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diretto da Romano Luperini

 

 Pubblichiamo la seconda parte della nostra analisi a più voci del nuovo orale dell’Esame di Stato. Qui la prima parte.

ALBERTO BERTINO – LA BUSTA STRAPPATA 

Una strana curiosità pervade la commissione al momento dell’apertura della busta, quasi ci si aspettasse una sorpresa, come se non si fosse in precedenza discusso su cosa fosse più opportuno inserire e cosa, suggerito da un beninformato amichevole sussurro, fosse meglio evitare. Eppure, si sta in attesa, mentre la mano spesso tremante estrae la sorte. E al sollievo dei commissari, che si confortano nel riconoscere quanto hanno selezionato, a volte non corrisponde lo stato d’animo dell’esaminando. A volte smarrimento, a volte sbalordimento (Perché proprio a me?) suscita quel foglio stretto tra le dita. E subito s’innesca il conforto “con atti e con parole”, e il Presidente e il commissario “studiasi fargli core”. A volte invano. Si cercano strane vie che consentano incespicanti passi sul cammino delle relazioni. Si stabiliscono evoluzioni funamboliche, si prega infine lo sventurato di dire qualcosa, di dimostrare che questo è il migliore degli esami possibili. Invece è l’unico esame reale. Non ne abbiamo un altro da far sostenere a questi giovani, che per un cieco destino hanno frequentato il quinto liceo nell’a.s. 2018-2019.

Ma, a volte, invece, il viso s’illumina di soddisfazione e con sicurezza s’intraprende un discorso che sciorina le tappe di un percorso collaudato. I ragazzi più sicuri s’impadroniscono di un tema o di una parola che brandiscono di fronte alla commissione. Fanno del loro meglio. Fanno quello che sono stati addestrati a fare negli ultimi mesi. Sono davanti a me a cercare approvazione incondizionata. E io non riesco ad approvare incondizionatamente che si metta insieme, nel tema del “viaggio”, il turismo e la crociera con Primo Levi di Se questo è un uomo. Non riesco a non pensare che cosa sia l’istruzione, la scuola, se guardate dal punto di vista di quest’atto finale. Quale sia la funzione sociale di questa nostra scuola me lo chiedo spesso. Ma quando abbozzo un ragionamento e sulla scorta di alcuni elementi configuro la possibilità di descrivere un problema e vedo la scintilla della curiosità accendersi in quei giovani occhi che mi guardano, capisco che il mio lavoro ha un senso. Anche queste buste possono essere un’opportunità se gli insegnanti vorranno identificarle come tale. Ma questo è un altro discorso. Impellente, necessario, che affronteremo in seguito. L’orale così come si è sviluppato davanti a me è la somma di tanti discorsi in buona sostanza scollati come in buona sostanza scollate sono le materie che si svolgono in una teoria di ore, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. In questo tempo uniforme e frammentato è certamente difficile recuperare le coordinate di senso della cultura: se si considera grandi navigatori quelli abituati al piccolo cabotaggio (e dico degli insegnanti, non degli studenti) sarà quantomeno imprudente lasciarli andare in mare aperto ad affrontare l’oceano.

 

E anche gli studenti, ormai divenuti legalmente cittadini, responsabili di sé di fronte alla legge, hanno le loro responsabilità. Sono responsabili di sé? Ne sono certissimo, a volte. Altre, meno. Devo ammettere il mio sconcerto di fronte all’assoluta indifferenza di questi giovani nei confronti della storia. Non sto parlando di errori spaventevoli, che pure ho ascoltato, mentre i miei colleghi di commissione ne minimizzavano la portata, perché non sarebbe opportuno che l’aneddotica avesse la meglio sulla riflessione. Quello di cui sto parlando è la certezza che ho potuto avere in questi esami – più che negli altri di tanti anni passati, fin da quando erano effettivamente “di maturità” – dell’assoluta assenza della profondità storica nei giovani esaminandi. In tanti anni errori ne ho sentiti tantissimi, ma oggi risulta evidente l’indifferenza di fronte all’errore. Dirò meglio: l’incredulità. Quando ho corretto e ho motivato la correzione lo sguardo che ho incontrato era quello di chi non poteva credere che io dessi davvero importanza ad una cosa tanto insignificante. E questo finora non mi era mai accaduto.

