Federalismo e autonomia rinforzata: i rischi senza paracadute di una secessione dai valori della Repubblica
Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.
Sono passate per tanto tempo pressoché inosservate, specie nel mondo della scuola, le possibili conseguenze sul sistema nazionale dell’istruzione dell’iniziativa delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, volta al conseguimento di una maggiore autonomia (autonomia rinforzata) ai sensi del terzo comma dell’art.116 della Costituzione, cosi come riformato dalla L.3 del 2001.
Non è possibile affrontare il tema, o comprendere fino in fondo il significato eversivo di questo processo di “secessione”, senza fare un passo indietro.
Il nostro paese ha costruito nel dopoguerra la sua unità attraverso la progressiva costruzione di una rete di servizi pubblici che dessero concretezza ai diritti di cittadinanza enunciati e garantiti dalla Costituzione, tra i quali prioritari il diritto all’istruzione e alla salute. Questa costruzione è avvenuta attraverso ingenti investimenti pubblici e ha avuto naturalmente le sue problematicità: da un lato l’aumento di spesa pubblica che si è tradotto nel grave deficit per il bilancio statale che oggi ci troviamo a pagare; dall’altro le diverse velocità e le diverse situazioni di partenza delle zone del paese, che hanno fatto sì che, laddove le pubbliche amministrazioni apparissero più deboli o permeabili a fenomeni di illegalità e clientelismo, le reti civili più deboli e le condizioni culturali ed economiche più arretrate, connotate da alti tassi di disoccupazione e scarsi di alfabetizzazione, l’investimento non desse esiti di efficienza e di efficacia tali da riuscire a rispondere ai bisogni delle popolazioni.
Dal 1992, dopo Tangentopoli, e con il costituirsi di politiche europee centrate sulla globalizzazione di mercati e risorse, è poi iniziata una generale revisione della spesa pubblica che si è tradotta nel nuovo secolo in una politica di efficientamento e riorganizzazione a cui non è sfuggito nessun settore, dalla sanità alla scuola. Ridurre gli sprechi e rendere più efficienti i servizi, anche attraverso processi di responsabilizzazione dei territori, attraverso forme di autonomia e decentramento, attraverso modelli più stringenti di controllo e monitoraggio della spesa: questo il senso complessivo che veniva enunciato dalle forze politiche di governo (per la verità, di vari governi) e assegnato alle diverse azioni avviate. L’accrescimento del ruolo degli enti decentrati, avvenuto con la riforma costituzionale del 2001, si è accompagnato a nuove modalità di allocazione delle risorse dal centro alle periferie, a volte ai servizi stessi (come accade, per la scuola, con l’autonomia scolastica).
Il federalismo fiscale, entrato in vigore a partire dal 2009 con la L.42 e i successivi decreti attuativi, ha dato un’ ulteriore accelerata a questi processi, ma è entrato in scena andando a braccetto con una gravissima crisi economica da cui ancora non si viene fuori a livello europeo.
Indubbiamente, efficientare la spesa è apparso e appare a tutti un obiettivo condivisibile e chiaro, altamente auspicabile, a cui ognuno avrebbe dovuto e dovrebbe dare il proprio contributo: vero, se il processo non fosse stato viziato però ab origine da alcune narrazioni, anzi vere e proprie gabbie ideologiche che hanno rivestito il cambiamento e ne hanno condizionato la lettura e le direzioni.
Il primo vizio, l’ affermazione progressiva del modello anglosassone di riduzione dell’intervento pubblico. Una vena antistatalista ha accompagnato molte delle riforme degli ultimi venti anni ( si pensi alle leggi Brunetta) e condito i processi con una sorta di “revanchismo” del pensiero liberale e liberista: l’idea che i cittadini dovessero rinunciare al pubblico o che dovessero essere messi in condizione di essere liberi di scegliere tra pubblico (il pubblico inefficiente e costoso) e privato, il mantra che bisognasse dare maggiore spazio a competizione, meritocrazia e concorrenza ha attraversato in questi anni il discorso politico in maniera bipartisan, al punto da consentire senza soluzioni di continuità il disinvestimento e il taglio alla spesa proprio nei settori nevralgici dell’istruzione e della sanità.
