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diretto da Romano Luperini

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Un estraneo dentro: il tarlo della verità. Recensione a Di chi è questo cuore di Mauro Covacich

 «La sonda spara ultrasuoni nel petto. Al primo contatto con la pelle la sua testa scivolosa mette i brividi, poi prevalgono le immagini. Sullo schermo una sagoma medusoide pulsa nell’oscurità. Si dilata e si contrae in mezzo a quel nero dove all’improvviso potrebbero comparire palombari. Oppure astronauti. Ma non c’è nessuno nel petto, ci sono solo le cose contenute in ogni essere umano. La dottoressa aggiunge altro gel e continua a perlustrare piano, alla cieca, gli occhi sempre fissi sul monitor, indugiando un po’ sotto lo scalino delle costole. Si ferma, ingrandisce, scruta i due vani inferiori, appena visibili nel pulviscolo, divisi da una corrente incessante.

[…]

Distolgo lo sguardo e contemplo il profilo azzurrino della dottoressa, chissà per quanto ancora assorbita nel suo viaggio, la sinistra sulla sonda, la destra sulla tastiera. Sento il suo alito di sigaretta. Mi piace una cardiologa fumatrice al centro di medicina dello sport.

[…]

E quando ormai mi sto rivestendo e la dottoressa si è spostata alla sua scrivania zeppa di portaocchiali e cavi di alimentazione e chiavette UBS e ombrellini da cocktail, sento che dice:

“Eh, sì, per un po’ lei deve stare a riposo.”»

La cornice

Un difetto, un’anomalia cardiaca, è il punto di partenza di questa coinvolgente narrazione che si presenta come un percorso utile a tenere a bada la morte. Come ogni vita. Una corsa nel tempo sfidando la sincope in agguato:  “il rischio c’è” (p. 11). Dentro di noi, da qualche parte, pulsa nascosto ciò che ci spegnerà. Non sappiamo quando accadrà, e dove si nasconde, sappiamo che infallibilmente è così. Rispetto a tale certezza è ovvia quanto inutile la fuga. Come sarebbe inutile l’immobilità dell’attesa. La corsa è la rappresentazione della vita, la metafora del viaggio, del percorso che ci fa battere il cuore, ci fa allenare il fiato e le gambe, ci costringe ad allontanare il limite e ci consente di essere vivi. Del resto, come è stato notato da Morena Marsilio, “È possibile eleggere a metafora della narrativa di Mauro Covacich quella […] del maratoneta”.

In una simile condizione diventa plausibile la commistione tra persona (io fisico) e personaggio (io narrante e narrato): l’uno e l’altra ugualmente in pericolo di vita, nelle pagine di un libro come sulla strada di tutti i giorni. Recita la Nota alla fine del libro:

«I personaggi di questo romanzo sono persone. Anche i nomi sono gli stessi a cui rispondono nella vita.»

Il racconto modifica lo statuto dell’esistenza, ma può non tradire la realtà. O, meglio, il romanzo, pur alterando nella trasposizione narrativa la realtà, essendo rappresentazione, può mantenere la verità.

In esergo leggiamo un passo della Vita di Alfieri:

«Onde, se io non avrò forse il coraggio o l’indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non sia.»

Delimitato dalla citazione di Alfieri e dalla Nota finale, il romanzo, secondo la predilezione dell’autore, si presenta come veritiera autobiografia. E Alfieri concludeva l’Introduzione alla sua Vita dichiarando “ho scritto questa opera […] dettata dal cuore e non dall’ingegno”. Il cuore di Covacich e il cuore di Alfieri, e il cuore dell’autore e il cuore del personaggio, e il cuore di Robert Gober e di un ragazzo morto in gita scolastica, e poi di Anne Frank, e di Dante, e di Etty Hillesum, e ancora quello delle altre persone-personaggi e di ogni lettore si mescolano tra sguardi e ricordi, fatti e parole. Mentre di corsa si attraversa Roma Nord, immersi nei propri pensieri e nelle proprie paure. Rimane nel titolo una domanda implicita. Un’affermazione interrogativa. Ma non c’è risposta. Per questo si continua a correre. Per questo si continua a leggere.