Credo che la storia sia l’unico elemento trasversale e interno alle materie che può dare senso ai percorsi tematici interdisciplinari o pluridisciplinari. Lasciare i temi senza storia è fingere cultura. Perciò la storia deve essere protetta dagli adulti (come la lingua, come la letteratura, la scienza, certo), dagli insegnanti tutti, che devono pretendere la responsabilità della memoria nei giovani. So bene che anche questa è una vecchia storia, se Foscolo esortava gli italiani…

Tuttavia, mi preoccupa il futuro prossimo venturo di questo inquietante presente, vissuto da individui senza passato.

Alberto Bertino, Commissario esterno di italiano e storia in un Liceo Economico Sociale Statale, Catania 

CLAUDIA CORREGGI – FENOMENOLOGIA DELL’ESAME (O DELL’INDOVARSI)

Ogni volta che si partecipa agli esami si fa esperienza, è vero; si accetta infatti di far parte di un microcosmo transitorio destinato a governare, attraverso rituali prevalentemente burocratici, la vita sociale. Dalla modernità secolarizzata, all’ipermodernità contemporanea, nulla è cambiato: durante gli esami, le elezioni, il censimento etc. si sperimenta «un servizio comune, un servizio razionale, laico», come chiosa Amerigo, lo scrutatore calviniano. E ogni rituale necessita di sacerdoti. Quest’anno l’investitura non è casuale, almeno per i presidenti di commissione, che deliberatamente si sono candidati a sovraintendere al cerimoniale, iscrivendosi agli elenchi regionali previsti dall’art. 16, comma 5, del D. lgs. 62/17. La modalità inedita ha previsto una formazione articolata, che avrebbe dovuto dissipare dubbi e incertezze e – soprattutto – garantire un’applicazione uniforme della normativa, pubblicata in corso d’anno a ritmo sostenuto. Tuttavia l’esperienza sul campo, l’ammissione nel microcosmo, ha rivelato fin da subito che ci vorrà un po’ di tempo perché il meccanismo complessivo del nuovo esame vada a regime in modo condiviso. Se ci si sofferma per esempio su uno dei punti cruciali del colloquio, la predisposizione dei materiali nelle buste, la lettura dell’art. 19 dell’O.M. 205/2019 dipana con inequivocabile chiarezza la materia, specificando che il candidato, seppur opportunamente guidato, si troverà a confrontarsi con una situazione non nota, perché non conosce preventivamente il contenuto della busta, che, forse vale la pena di ribadirlo, deve essere assolutamente attinente ai contenuti inseriti nei documenti del 15 maggio. L’imprevedibilità introdotta dalla scelta della busta si configura come il dispositivo in grado di innescare un percorso attraverso le discipline costruito gradualmente, senza nessun intento punitivo, tuttavia un sondaggio anche ristretto, diciamo di caratura intermedia tra la famiglia allargata e il gruppo di amici e conoscenti, rivela immediatamente fantasiose – e arbitrarie – interpretazioni del sintagma non noto. Alcune commissioni infatti hanno ratificato la decisione di escludere dai documenti per l’avvio del colloquio tutto ciò che lo studente ha usato come materiale di studio. É una scelta incoerente con l’assetto complessivo dell’esame, volta a creare disparità nella conduzione del colloquio, e di conseguenza nelle valutazioni, con esiti di non poco conto, per esempio, riguardo ai test di ammissione alle facoltà universitarie. Si auspica per il futuro una maggiore uniformità, pur nella consapevolezza della grande varietà della scuola superiore di secondo grado, un universo multiforme che il laboratorio di partecipazione sociale che è l’esame,  – Amerigo dixit –  consente di attraversare. Ogni anno, è vero, si fa esperienza di un contesto diverso. Ci si può addentrare in regioni contigue, già note, di cui si conoscono perfettamente   morfologia, clima, usi e costumi, oppure ci viene richiesto di inoltrarci in zone meno familiari, esotiche,  dove si parla una lingua diversa, un lessico iperspecialistico che si acquisisce a poco a poco, settimana dopo settimana, dove la realtà del lavoro non è confinata nel percorso PCTO, ma affianca la frequenza scolastica già dal biennio e ne costituisce, per la maggioranza degli studenti, il destino. Non è un caso quindi che le discipline d’indirizzo siano quelle studiate con passione maggiore: padroneggiarle apre le porte alla professione e consente gratificazioni motivanti. Le altre, in particolare quelle di ambito umanistico, sono relegate a un ruolo marginale, non certo per il monte ore, né per il lavoro dei docenti, ma per l’interesse che le stesse (non) accendono, per la distanza che le allontana dal vissuto. Così non si può non concordare con la constatazione, già rilevata in un liceo da chi mi ha preceduto, dell’indifferenza nei confronti della storia e della mancanza di profondità temporale. C’è un dato linguistico che conferma l’attitudine degli studenti, ma non solo, a sostituire l’astrazione temporale con la concretezza della dimensione spaziale e la conseguente collocazione degli eventi non in un punto del tempo, ma dello spazio: la scomparsa nei testi scritti e nel parlato dell’avverbio e congiunzione di tempo quando, detronizzato da almeno un decennio dall’avverbio e congiunzione di luogo dove, usato a sproposito per indicare periodizzazioni – la fine dell’Ottocento, dove si diffonde il Decadentismo, la Prima guerra mondiale, dove l’Italia era schierata con la Francia etc. – . Il dato, enfatizzato dalla rilevazione statistica offerta dall’esame, conferma una tendenza diffusa che prescinde dall’indirizzo scolastico, trasversale che meriterebbe riflessioni più approfondite.La trasversalità riguarda un’altra considerazione che attiene alla comparsa di una nuova tipologia di studente. Sono stati sufficienti pochi giorni nel microcosmo del nuovo esame per accorgersi che, grazie all’abolizione della terza prova e al maggiore rilievo assegnato al credito scolastico, si sta diffondendo un esemplare dotato di una competenza non contemplata tra quelle chiave, definibile come una considerevole faccia tosta, il quale, forte di un punteggio tra valutazioni delle prove scritte e credito oscillante tra 55 e 59 punti, esperto compulsatore delle griglie (delle quali ha registrato l’assenza dello zero) più che rielaboratore di conoscenze, risulta in grado di sostenere le varie fasi del rituale sorridendo serenamente, per lo più in silenzio, esclusi i dieci minuti dedicati all’avvincente resoconto del PCTO, e i cinque occupati nell’esporre i ‘sogni nel cassetto’, e di uscire rinfrancato dalla porta dell’aula, rivolto verso l’infinito e oltre, il futuro, dove il ricordo dell’esame si unirà alla memoria di una battaglia vinta con il freddo calcolo, senza spargimento di sangue.