Il secondo vizio ideologico pesante che ha inciso sui processi coincide con l’affermazione, a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, del disegno di matrice leghista di territorializzazione delle risorse in funzione anti-mezzogiorno. La messa in discussione dell’unità dello Stato e dell’universalità dei diritti ha un momento di origine nella battaglia condotta dal nord “ricco ed efficiente” contro la zavorra di un sud che avrebbe dotazioni di servizi peggiori a causa degli sprechi e delle cattive gestioni. Questa narrazione anti-meridionale è stata tanto potente quanto falsata nei numeri e nei fatti dal difetto macroscopico di non tenere conto in alcun modo della diversa capacità fiscale dei singoli territori: come ignorare che le dotazioni di spesa e capitale delle regioni meridionali siano in realtà sempre state piu basse e non solo a causa dell’evasione fiscale (che ha indici omogenei da nord a sud) ma dalle capacità reddituali che dividono il PiL della Lombardia da quello della Calabria? Se per un bambino meridionale la spesa media pro capite, secondo i dati Istat del 2016, è di 19 euro contro i 2450 di un bambino di Trento, ha senso parlare di un sud sprecone e di un nord dissanguato? E se a seguito dei patti di stabilità, del pareggio di bilancio e dell’introduzione dell’armonizzazione contabile, trecento Comuni sono andati in dissesto o predissesto e, guarda caso, la maggior parte di essi si colloca al di sotto della linea gotica, non era forse necessario interrogarsi su quel che stava avvenendo?
Arriviamo a dare una lettura scevra di ideologismi della Riforma del titolo V della costituzione, punto di inizio di quello che sta accadendo oggi. L’articolo 116, quello del terzo comma a cui oggi si vuole dare seguito, prevede la possibilità di attribuire “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” concernenti le materie di legislazioni esclusiva dello stato (in particolare giustizia, norme generali dell’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali) su iniziativa delle regioni interessate, e sulla base di intese tra queste e lo Stato da approvare in sede parlamentare; ma esso non può essere letto a prescindere dall’articolo 119 che lo segue di lì a poco: quest’ultimo prevede infatti che lo Stato istituisca un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale, che tali risorse debbano consentire di finanziare “integralmente” le funzioni pubbliche attribuite agli enti territoriali così messi, e che per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, “lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”. In altri termini esso prescrive che lo Stato abbia l’obbligo di favorire la perequazione delle risorse, indipendentemente dall’autonomia finanziaria di entrata e spesa assegnata agli enti locali. In più, ai sensi dell’ articolo 117, quello che distingue tra competenze concorrenti ed esclusive distribuite tra Stato e Regioni, spetta allo Stato in modo inderogabile la determinazione dei “livelli essenziali delle prestazione concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. E sia chiaro, quando si parla di livelli essenziali, non si intende “uniformi”, ma perlomeno minimi.
Fa bene Marco Esposito, nella sua lettura dei processi perversi avviati dal federalismo fiscale[1], a parlare di “fantasma” dei LEP: dove sono infatti quei livelli essenziali senza i quali nessuna garanzia di uguaglianza (almeno di base) può essere assicurata a chi nasce e vive nei territori piu poveri del paese, con minore capacità fiscale?
Come dimostrano i risultati dell’applicazione negli ultimi 10 anni del federalismo fiscale (a partire dai governi Berlusconi- Monti per arrivare a Renzi-Gentiloni) , non solo i LEP non si sono visti ne’ rispettati, ma essi sono stati anche di volta in volta sostituiti da altri discutibili criteri di riparto delle risorse statali che hanno penalizzato sempre e solo i servizi delle regioni più povere: esempio eclatante il riparto dei fondi per i nidi sulla base della spesa storica o dei fabbisogni standard, calcolati secondo il surreale principio: “diamo più soldi a chi ne ha di più, meno a chi ne ha di meno perché vuol dire che non gli servono!”
Negli atti delle commissioni tecniche e parlamentari che in questi anni si sono occupati di questi aspetti, brillano per assenza i rappresentanti politici del meridione e per cinismo i tecnici e i rappresentanti politici del centro-nord. Un esempio tra tutti, tratto ancora una volta dall’illuminante inchiesta di Marco Esposito, l’affermazione, inquietante nel suo candore, della deputata Maria Angela Zanoni, senatrice piemontese, in sede di Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale (12 gennaio 2017): “Se una comunità non ha ritenuto in tutti questi anni di aver bisogno di alcune cose non è che possiamo obbligarli ad averle solo perché vogliamo un meccanismo equo su tutto il territorio!” (1)
Le “cose” di cui parla la senatrice sono i nidi, i servizi ai disabili, i trasporti, la mensa scolastica? No, da non crederci. Ma è così, purtroppo.