Figure

Qual è il contenuto di questa forma romanzesca incorniciata tra dichiarazioni di realtà e di verità? Se fin qui,  come abbiamo visto, la narrativa di Covacich si organizzava attorno ad una metafora, adesso la figura organizzatrice del discorso narrativo è la preterizione, che in prima battuta, etimologicamente, consente all’autore di andare oltre nel suo cammino compositivo. Ma la sostanza è che, nel romanzo, Covacich-personaggio dice (e pensa e vive) cose che non si possono scrivere, come nel caso del “ragazzo morto in un albergo di Milano durante una gita scolastica” (p. 12) a proposito del quale parla agli amici del proprio punto di vista di “figlio” e dello sconcertante “sollievo” che quel ragazzo avrebbe provato nel sottrarsi alla vergogna: «“Ma questo,” ho detto, “non si può scrivere.”» (p. 16)

Nel romanzo, perciò, l’indicibile si deposita come scrittura: si rappresenta la verità nascosta, quella interna, quella che batte come un cuore che non si vede ma che dà vita all’esistenza, la cui immagine è così tanto familiare e conosciuta da far supporre di non aver nient’altro da dire che la sua apparenza. Ma la realtà, ha dichiarato Covacich, è  “un luogo interiore in cui […] un soggetto fa un’esperienza di verità”  E, poiché il suo metodo di scavo per raggiungere la verità è raccontare, il lettore deve accettare il rischio di incontrare la propria interiorità attraverso quella dell’autore.

Solitudini

La forma del racconto deve restituire  i frantumi delle esistenze, perciò recuperare la trama rischia di tradire il senso di questo romanzo, interessante in quanto inquietante, costruito attraverso un paziente montaggio di pezzi prelevati dalla quotidianità. Il centro è l’io, scrittore, editorialista del Corriere della sera, costretto ad abbandonare l’attività agonistica. Intorno a lui si dispongono le esistenze degli altri. La madre, vedova, che attraverso Facebook recupera la voglia di vivere e di illudersi. Susanna, indispensabile compagna, con cui ridere, fare l’amore, litigare. Gli amici con i loro rituali. E poi ci sono le esistenze di quelli che si incrociano durante la corsa che, senza forzare, si concede. Si tratta delle vite dei senza tetto, degli zingari napoletani, dei mendicanti ai semafori o alcolizzati sulle panchine. Ci sono le donne, i passanti. I viaggi in treno. Le interviste. Il bagnino della piscina che legge dal Kindle. Ci sono i paesaggi romani e il lungotevere della pista ciclabile. Ma specialmente ci sono le riflessione dell’io e i saggi che scrive pedinando la gente, sul modello delle Filatures parisiennes di Sophie Calle. C’è la memoria letteraria. E c’è anche il perturbante.

Io e lui

Un intruso, un provocatore, un uomo grasso a torso nudo che non può essere lui, uno completamente diverso da sé, che lo violenta e lo irride, che lo induce al vizio del fumo (a cui l’estraneo si abbandona voluttuosamente) e che contesta il suo amore per Susanna. Prima, clandestino notturno nell’appartamento, poi

«”Ti avevo detto di non venire di giorno.”

“Però stiamo meglio quando non c’è quella, o sbaglio?”

Non gli rispondo. Lui si sistema sul divano, allarga le gambe, esplora il pube con entrambe le mani come se dovesse spulciarsi. Quando solleva la testa, distolgo lo sguardo.

“Nei saggi fai il brillantone. Perché fingi?”

“Cerco di darmi un tono, per il giornale è meglio.”

“Il gelsomino, l’olmo, sei penoso. E poi non fai che inventare. Quella cosa sulla morte l’hai rubata a uno al telefono.”

“E con questo?”

“Niente niente, solo che inventi di qua, inventi di là…”

“Ma come faccio? Non inventare niente è impossibile, non ci riesco.”

“Ti devi spingere dove non vuoi, devi essere sincero.”

