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diretto da Romano Luperini

Eterni duellanti: immagine contra scrittura. Su Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini il peso delle parole

 L’ultimo libro di Alessandra Sarchi (Bompiani, 2019) affronta la vexata quaestio del rapporto fra immagine e scrittura letteraria, con l’idea – evidente sin dal titolo – di coglierne più le differenze che le affinità. Gli autori scandagliati sono cinque punti fermi del Novecento italiano: Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino e Celati. Ciò che li accomuna è l’affiorare nelle loro scritture, narrative e critiche, di un ostinato e lancinante complesso d’inferiorità rispetto all’adamantino linguaggio della pittura, e più in generale dell’arte. L’autrice del saggio costringe idealmente gli scrittori a porsi di fronte alla pittura; a interrogarla, ma anche a esporsi al rischio di essere da quest’ultima a loro volta interrogati. Per questo motivo ci sembra che la situazione concreta che può esemplificare in modo emblematico il senso complessivo del libro si possa ricavare dallo straordinario film di Valerio Zurlini, La prima notte di quiete (1972), peraltro rapidamente evocato dalla stessa Sarchi. In una delle scene più belle il protagonista, tormentato professore di lettere e scrittore di versi, si trova, insieme all’affascinante studentessa Vanina, in una chiesetta di Monterchi, di fronte alla Madonna del parto di Piero della Francesca. Qui si delinea la sintesi contraddittoria fra la fredda perfezione, armonica ma larvatamente mortuaria, dell’opera come forma, e l’apparente giovialità del soggetto rappresentato: la vita che sta per nascere – che è anche una metafora della stessa creazione artistica. Tant’è che il professore, dopo aver elogiato la virginea bellezza della Madonna, colta da Piero nella gaia allegrezza di un’istintiva semplicità popolare, comincia a notarne gli elementi inquietanti. Uno su tutti: l’oscura premonizione del frutto di morte che la donna porta in grembo. A quel punto lo sguardo si rovescia, ed è il professore-poeta a dover parlare di sé, della desolante china assunta dalla sua vita, delle pulsioni di morte che egli porta dentro. Ecco il punto: l’arte riesce meglio della scrittura a mascherare le imperfezioni dolorose della vita. È come se la tensione sintetica dell’immagine, la sua “naturale” capacità di amalgamare i suoi elementi, la sua innata forza coesiva possa più facilmente, e in modo meno ambiguo, cogliere uno scampolo di totalità, rispetto al tratto incerto, sfuggente e divagante della parola. L’impossibile che dunque tormenta i sogni senza quiete degli scrittori sarebbe costituito non solo dal desiderio di trasformare la realtà in arte, ma anche da quello di mutare a fondo se stessi. Essere un’opera d’arte che ne osserva un’altra. La Sarchi, a questo proposito, collega giustamente la famosa frase di Pasolini sulla morte come montaggio fulmineo degli apici culminanti dell’esistenza al poemetto L’appennino, con cui si aprono Le ceneri di Gramsci (1957). Qui il lettore è condotto a identificarsi con lo sguardo morto della scultura funeraria di Ilaria del Carretto, per cui si avrebbe una germinale anticipazione dell’idea pasoliniana «del montaggio filmico come atto di morte necessario per rivelare il senso». L’arte è sempre una «prima notte di quiete»? Un appagato stato di morte, in cui si è finalmente liberi dalle punture dolorose dei sogni e del desiderio? Anche qui però le cose si complicano, perché proprio in Pasolini a questa idea di una forma quieta, pacificata e serena, se ne contrappone un’altra diametralmente diversa per cui è molto più bello continuare a sognare un’opera, piuttosto che realizzarla. Siamo nel celebre finale del Decameron (1971), in un altro punto in cui l’artista – Pasolini veste i panni del pittore allievo di Giotto – si pone ancora una volta di fronte all’opera, interrogandola. E, continuando a rielaborarla, la muta. In questo caso infatti il Giudizio universale apparsogli in sogno, sebbene sia ricalcato su quello di Giotto, presenta significativamente in trono, al posto del Padreterno, la Madonna. L’opera in questo caso non ha nulla di irenico e pacificato, ma continua a essere veicolo e sintomo inquieto di desideri rimossi e inappagati. Lo sguardo soggettivo del singolo non è affatto espunto o addomesticato, come forse avrebbe voluto Calvino. La Sarchi sottolinea inoltre come in questa scena pasoliniana la trama dei rimandi intertestuali si infittisca fino a catturare nella rete anche un quadro di Velázquez: La fucina di Vulcano. Il Pasolini-pittore del film con indosso sul capo una benda bianca in effetti ricorda esplicitamente l’immagine di questo quadro. Ma anche in Calvino la figura di Vulcano finirà per connotare, seppur in modo diverso, il lavoro dello scrittore. Notiamo intanto che l’opera di Velázquez raffigura il dio del lavoro tecnico nel momento in cui viene a conoscenza dei tradimenti della moglie Venere con Marte. Un momento in cui l’imperfezione tutta umana della realtà, di nuovo soggiogata dal sogno e dal desiderio, sconfina nel mondo intangibile degli dei e dell’arte. Al di là delle rispondenze con l’atmosfera licenziosa del film, il soggetto del quadro ripreso da Pasolini sembra dirci che l’artista, per quanto possa tentare di recludersi e concentrarsi nel suo orizzonte creativo, deve sempre subire il ritorno della realtà, con i suoi limiti e le sue piccolezze. Il Vulcano di Calvino è invece l’eroe dello sforzo artistico, pacificato e concluso in se stesso. È la figura della concentrazione sul lavoro, esclusiva e totalizzante. E si oppone, nella lezione americana della Rapidità, all’ondivaga e spensierata dispersività di Mercurio, che partecipa al fluire vitale del mondo. Vulcano è il simbolo della «focalità». E in questo senso somiglia, almeno in parte, a quel Palomar ossessivamente concentrato ogni volta su un fenomeno isolato, «come se», scrive Calvino, citato dalla Sarchi, «non esistesse altra cosa al mondo e non ci fosse né un prima né un poi». Per Calvino l’immagine artistica è felice in quanto sfugge alla dimensione espressiva; è pura immanenza senza residui soggettivistici. Per lui lo scrittore, al limite, potrebbe accettare di essere un io “cartesiano”, costruito sull’abolizione di se stesso, che privilegia la resa dell’oggettività, della «struttura silicea dell’esistenza». Anche in questo caso ci si imbatte in una feconda e consapevole contraddizione, in quanto il vedere, e lo scrivere, non sono possibili senza un soggetto umanamente spurio che dia vita a queste forme di conoscenza della realtà.

