La mistica delle competenze e dell’interdisciplinarità sigillata dentro una trentina di buste. Le ultime novità sull’Esame di Stato
Superiamo lo sgomento, la rabbia, la sensazione di essere nuovamente presi in giro da un Ministero che lavora sempre nel solco dell’emergenza, facendo e disfacendo, soprattutto facendo male. Superiamo anche la voglia di ridurre tutto alla metafora troppo semplice della cultura ridotta a quiz televisivo.
Questa proposta di un colloquio orale che prende avvio dal sorteggio di una serie di domande preventivamente preparate dalla commissione ha una qualche ratio o è solo una farsa? Non è mai facile rispondere a quesiti del genere, perché il Miur non è un ente noto per trasparenza, linearità politico-amministrativa e capacità di programmazione. Sappiamo che la riforma dell’Esame di Stato non è una decisione presa dall’attuale Governo e dall’attuale ministro. Bussetti, però, ha introdotto delle novità, molte nate dalla voglia di frenare ma non smentire le intenzioni degli avversari politici che li hanno preceduti.
Non parlerò dell’aumento del carico di lavoro per i commissari, che dovranno predisporre n+2 tracce per l’orale (con n = numero degli studenti), né parlerò dell’inquietudine profonda che provoca in me questa volontà dello spirito dei nostri tempi di imporre ovunque forme, griglie, protocolli, standard, procedure, come se ci fosse psicologicamente intollerabile accettare l’idea che anche un esame finale – che certo ha una sua doverosa ufficialità e istituzionalità – possa prevedere umani spazi di informalità e imprevedibilità, senza domande preconfezionate, almeno in quel momento nel quale il candidato (cioè lo studente) e i commissari (cioè gli insegnanti) sono faccia e faccia e potrebbero appunto “colloquiare”. Parlerò solo di questo: questa tragicomica storia delle “buste” rivela con una chiarezza inconsueta con quali forme mentali superficiali, retoriche, insopportabili si concepisca il quotidiano e complicato lavoro in classe.
Oltre la metacognizione: il vaticinio profetico delle competenze future
Bisogna intendersi, innanzitutto: non facciamo come quelli che tirano il freno di emergenza quando il treno è già fermo in stazione. Non è certo con questo decreto che si impone un esame conclusivo orientato alle competenze e all’interdisciplinarità. Sono questioni ormai decennali. Anche buona parte dello svolgimento dell’esame era già nota almeno dal dl del 13 aprile 2017, n. 62 (art. 17, commi 9 e 10).
Come spesso capita in Italia, si procede per accumulo: le “vecchie” conoscenze non sono in effetti mandate in soffitta,i ma siccome bisogna essere assolutamente moderni, ad esse aggiungiamo alternanza scuola-lavoro, Cittadinanza e Costituzione, CLIL, con il rischio probabile di rendere sempre più caotico e insostenibile l’esame.ii
Non sfugga però questo passaggio del decreto della settimana scorsa: «Nella relazione e/o nell’elaborato [sull’alternanza scuola-lavoro, che è stato ribattezzato da Bussetti “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”], il candidato, oltre a illustrare natura e caratteristiche delle attività svolte e a correlarle alle competenze specifiche e trasversali acquisite, sviluppa una riflessione in un’ottica orientativa sulla significatività e sulla ricaduta di tali attività sulle opportunità di studio e/o di lavoro post-diploma».
La competenza è un concetto elastico e infinitamente manipolabile dal punto di vista ideologico e pratico: può intendersi come capacità di applicare conoscenze e procedure a un ambito non noto seppur ancora scolastico o disciplinare, ma può essere facilmente esteso, con una formula generica, all’esperienza di stage, che naturalmente dovrà essere collegata, avere una “ricaduta”, sulle future opportunità di studio e di lavoro post diploma. Siamo alla pura chiacchiera: secondo chi ha steso queste righe, lo studente dovrebbe essere in grado di valutare se quel che ha imparato gli servirà per un mestiere o per degli studi futuri intorno ai quali evidentemente egli ha solo idee vaghissime e confuse, mescolate a speranza, eccitazione, paura, curiosità. Oltre che la pura chiacchiera, siamo anche ben oltre la “metacognizione”: siamo al vaticinio profetico.
Il problema delle competenze nelle Satire di Orazio e Lucilio
Ma veniamo finalmente all’estrazione dei quesiti da parte degli studenti. Ho premesso che personalmente queste nuove modalità d’esame mi sembrano rivelare una ossessiva volontà di razionalizzazione e formalizzazione, ma la tirerei troppo per le lunghe. Perciò provo a mettermi nei panni del funzionario ministeriale. Forse che le prime due prove non vengono già dal Miur, e hanno perciò tutta la rigida formalità della cosa ufficiale? Forse che quando c’era la terza prova essa non doveva essere preparata in anticipo dalle commissioni? Dunque perché non rendere serio, ufficiale, proceduralmente chiaro, anche l’orale? Questo, forse, avranno pensato al Miur.
Ma che succederà il giorno del colloquio? E se lo studente non dovesse saper sviluppare un bel niente a partire da quei «testi, documenti, esperienze, progetti e problemi» che sortiranno dalla busta uno due o tre? Potremo fargli una domanda di riserva? O dovremo inchiodarlo alla Busta Fatale? A parte la rigidità che questo macchinoso sistema del sorteggio imporrà, è evidente che esso aggraverà, forse fino a farla esplodere – e questo potrebbe non essere un male – una contraddizione visibilissima ma mai a sufficienza denunciata, che è insita ab origine nella questione dell’apprendimento delle competenze.