“Ma io sono sincero.”

“No, caro mio, si è sinceri solo quando la verità comporta un costo, non quando ci guadagni qualcosa. Tu che ci perdi a discettare in quel modo? Vuoi essere un uomo virtuoso? Be’, allora la tua virtù dev’essere una virtù crudele.”

“Dacci un taglio.”

“Crudele viene da cruor, lo sapevi?”

Lo guardo.

[…]

“Bravo. Allora devi essere crudele, un virtuoso crudele. Perché non hai ancora scritto della cosa di Padova?”

“Perché non mi va.”

“Balle, perché hai paura che dentro ci sia qualcuno del premio.”

Lo guardo.

“Non è così? Hai paura di comprometterti con i padovani del premio.”

Lo guardo.

“Perché non hai ancora scritto di quello che ti è successo a Torino?”

Lo guardo.

“Questa è la sincerità… Vabbe’, piano piano, ti aiuterò io.”

“Non puoi fare di me quello che vuoi!” gli urlo con la bava alla bocca.

“Ah, no? E chi sarebbe a impedirmelo?, tu forse?”» (pp.98-99)

Questo ospite indiscreto, distruttore degli accomodamenti dettati dalla discrezione e dalla buona educazione, eversore delle convenienze e dei normali rapporti civili, è quello che spinge Covacich-personaggio a scrivere la verità. È lui a dire che lo scrittore non vede “persone”

«”Che ne sai tu di cosa vedo?” gli dico, accorgendomi che sto scrivendo sotto dettatura.

“Vieni qui, dai, non fare così adesso,” e mi tira per un polso sul divano. » (p.86)

Il romanzo è dettato da un uomo grasso dominante, come l’autobiografia di Alfieri è dettata dal cuore. E del resto “un cuore enorme come il mio” (p.232) sarebbe quello adatto all’uomo grasso. Forse è questa una risposta alla silenziosa domanda del titolo. Forse l’uomo grasso è il trickster evocato da Siti e negato da Covacich. O forse non si può fare a meno di inventare se si vuole raccontare la verità. Uno scrittore vede solo personaggi, come Arcimboldo, “la cui faccia composta di frutta lo costringerebbe al mondo delle favole e invece esiste davvero” (p.22). Alla fine avrà un nome di persona,  Sotir, una nazionalità, rumeno, e una biografia. Tornato persona che racconta la sua storia allo scrittore è pronto a diventare un nuovo personaggio, che Covacich potrebbe usare per il giornale “e concludere i saggi con la rivelazione di Arcimboldo. Oppure potrei farne qualcos’altro” (p.243). Infatti lo usa per chiudere questo romanzo.

Vita nuova

Un incubo, l’ecografista che gli mangia il cuore, consente il recupero di memorie personali che si mescolano a sostrati culturali, e il romanzo e l’autobiografia del primo prosimetro dantesco si mescolano con l’autobiografia e il romanzo di Covacich. “Nel terzo capitolo Dante racconta un sogno nel quale Beatrice gli mangia il cuore piangendo, seduta in grembo del dio Amore.” (p.220) Le interpretazioni che l’autore fornisce conducono alla sconsolata constatazione di essere entrato in una nuova fase della propria vita: “stai perdendo l’efficienza fisica, ciò con cui hai sempre identificato la tua virilità. Stai diventando un uomo albero.” (p.221) Radicato in un luogo, impedito a correre. Cristallizzato in una condizione vegetale, che anestetizza il dolore della vita, la colpa di esistere. Eppure, la conclusione del romanzo nel quale, l’uomo albero per eccellenza, Arcimboldo, è rimesso in movimento, parte, se ne va, riconquista una dimensione di persona, è la speranza di poter continuare il viaggio. Magari “a passo d’uomo”. Si potranno incontrare altre storie da raccontare. Forse lo sapevamo già, ma vale la pena ripeterselo. Questo romanzo meriterebbe di essere letto se anche desse soltanto (e non è così) questa consapevolezza. Ci sono altre strade da percorrere, finché batterà questo cuore.

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