Claudia Correggi, Presidente di commissione in un Istituto Professionale Alberghiero Statale della provincia di Reggio Emilia

STEFANO ROSSETTI – CONCLUSIONI

 

Con tutto il rispetto e la serietà che le riflessioni delle colleghe e dei colleghi impegnati in questo diario di bordo meritano, proverò a trarre alcune conclusioni.

Pirandelliane, ma solo nella forma: perché se è vero che non concludono, potrebbero però restituire in forma generale alcune idee ed emozioni che mi sembra circolino nei contributi precedenti.

Per questo, indicherò alcuni punti di “crisi” di questo nuovo colloquio; quelli che – come in ogni crisi – aprono prospettive nuove e felici, talvolta, e altre volte invece ci precipitano in situazioni complicate o dolorose.

Il primo risiede nella definizione degli elementi che ci consentano una misurazione della prestazione cui assistiamo in ciascun colloquio, altrimenti detta “griglia”.

Come organizzarla? Con quanti e quali indicatori? Quale peso specifico assegnare a ciascuno di essi?

Usciti dal vivo dell’esperienza, e per farne tesoro, sarebbe bello raccogliere diverse griglie e confrontarle. Nella mia Commissione, per esempio, abbiamo ripreso e adattato una proposta di Mario Castoldi, elaborata in stretta collaborazione con gli ispettori dell’USR Piemonte: pochi indicatori, nessun riferimento alle conoscenze pure e semplici, la richiesta di uno sguardo globale (non disciplinare, non settoriale) sull’esito del colloquio.

Insomma, una “griglia per competenze”, con tanto di descrittori in stile rubrica, secondo noi.

Ma è così? Ecco, sarebbe interessante che parecchi di noi la considerassero con sguardo critico. A me sembra infatti che, nella lettera dell’Ordinanza Ministeriale e nel suo spirito, circoli un uso del termine “competenze” che si presta ancora a letture molteplici e in certa misura contraddittorie.

Il secondo elemento di crisi, infatti, risiede nel rapporto fra “competenze” e “conoscenze”, ed ha molto a che fare con la giusta sottolineatura critica del progressivo inserimento nel dialogo di tutti i docenti, per tutte le materie in cui hanno titolo (anche fatti salvi gli stratagemmi, del genere, “si può anche intervenire soltanto durante l’esposizione del PCTO, o financo nella correzione delle prove scritte).

