica di un intellettuale asmatico e solitario e la promessa di una società che garantisse maggior libertà e giustizia per tutti? Solo Storia e coscienza di classe poté istituire per me questo nesso.
Fuggito in U.R.S.S., si dedica negli anni più bui dello stalinismo a opere di teoria e critica letteraria, che verranno discusse e assimilate in Italia solo dopo il crollo del fascismo: i Saggi sul realismo; Il marxismo e la critica letteraria.
Il passare dei decenni non è stato morbido con l’opera di György Lukács. I testi degli anni Trenta in particolare hanno avuto un destino avverso: in Italia riferimenti centrali per la costruzione di un nuovo dibattito culturale dopo il crollo del fascismo, trent’anni dopo erano attaccati come prodotti ottusi di un’era cupa. Il generale rifiuto della prospettiva marxista ha condannato all’oblio questa teoria, imperniata sulla triade totalità, forma, storia.
Le opere, l’autore e la storia
L’opera critico-teorica di Lukács si rivolge al secolo d’oro del romanzo, l’Ottocento, ponendosi il compito di interpretare le diverse forme che il genere ha assunto da Goethe a Zola passando per Stendhal, Balzac, Manzoni, Tolstoj, Flaubert. Lo fa ponendo un’alternativa: narrare o descrivere?
La narrazione sarebbe la cifra di alcuni fra i migliori autori ottocenteschi, concentrati soprattutto nella prima metà del secolo, mentre una tendenza alla descrizione caratterizzerebbe altri scrittori: posto che la narrazione comporterebbe una intima partecipazione, artistica, umana e politica, alle vicende in oggetto, mentre la descrizione avrebbe origine in un atteggiamento più distaccato, meno partecipe, critico. Le differenze che Lukács identifica in Narrare o descrivere sono innanzitutto di ordine estetico, l’analisi procede quindi attraverso un confronto con esempi testuali fin dall’apertura del saggio.
Entriamo subito in medias res. In due famosi romanzi moderni, Nanà di Zola e Anna Karenina di Tolstoj, si trova la descrizione di una corsa di cavalli. Come affrontano questo compito i due scrittori?
La prima, raccontata splendidamente e con grande virtuosismo, nell’economia del testo non ha però altro valore se non quello di una digressione: mostra una determinata classe sociale in un certo momento storico, con i suoi costumi e le sue abitudini. Viceversa, la seconda rappresenta un apice del romanzo, culmine di un grande dramma. La prospettiva stessa è diversa: in Nanà è uno spettatore a seguire lo svolgimento della scena, mentre in Anna Karenina il personaggio è lo stesso partecipante.
Le due opere appaiono a tre anni di distanza, eppure sembra che un abisso le separi. Lukács dà subito a questo solco un nome che deve essere inteso con il portato allegorico proprio di ogni periodizzazione: 1848. Prima del ’48 la borghesia conserva, in Francia, lo slancio propulsivo che ne fa la classe in ascesa, egemone ed erede della Rivoluzione, immersa nel flusso della storia a contatto con la totalità; dopo, la sua funzione sarà sempre più conservativa, sempre meno rinnovatrice.
Il Quarantotto delle barricate parigine non rappresenta una periodizzazione semplice perché, nella lettura di Lukács, non in tutti gli stati l’evoluzione storica del conflitto fra le classi segue lo stesso passo: proprio per questo gli scrittori russi riescono ancora, nella seconda metà dell’Ottocento, in ciò che a francesi, inglesi e italiani non riesce più: narrare nei propri romanzi la verità storica. In Balzac e Stendhal, ma anche in Tolstoj, secondo il filosofo vi è il trionfo del realismo.
Il trionfo del realismo
Che cos’è il realismo dunque, secondo Lukács? È la riuscita messa in forma, all’interno dell’opera d’arte, della totalità del reale. Questo non significa certo che tutto il reale, con le sue infinite – nel vero senso della parola – sfaccettature entri all’interno dell’opera d’arte: in questo caso, come nelle utopie nichiliste postmoderne, l’opera arriverebbe a coincidere con ciò che rappresenta, rendendosi indistinguibile.
Non deve essere riprodotta la realtà intera bensì i rapporti che la strutturano. Le relazioni che fra gli uomini si vanno creando in determinate condizioni storiche, le relazioni fra i gruppi e, last but not least, la lotta fra le classi. Questa è, secondo Lukács, la funzione della letteratura; e solo gli scrittori veramente grandi riescono in questo.
La grandezza di un autore così non ha a che vedere tanto con le sue idee quanto con la capacità di dare forma artistica al vero storico, ai rapporti che oggettivamente intercorrono fra i soggetti in un determinato spazio e tempo, alle contraddizioni che sostanziano un certo periodo. La qualità dell’opera non è legata a concezioni politiche o proposte ideologiche, ma alla capacità di far trionfare il reale: un sommo grado di sincerità deve insomma accompagnarsi all’abilità letteraria. Tuttavia, se non è necessaria una precisa visione del mondo, sicuramente per osservare e rappresentare il reale serve una visione del mondo, che benefici attivamente delle idee del proprio tempo:
Ma lo scrittore deve avere una salda e fervida concezione del mondo, deve vedere il mondo nella sua mobile contraddittorietà, per essere in grado di scegliere a protagonista un uomo nel cui destino s’incrociano i contrari. […] Più una concezione del mondo è profonda, differenziata, nutrita di esperienza concrete, e tanto più varia e sfaccettata può diventare la sua espressione compositiva.