La verità è che se con il federalismo fiscale (e senza i LEP) si volevano spostare risorse dagli sprechi presunti delle cattive amministrazioni inefficienti del sud a quelle virtuose ed efficienti del nord, semmai per ridurre la pressione fiscale, ci si è accorti che i livelli di spesa del sud erano talmente più bassi che la redistribuzione, perequativa, non poteva che avere l’effetto opposto. Il sud non era tanto a debito, ma in credito.
C’è un momento in cui certe narrazioni si mostrano per quello che sono, favole (ci auguriamo che accada presto anche per quella oggi imperante sull’invasione dei migranti): è apparsa una favola che il sud facesse il “sacco del nord” , per usare l’ espressione resa celebre da Luca Ricolfi, il sociologo torinese, che , tanto per aneddotica, è coniuge della professoressa Paola Mastrocola, un’altra che sul diritto alla disuguaglianza meritocratica dei ricchi e dei bravi si è sempre spesa, contro quel disgraziato di Don Milani, colpevole di lesa élite intellettuale.
Una favola che al sud si sprecasse facendo pagare i servizi più cari che al nord, perché non è così. Una favola che di nidi e di mense non ci sia bisogno, ovviamente, tanto più che per i servizi all’infanzia ci siamo impegnati in Europa a raggiungere una copertura entro il 2020 del 33 per cento, e appare ingenuo immaginare di continuare a farlo distribuendo risorse per mantenerne il 5 per cento al sud e il sessanta per cento al nord.
E allora sopraggiunge un dubbio: ma vuoi vedere che l’autonomia rinforzata sia la “soluzione finale”, di cui il federalismo fiscale è stato un passaggio intermedio, ma insoddisfacente ad accontentare egoismi come quelli che alimentano la richiesta del Veneto di trattenere il residuo fiscale tutto per se’?
Eh sì, perché del “fondo perequativo” previsto dalla Costituzione, che sinora non si è mai messo in campo sul serio, non si potrà non accorgersi in eterno. E non si potrà fingere in eterno che non sia scritto nella Carta che si debbono “finanziare integralmente” le funzioni pubbliche attribuite ai territori con minori capacità fiscale per abitante.
L’indagine conoscitiva sull’iniziativa delle tre regioni, deliberata dalla Commissione paritetica parlamentare per gli affari regionali nel novembre del 2017, ha partorito nel febbraio del 2018 un documento conclusivo che andrebbe integralmente letto[2]. Gli studiosi consultati, professor D’Atena e Mangiameli, pur tradendo un sostanziale pregiudizio di natura paternalistica quando interpretano la disposizione costituzionale (il terzo comma dell’articolo116) come “un modo per spingere le altre Regioni ad assumere comportamenti più virtuosi e a seguire le miglior pratiche” (!) , non possono nascondere i rischi dell’asimmetria che l’autonomia differenziata metterà in moto, rischi ed incognite sulla finanza pubblica, sui limiti e le modalità di trasferimento delle risorse, sulla gravità degli squilibri che inizialmente si creeranno tra le Regioni, per rimediare ai quali diventano indispensabili i LEP (che non ci sono). Essi non nascondono la preoccupazione che si possa “formare un blocco territoriale del nord” che lo Stato dovrebbe poi essere in grado di governare, assicurando “un contesto unitario, migliorando e intensificando gli interventi di perequazione territoriale”. Ci crediamo? Abbiamo esperienza di questa capacità e volontà? Nella stessa indagine il professor Bertolissi in rappresentanza della Regione Veneto, ha candidamente rilevato che le richieste del Veneto di trattenere nove decimi della propria fiscalità sono intese ad estendere un sistema già esistente in alcune regioni (quelle a statuto speciale) e che non vi si può obiettare “semplicemente l’insostenibilità per la Repubblica”. Ci vuole una fiscalità autonoma, secondo Bertolissi, “senza la quale non c’è responsabilità “: ed ecco che torna in auge il pregiudizio di un Sud incapace e irresponsabile.