In soldoni, quest’aspetto della norma si può tradurre in micro-interrogazioni se possibile ancora più confuse di quelle del “vecchio” colloquio, perché intervengono – nella migliore delle ipotesi – su un percorso logico dello studente che prevederebbe magari ulteriori approfondimenti critici personali, ma non risponderebbe al dettato normativo. Quindi, supponendo che un candidato capace sviluppi un discorso intelligente per 15 minuti, bisognerà interromperlo per riportarlo sul territorio delle discipline fino ad allora ignorate (e che, magari, ignorerebbe proprio, se gli consentissimo di sviluppare a pieno la sua strategia discorsiva).

Su questa realtà dovremmo riflettere.

Un esempio apparentemente paradossale: un buon candidato della mia Commissione aveva già dato prova di buone competenze di “storicizzazione” ed “attualizzazione”, parlando di economia politica e di diritto. Tuttavia, la commissaria di Storia lo ha interrotto, proponendo una domanda nemmeno troppo nozionistica, alla quale è stata data una risposta abbastanza imbarazzante.

Questo significa che lo studente non era competente in Storia?

Non so se e come si possa risolvere il problema, ma certo dovrebbe essere più chiaro lo statuto delle discipline all’interno del colloquio, e in fase di valutazione. In parte, credo, si potrebbe ovviare al problema attraverso una drastica riduzione dei contenuti dei programmi d’esame, in  modo da riportare l’equilibrio fra quantità (memorizzazione delle nozioni) e qualità (capacità di recuperare ed usare le nozioni in contesti nuovi) entro limiti gestibili anche da chi non sia un genio. Ma i programmi d’esame, a quanto vedo, continuano ad essere elefantiaci.

 Al rapporto fra conoscenze e competenze si riallaccia anche il tema della pluridisciplinarità, terzo e penultimo elemento di crisi sul quale vorrei soffermarmi: la parola magica dell’esame in corso è infatti collegare. In particolare, la predisposizione del materiale di avvio del colloquio deve garantirne la natura pluridisciplinare.

Questo era previsto già in passato, e viene ribadito con assoluta fermezza.

Ma i collegamenti ai quali stiamo assistendo, e sui quali comincia già a circolare un’aneddotica derisoria e rassegnata – secondo gli stereotipi caratteristici delle storie di scuola – seguono in gran parte dei casi  una logica di pura giustapposizione: il filo, per esempio, consente di partire da Storia (il filo spinato nella Grande Guerra), passare per Italiano (La casa dei doganieri), e poi agevolmente a Fisica (conducibilità del filo elettrico); dopo di che si spalanca l’universo mondo dell’area scientifica.

Un significante, nelle sue valenze reali e metaforiche, permette allo studente di muoversi in orizzontale, giustapponendo idee, problemi, testi e documenti, senza alcun riguardo per l’esistenza di un collegamento profondo, o di una qualche unitarietà fra essi.

Questa è, stando al dizionario Treccani che ho appena consultato, proprio la natura della pluridisciplinarità. Al contrario, un colloquio che mirasse a ritrovare, dietro e oltre le distanze disciplinari, un senso di unità del sapere, si chiamerebbe interdisciplinare.

Il legislatore era consapevole di questa differenza, quando ha pensato il nuovo colloquio? Ci ha suggerito di praticare collegamenti alla maniera di Baricco, facendo surfing ed evitando con cura lo spettro della profondità, che ancora si aggira per la scuola?

Dobbiamo provare a risolvere questo dubbio, perché i due modelli di colloquio cui ho accennato, uno ispirato a rapsodici e talvolta virtuosistici movimenti sul filo di un’intuizione, l’altro fondato su una faticosa ricerca di senso, non sono compatibili: sono due operazioni intellettuali completamente diverse e per certi aspetti opposte.

In particolare, mentre un colloquio in orizzontale si presta a rapide incursioni disciplinari (magari condotte anch’esse a partire da una sorta di marinismo intellettuale del docente), un colloquio in verticale richiede tempi diversi, e non  può sottostare all’obbligo che tutti intervengano, forzando l’inserimento di idee e discipline nel disegno personale che la/ il candidata/ o sta tracciando.