Ma non c’è composizione senza visione del mondo.
Se Balzac, Goethe, Manzoni fino a Tolstoj si riconoscono in questa condizione, non si può dire altrettanto per Flaubert, Zola, i Goncourt. All’interno della divisione del lavoro essi non parteciperebbero più della vita della propria classe, in ciò ostacolati dalla vista di errori e contraddizioni; se dal punto di vista politico Lukács potrà apprezzarne le traiettorie, sotto un profilo artistico essi falliranno, non riuscendo a riprodurre una totalità compiuta, non partecipando all’azione, procedendo per frammenti. La forma tesa alla totalità, quella che potevano conoscere gli antichi (già in Teoria del romanzo: «Tempi beati quelli in cui è il firmamento a tracciare la mappa delle vie accessibili e da battere, rischiarandole alla luce delle stelle»), in questo momento esplode; la coscienza borghese si è disgregata, è l’ora della decadenza, l’epica del reale con la sua ricomposizione è fallita.
Bilanci
Quello che oggi stupisce in Lukács è la precisione dei tratti dell’analisi critica unita alla durezza del giudizio di valore. Le opere della decadenza sarebbero improntate a uno pseudo-soggettivismo, a una statica fissità, alla monotonia compositiva. «Il metodo descrittivo è inumano». La letteratura borghese del secondo Ottocento (ma fino a Joyce e Dos Passos) non vedrebbe la dialettica delle forze in gioco, ma solo la risultante: restandone così soggiogata, delusa, impossibilitata all’azione e alla partecipazione.
Come concordare con un giudizio così netto? Leggere i saggi sul realismo o Il marxismo e la critica letteraria significa fare i conti con elementi ai quali non siamo abituati: una critica che rifiuta lo specialismo e la parzialità e si rivolge al reale, assumendosi il rischio, valutato, di fornire un giudizio che abbia come orizzonte il mondo e non il campo della letteratura. Il nostro compito di lettori è di confrontarci con il giudizio, apprezzandone l’acutezza e lo sforzo di chiarezza, dividendo. Quasi ci si ritrova a riflettere, ma con segreta vergogna della pacifica specola dalla quale osserviamo Lukács e il suo tempo, che la tara da fare a questi saggi consista, semplicemente, nell’immaginare di cambiare, qua e là, un segno. Flaubert esprime la decadenza borghese, perdendo la possibilità di rappresentare la totalità? Proprio per questo interpreta il proprio mondo, ed esprime una possibilità estetica diversa, di perdita e frantumazione; ma proprio per questo è capace di dire molto sulla verità di un tempo e degli uomini. Anche nei modi e nelle forme individuati, in negativo, da Lukács.
Leggere questi saggi ha inoltre il merito, comune a molti altri grandi marxisti più o meno eterodossi del secolo scorso, di porre il lettore davanti a un’alterità, che è anche una possibilità: quella del critico non specialista, del letterato che non ama la letteratura ma la verità degli uomini, quindi la letteratura. Che è sicuro che nonostante tutto una verità, scelta, parziale, ci sia. Chi oggi voglia capire il mondo, e voglia provare a insegnarne le ragioni, non può prescindere da questa postura.
Dopo tutto ciò, cosa rispondiamo a N.?
La letteratura e la filosofia, caro N., sono due cose diverse. Negli anni, se avrai fortuna e curiosità, ti dovrai porre questa domanda, a cui non posso rispondere io. Gramsci fa un’altra cosa, prova a capire e cambiare il mondo, mentre Verga scrive dei romanzi. Tuttavia, devi e dovete sempre pensare che non è detto che i romanzi escano esattamente come si vuole… Cioè che i Malavoglia dicano con precisione quello che pensa quel vecchio reazionario di Verga. Anzi… I personaggi possono prendere vita, possono seguire delle logiche interne, arrivare a rappresentare un’essenza. Cioè? Come diceva un altro filosofo un po’ dimenticato del secolo scorso, György Lukács, «L’intima poesia della vita è la poesia degli uomini che lottano, la poesia dei loro mutui rapporti quali si esplicano nelle loro azioni reali»; significa, a spanne, che dato che siamo tutti uomini che stanno in una società, solo quello che siamo gli uni per gli altri e le azioni che ne conseguono in fondo ci interessa. E spesso queste azioni sono una lotta. Verga ci prova dalla sua prospettiva, anche se parla di cose lontane per lui, che non conosce per averle provate sulla propria pelle, dalle quali si sente lontano ma di cui capisce l’importanza: ecco perché ci descrive i contadini di Bronte in questo modo, come moltitudini, non ne vedi mai davvero uno mentre fanno a pezzi nobili e ricchi. Allo stesso modo, voi non vi comportereste mai come alcuni personaggi dei Malavoglia… Eppure, questo mondo di proverbi, invidie e di rassegnazione ci dice qualcosa, ci parla di un mondo che cambia e crolla, della fine di una forma di vita, con il portato di ingiustizie, di sopraffazione, di uomini che non sanno comunicare fra loro; ce ne spiega le ragioni, e ci fa entrare in un mondo sbagliato, senza senso, dove le cose avvengono per fortuna o sfortuna e alla fine, come per Mazzarò, si rischia di impazzire. Ci dice qualcosa su un mondo che non c’è più e ci avvisa che anche questo è l’uomo, ce lo mostra nella sua miseria, ed ecco perché ha senso leggerlo. Come Leopardi, ma in modo diverso, Verga ci dice una verità difficile sul suo tempo e una, ancor più complessa, su di noi.
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