Andiamocene prima che sia troppo tardi, sembra aver pensato qualcuno. Approfittiamo del ventre molle di una parte del Paese che, seppur palesemente danneggiato e in diversi modi e contesti, non fa sentire la sua voce tramite i propri parlamentari, ministri, sottosegretari, E andiamocene anche perché ci sono settori, come l’istruzione, in cui abbiamo campo libero a costruire la nostra Italia, con i nostri valori, i nostri curricoli, il nostro ” valore aggiunto”, le nostre vocazioni, e, perché no, i nostri insegnanti, che possiamo pagare meglio perché ce li assumiamo qui, purché facciano quello che diciamo noi, che vogliamo noi…..consentendo finalmente a genitori “liberi di scegliere” di ordinare privatizzazioni e – perché no – crocifissi e vocazioni identitarie al posto dell’uguaglianza, dell’intercultura e dell’umanesimo.
Nelle conclusioni dell’indagine conoscitiva sopra citata, l’affermazione si fa esplicita: “tenuto conto delle ampie differenze in termini sociali, economici e demografici che si riscontrano tra i territori, una più forte regionalizzazione può favorire un’allocazione più efficiente delle risorse anche attraverso un’offerta di beni e servizi pubblici più conforme alle esigenze e preferenze del territorio”. Si punta ad una scuola pubblica più “conforme” (o conformista) rispetto alle preferenze del territorio, privando lo Stato del diritto di esercitare la propria competenza ordinamentale in un ambito cosi nevralgico?
Ora, non bisogna essere giusperiti per capire che la “libertà di insegnamento” è tanto più garantita quanto maggiore è la distanza tra chi insegna e il suo datore di lavoro, che nel caso dei docenti della scuola pubblica, fino a questo momento, è la Repubblica italiana.
La sostanziale unicità dei curricoli scolastici, della formazione e preparazione degli insegnanti, l’unitarietà e centralità della scuola andrebbero condivisi, esaltati e difesi sotto tutti i punti di vista e con tutti i mezzi sia finanziari che culturali e professionali, perché la scuola costituisce la spina dorsale del Paese, come ha giustamente osservato Alberto Asor Rosa di recente sulle pagine di un noto quotidiano nazionale.[3]
Ormai siamo al count down finale: dopo le proposte avanzate dalle tre Regioni, il ministro Erika Stefani (della Lega) sta lavorando alla proposta dello Stato attesa per il 15 febbraio e lo sta facendo insieme ai ministeri implicati; e il Ministro dell’istruzione Bussetti, lombardo, ha dichiarato entusiasta: ” C‘è ancora da lavorare, ma noi siamo già a buon punto. Abbiamo lavorato in maniera fattiva soprattutto con grande intesa e collaborazione con il ministro Erika Stefani, quindi stiamo andando avanti come Ministero, forse tra tutti i ministeri siamo quelli che siamo più a buon punto”. (Fonte: Orizzonte scuola).
Dividersi, permettendo che sotto il cappello dell’efficientismo delle Regioni cosiddette virtuose passino altre prospettive e punti di vista (mostruosi) come il culto delle identità e delle vocazioni, gli egoismi nella creazione di relazioni internazionali e nazionali con le imprese, la sollecitazione competitiva che già nella scuola ha fatto tanti danni, non è solo un gravissimo errore, è il capovolgimento dello spirito della Carta costituzionale, che all’articolo 33 istituisce scuole di ogni ordine e grado perché tutti i cittadini , indipendentemente dalle condizioni di partenza, siano messi in condizioni di realizzare l’uguaglianza attraverso pari opportunità culturali e formative.
La scuola pubblica statale deve avere il coraggio di muoversi oggi, di dire la propria sui processi in atto al fianco delle amministrazioni locali, e al fianco di quei vituperati intellettuali che presaghi dei rischi che stiamo correndo, si sono mossi anzi tempo a denunciare le nefaste conseguenze della “secessione dei ricchi”[4]
[1] M.Esposito, Zero al sud, la storia incredibile (e vera) dell’attuazione perversa del federalismo fiscale, ed Rubbettino, 2018
[2] È facilmente reperibile in rete negli atti e documenti della Camera dei deputati, XVII legislatura.
[3] A.Asor Rosa, Chi minaccia l’unità della scuola, La Repubblica, 2 novembre 2018
[4] La felice definizione è di Gianfranco Viesti, autore di un libello con questo titolo e di numerosi saggi e articoli sull’argomento, promotore di una petizione su www.chamge.org
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