Appare evidente, inoltre, che la chiacchierata orizzontale può essere facilmente improvvisata, anche avendola provata poco, o per nulla; anzi, con questa struttura saranno spesso studenti superficiali ma estrosi a condurre il gioco dell’orale. Al contrario, studenti studiosi ma introversi e riflessivi, si troveranno a mal partito.

È questa la lezione di vita – come ha detto una commissaria con la quale sto lavorando – che gli studenti devono imparare? Le competenze sarebbero in gran parte improvvisazione ed estro momentaneo?

Mi sembra che questo tipo di colloquio ci metta di fronte ad una scelta di campo, che non può essere elusa né giocata sulla pelle degli studenti, come in parte inevitabilmente accade in questi giorni.

Se vogliamo costruire le condizioni perché si svolga un colloquio verticale, che la maggioranza degli studenti possa affrontare, dobbiamo lavorare nel corso degli anni. Dobbiamo mostrare che noi docenti crediamo all’incontro fra le discipline, Che quest’incontro è possibile e fruttuoso, a certe condizioni. Che lo possiamo praticare insieme agli studenti. Insomma, il centro è il,Consiglio di classe, la sua programmazione, la calibratura degli obiettivi disciplinari e di quelli trasversali.

Se sapremo bene perché stiamo mettendo un materiale nella busta, sapremo anche come e cosa scegliere. E, come noi, lo saprà chi la aprirà.

Sarà questo che intendono i pedagogisti, quando affermano (come era già avvenuto con la riforma Berlinguer) che il legislatore ha modificato la fine del percorso per costringere noi insegnanti a cambiare la nostra didattica?

Non ne sarei così sicuro.

L’ultimo fattore di crisi  è il tempo.

Il nuovo colloquio ha infatti mandato all’aria un ordine mentale ed organizzativo consolidato, nel quale la ripartizione dei tempi (argomento a scelta, colloquio pluridisciplinare, discussione delle prove scritte) occupava una posizione centrale. Siamo invece alla ricerca di nuovi equilibri, e le indicazioni normative (sulla durata delle parti, sulla loro successione, sull’articolazione interna di ciascuna di esse) non sono chiarissime.

Non ho alcuna certezza al riguardo, ma due idee che mi tornano in mente in questi giorni mi sembrano qualcosa di più che impressioni.

La prima è che il tempo del colloquio andrebbe gestito con obiettività, ma anche con elasticità. In ogni caso, non si dovrebbe partire dal presupposto che siano i docenti a scandirlo. Nella mia piccola esperienza ( un ITC con indirizzo Finanza e Marketing), non sono stati pochi gli studenti che hanno intrecciato fasi che la normativa descrive come distinte: per esempio, affrontando temi legati a Cittadinanza e Costituzione nella prima parte del loro discorso, oppure riportando alla dimensione professionale (alternanza scuola/ lavoro) nozioni teoriche e scolastiche.

È serio essere costretti a rifare domande su questi ambiti a chi se l’è poste da solo, ed ha già risposto? Dobbiamo far partire la sigla musicale, perché si sappia che il colloquio è entrato in fase PCTO (l’inno nazionale, per Cittadinanza)?

La seconda – e più importante –è legata a tutti i punti sui quali ho riflettuto in precedenza:

in che modo la variabile tempo incide sull’impostazione che lo studente darà al suo discorso, sulla sua scelta di muoversi in orizzontale o in verticale?

Su questo ho le idee abbastanza chiare, e mi piacerebbe che ne discutessimo: per dare al discorso un taglio di approfondimento, cercando collegamenti significativi sui quali esprimere la propria sensibilità e la propria visione, occorre riflettere per un po’ di tempo. Quindi, non per 2 o 3 minuti, di fronte ai docenti, magari con qualcuno che per farti sentire a tuo agio ti dice di fare con calma, o che non c’è fretta, o “parti appena ti senti pronto”.

Se la velocità di produzione delle idee è il parametro fondamentale con il quale misurarsi, non ne potrà che sortire un colloquio orizzontale.

Naturalmente, con l’eccezione delle eccellenze. Ma non è su di esse che si misura la bontà di una legge o di una pratica didattica.

Parcellizzazione/ unitarietà, conoscenze/ competenze, superficie/ profondità, velocità/ lentezza: il confronto sul nuovo colloquio ci spinge a riflettere su queste coppie concettuali, così importanti per comprendere la realtà della scuola di oggi, nella società di oggi.

Stefano Rossetti, Presidente di commissione in un ITC (Finanza e Marketing) Statale, Torino 

 

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