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Il mestiere del traduttore/ 5. Alberto Cristofori: Tradurre è impegno civile

Poco più di duecento anni fa, nel gennaio del 1816, viene pubblicato sul primo numero di una rivista letteraria milanese un breve scritto dal titolo invero poco accattivante: Sulla maniera e la utilità delle traduzioni. L’autrice, una nobildonna franco-svizzera il cui nome, se non fosse per quelle poche paginette, oggi sarebbe ricordato solo dagli eruditi, in buona sostanza rimprovera ai colleghi italiani di tradurre troppi classici latini e greci, e di trascurare gli autori contemporanei.

Come è noto, quell’articolo innesca una delle polemiche più arroventate e decisive dell’Ottocento, tale da coinvolgere tutto il mondo culturale italiano e da segnare la nascita della modernità letteraria nel nostro paese. Polemica, è noto anche questo, carica di valenze civili e politiche: e non tanto perché classicista e filo-austriaco, romantico e liberale, al di là delle eccezioni e dei distinguo e delle sfumature e delle esagerazioni, vengano di fatto a coincidere. I manuali scolastici spesso dimenticano di sottolineare che la maggior parte degli intellettuali italiani, in verità, non aveva bisogno di traduzioni per conoscere le letterature europee, giacché leggeva correntemente il francese, lingua in cui gli autori più importanti venivano già tradotti. No. Le traduzioni servivano al “popolo” a cui i romantici intendevano rivolgersi, e proprio per questo assumevano un’importanza politica, nel senso più nobile del termine: contribuivano, scusate se è poco, a una prima, timida democratizzazione della cultura.

Un’altra storia, più recente, conferma che l’“umile” lavoro del traduttore continua a essere gravido di ideologia. Negli anni Trenta del Novecento, a fronte della strombazzata autarchia culturale dell’Italia fascista, la generazione di Pavese e Vittorini (e Fenoglio, e Bianciardi, e Pintor, e Ginzburg, e tanti altri) conduce la sua battaglia innanzitutto con le traduzioni – scegliere di tradurre Moby Dick, nel 1932, è da parte del giovanissimo Pavese una sfida al regime (che lo ripagherà alla prima occasione); ancora di più, nel 1941, pubblicare da parte di Vittorini un’antologia degli odiati (da Mussolini e complici) scrittori americani.

Gli esempi potrebbero continuare. Ma, si dirà, oggi questi problemi non si pongono: in Italia, quanto meno, si traducono migliaia di titoli all’anno, da tutte le lingue del mondo e di tutti gli indirizzi ideologici, e nessuno dei nostri pur disastrati governi è in grado di imporre o vietare autori o titoli, almeno per ora – perché dunque insistere su questo tema? Dove sta l’impegno civile, la politica, nel tuo lavoro quotidiano di traduttore?

 

Provo a condividere qualche riflessione.

Tradurre è parte del mio lavoro di intellettuale, e se interrogarsi sul senso del proprio lavoro è indispensabile per chiunque, dovrebbe esserlo in particolare per chi svolge una professione intellettuale. Altrimenti tradurre diventa un’operazione meccanica, un lavoro a cottimo – dieci pagine al giorno, dodici, quindici… È possibile anche questo. Ma la mia aspirazione è invece di collocare ogni aspetto della mia attività all’interno di un quadro più generale, che ne garantisca il senso e il valore.

È un imperativo morale, credo. Per ogni giornata che io posso trascorrere a limare un testo, a dialogare con un grande scrittore o con un grande filosofo, ad arrovellarmi su questioni teoriche o a scrivere come sto facendo ora, io so, e devo tenere presente, che ci sono nel mondo cinquanta persone, o settanta, o cento, che faticano per me, per darmi da mangiare, da vestire, da dormire, e che sono in molti casi private della possibilità di una vita intellettuale degna di questo nome. È per loro che devo avere coscienza di ciò che faccio e del suo significato.

La fondamentale responsabilità del traduttore, mi pare, sta innanzitutto nella scelta di cosa tradurre. Spesso, è vero, non si può scegliere, perché il bisogno preme, le rate del mutuo crescono e i figli mangiano come lupi. Non giudico. Spesso, tuttavia, la mia esperienza mi dice che scegliere si può: si può rifiutare un titolo senza compromettere il rapporto con l’editore, ci si può proporre per un lavoro, entro certi limiti. E ogni scelta ha un valore, rivela la presenza e la direzione di un progetto culturale.

Primo Levi che traduce Kafka, si licet, compie una scelta coerente con tutta la sua attività intellettuale, con tutto il suo percorso artistico e letterario: sia perché sceglie, lui sopravvissuto ad Auschwitz, un autore che ha quasi profeticamente descritto un universo concentrazionario, sia perché si costringe ad amare la lingua dei suoi assassini, con tutto ciò che questo rivela – il suo atteggiamento analitico, razionale, mai vendicativo…

Ettore Capriolo che traduce Rushdie compie anch’egli un gesto politico, mette in gioco se stesso per proporre al lettore italiano un autore che altrove è censurato, vietato, minacciato di morte – e infatti rischia lui stesso la vita (è stato accoltellato da un fanatico), come rischiavano e pativano il carcere i romantici dell’Ottocento e come rischiavano e pativano il confino gli americanisti degli anni Trenta.