 

Muovendosi idealmente tra questi due poli estremi, ovvero il soggettivismo di Pasolini e l’anelito alla trasparenza dell’io calviniano il libro inquadra anche gli altri autori. Tra tutti si segnala l’analisi di Moravia, la cui «noia» viene interpretata come «insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà», quindi come impossibilità di darne rappresentazione artistica. Sulla scrittura di Moravia incombe sempre il pericolo dell’astrattismo, lo scacco della tela bianca, e dell’afasia. Le sue finestre, molteplici e ingannevoli, si spalancano puntualmente su un mondo opaco.

Molto preciso e dettagliato è anche lo scandaglio critico dedicato a Volponi, la cui narrativa è così fortemente influenzata dal rapporto con la pittura che in più punti della sua opera, e in particolare in Corporale (1974), sembra di assistere non a mere descrizioni del reale, ma a sue raffigurazioni al secondo grado. Come se l’autore avesse di fronte a sé non proprio la realtà, ma già dei quadri ben formati. Il lavoro dello scrittore, in questo caso, sarà dunque quello di percepire i sogni dell’arte, le sue pulsioni più inquiete, ovvero le forme di quella «ansiosa emergenza» che Volponi, sulla scorta di Longhi, imputava alle figure create dai suoi maestri Piero e Masaccio. Nell’ultimo suo romanzo Le mosche del capitale (1989) sembra al contrario che la facoltà purificatrice dell’arte debba arrendersi dinanzi alla bruttezza della realtà. Il dirigente industriale Astolfo, inebriato dalla bellezza dei quadri in suo possesso, si dichiara allibito di fronte al degrado delle fabbriche e alla visione delle operaie abbrutite da un lavoro alienante. Qui si potrebbe ipotizzare che nelle parole risentite di Astolfo riecheggino alcuni intriganti spunti saggistici della Morante, che in uno scritto ancora sulla pittura, nella fattispecie su Beato Angelico (1970), pagine che furono certamente  note a Volponi, aveva analizzato la distanza profonda del suo presente dal mondo del pittore, puntualizzando che «la povera mia (nostra) lingua materna è cresciuta nella fabbrica deformante delle città degradate […] e le ripugnanti, continue tentazioni della bruttezza». La bellezza artistica rimane lontana dal mondo. E la scrittura?  

Anche a partire da queste ultime notazioni sembra che uno dei fini più pressanti della letteratura possa essere quello di conferire vita narrativa alla congelata perfezione dell’arte. Immettere una punta di caos vitale, e di autenticità, laddove sembrerebbe regnare una stellare geometria di significati. Fare in modo che l’arte parli agli uomini, ricambiando il loro sguardo. Dotare l’arte, in una sola parola, di aura. Come il torso arcaico di Apollo che, nei memorabili versi di Rilke, interpella drasticamente l’esangue lettore, intimandogli nientemeno di cambiare la propria vita. Di essere vivo come lui.  

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