Non voglio negare l’importanza delle questioni tecniche, ci mancherebbe: il lessico, la grammatica, il ritmo, l’enciclopedia… Ma si tratta appunto di questioni tecniche, di mestiere, che vanno collocate in prospettiva. C’è anche, naturalmente (a noi traduttori piace pensarlo), una componente artistica, il piacere della ricerca linguistica, musicale, l’imitazione di una voce eccetera. Ma io metterei al primo posto la funzione di servizio della traduzione, il cui primo obiettivo a me pare sia sempre di rendere accessibile il testo straniero al lettore italiano.

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Se oggi metto in fila i libri che ho tradotto, dal primo (I figli della violenza di Buñuel, pubblicato per la gloriosa Linea d’ombra di Goffredo Fofi più di trent’anni fa) all’ottantesimo e passa che ho appena consegnato all’editore (l’esordio narrativo di una trentenne americana), credo che un senso complessivo emerga abbastanza chiaro, al di là di qualche inevitabile sbandamento giovanile, di qualche dolorosa “marchetta” per pagare le tasse e la benzina.

Vado molto orgoglioso, per esempio, delle mie traduzioni (sempre più numerose) di autori invisi ai regimi autoritari. È quasi certo che negli ultimi dieci anni mi sia giocato il visto di ingresso in alcuni paesi: temo che non mi accoglierebbero a braccia aperte né in Pakistan, avendo tradotto Benazir Bhutto e il reclutatore di terroristi pentito Maajid Nawaz; né in Russia, avendo tradotto il povero Litvinenko e Masha Gessen, autrice di una biografia al vetriolo di Putin; né in Iran, avendo tradotto Mohsen Makhmalbaf, regista censuratissimo in patria, e Shirin Ebadi, avvocata per i diritti umani, premio Nobel per la pace, perseguitata e costretta all’esilio; né in Turchia, avendo tradotto Ahmet Altan, oppositore di Erdoğan ingiustamente incarcerato.

Quest’ultimo libro mi è particolarmente caro. Scritto in inglese, in carcere, è stato trafugato dalla Turchia dopo la condanna definitiva dell’autore, che vi racconta le circostanze del suo arresto, del processo e della detenzione. Di solito, traducendo autori viventi, si può dialogare con loro, chiedere spiegazioni tramite e-mail, risolvere dubbi insieme, a volte (è capitato) indicare piccole sviste e correggerle per i lettori italiani… In questo caso, ovviamente, tutto questo non è stato possibile – Altan è ancora vivo, ma era già irraggiungibile, al di là della barriera eretta per soffocare la sua voce – e io avevo la responsabilità di ridargliela, questa voce, di farla risuonare al di là delle sbarre e del cemento. Di liberarla, per quanto possibile.

Come si sarà capito, insomma, tradurre non è per me un’attività asettica, comporta sempre un impegno che è nello stesso tempo ideologico ed emotivo, di immedesimazione – e anche questo “uscire da sé”, questo mettersi nei panni e nelle parole e nella vita di un altro, non vorrei apparire sentimentale o peggio, ma mi sembra che abbia grande importanza, soprattutto in periodi come questo.

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E concludo, quindi, ricordando uno dei grandi libri che ho avuto la fortuna di tradurre, Preparativi per la prossima vita di Atticus Lish. La storia ha due protagonisti, un veterano dell’Iraq, tornato dalla guerra con turbe psichiche, e una giovane clandestina cinese, terrorizzata dalla polizia ed emarginata dai suoi connazionali perché di etnia uigura. I due, esclusi tra gli esclusi, si incontrano a New York, tentano di amarsi, disperatamente, invano (ma forse no, forse, dice l’autore, non è mai invano che si tenta di amarci, noi poveri esseri umani…). Nell’ultimo capitolo, la ragazza, rimasta sola, fugge, a piedi, verso ovest, percorrendo una strada lunghissima, con i piedi insanguinati, decisa a ricominciare da qualche parte, in qualche modo, mentre il sole sorge lentamente alle sue spalle. Sono una trentina di pagine che ho tradotto senza tirare il fiato, dalla mattina a notte fonda, e a un certo momento mia moglie, esasperata, l’avevo salutata appena al suo rientro dall’ufficio, avevo ingozzato due bocconi di cena senza spiccicare parola, ero scomparso di nuovo al computer subito dopo il caffè, è venuta a dirmi che lei se ne andava a dormire, ma cosa mi aveva preso, potevo finire anche l’indomani, insomma, no? Ho fatto cenno di sì, buona notte, finisco e arrivo, sono andato avanti una mezz’ora, poi ho chiuso il file, completo, definitivo (la rilettura me l’ha confermato, due giorni dopo), mi sono asciugato gli occhi e sono andato a letto.

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