(A scanso di equivoci sulla mia reazionarietà, gentilianismo, tradizionalismo, e chi più ne ha più ne metta: ho voluto io la pubblicazione di questo intervento sulle competenze di Gianni Marconato che è uscito il 31 dicembre sul nostro blog. Di competenze si può e deve parlare, ma seriamente).
Potrà mai un insegnante dire seriamente che lui è contro la capacità degli studenti di dimostrare di avere una cultura matura, profonda, organica, che vede i nessi tra le materie, ne supera i famosi “compartimenti stagni”, e sa usare quel che sa per fare ed essere qualcosa di meglio di quel che faceva ed era prima di entrare a scuola? La risposta va da sé. Dunque perché mi scaldo tanto? Proverò a spiegarlo, per dimostrare la mia competenza, con un collegamento interdisciplinare.
Criticando Lucilio, il poeta satirico che l’aveva preceduto nel genere, Orazio scriveva: «in un’ora, come fosse gran cosa, dettava sovente duecento versi, e reggendosi su un piede soltanto. Siccome scorreva fangoso, c’erano cose che avresti voluto levare; era ciarliero e insofferente della fatica di scrivere, di scrivere bene: perché del molto io non me ne curo» (Orazio, Satire, I 4). Orazio è uno scrittore classico, da labor limae, da fatica artigianale. Sa benissimo che per arrivare a scrivere cose serie e ben fatte ci va molto tempo: la qualità non si improvvisa.
Come si sviluppa una competenza (seria)
Pensare che si possano individuare una trentina di testi, documenti, problemi sui quali lo studente improvviserà, stando su un piede solo, un percorso che dimostri la sua competenza e capacità di collegamento interdisciplinare la dice lunga sul modo in cui intendono la competenza nelle stanze del ministero (e non solo loro, come si vedrà tra poco).
Per arrivare a ottenere una “prova di competenza” sulla poesia d’amore medievale, come su qualsiasi altro argomento, io ci metto due mesi e mezzo, forse tre. Lavoro per tutto quel tempo su quel solo tema: scavo, collego, analizzo; leggiamo, parafrasiamo, commentiamo, interpretiamo, colleghiamo, attualizziamo. Alla fine dei due mesi e mezzo, anche tre, posso rischiare: do un testo di Giacomo da Lentini, Guido Cavalcanti, Jaufré Rudel, Dante, che gli studenti non hanno mai visto, per vedere se sanno applicare ciò che hanno imparato in un contesto nuovo; oppure fornisco un dossier di testi sull’amore presi da studiosi della letteratura medievale, filosofi, scrittori, per vedere se mescolando quei testi con quelli letti in classe sapranno scrivere un testo originale. Qualcuno alla fine si dimostra competente, qualcun altro no. È normale, è umano.
La competenza si nutre di accumulo lento, rimuginio, riflessione; poi di piccole fughe in avanti, guidate, a esplorare terreni ignoti, poi di ritorno al noto; poi di molte incertezze e di molti fallimenti. La competenza non è un barone di Münchausen che si tiri fuori dalle sabbie mobili da solo agguantandosi il codino. Non è consapevole di sé, va e viene, c’è e non c’è, emerge in condizioni particolari e poi torna ad essere sommersa. È soggetta alle passioni, quindi a volte si incarta. È oscura e invisibile, mescolata al corpo e alla psiche; è intrecciata all’incompetenza.
Soprattutto, la competenza si sviluppa a partire da un contesto concreto – storico, radicato, umano –, perché ha bisogno di qualcosa di solido su cui esercitarsi. Quel qualcosa di solido sono sempre state le materie scolastiche, che hanno una storia, dei paradigmi, dei contenuti, delle pratiche. Se i paradigmi, i contenuti, le pratiche in parte non funzionano più, se ad esempio ci accorgiamo che la didattica della letteratura ha bisogno di essere rinnovata, è sempre dentro quel recinto disciplinare (e in sani colloqui con gli altri recinti) che troveremo le chiavi per agire.
L’araba fenice e le virtù taumaturgiche
Invece qualcuno – l’ha fatto l’Associazione nazionale presidi – riesce a salutare un esame come questo, sia pure al netto di doverose cautele verso alcune “criticità”, come «un cambiamento radicale che presuppone un diverso approccio didattico e culturale da parte delle scuole e che ANP considera ormai ineludibile. Apprezziamo la nuova visione, volta a superare la rigida e ormai antiquata impostazione delle discipline scolastiche, auspicando che si tratti di un effettivo preludio al complessivo rinnovamento della scuola tradizionale. Il nuovo esame rappresenta l’occasione per misurarsi con quella didattica per competenze verso la quale lo scenario educativo internazionale si orienta da molto tempo, utile ad affrontare un contesto sociale sempre più complesso» (il comunicato intero qui).iii
Le “competenze”, l'”interdisciplinarità” sono come l’araba fenice: che ci sian ciascun lo dice, ove sian nessun lo sa. Hanno peraltro la qualità tipica della magia e delle virtù taumaturgiche: basta evocarle, prescriverle per decreto, e loro compaiono. Stando su un piede solo.
i Si parla anzi di «favorire la trattazione dei nodi concettuali caratterizzanti le diverse discipline» (art. 2 comma 3 del decreto).
iiIl colloquio orale intende valutare «l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, la capacita’ di utilizzare le conoscenze acquisite e di collegarle per argomentare in maniera critica e personale anche utilizzando la lingua straniera in maniera critica e personale anche utilizzando la lingua straniera. Nell’ambito del colloquio il candidato espone, mediante una breve relazione e/o un elaborato multimediale, l’esperienza di alternanza scuola-lavoro svolta nel percorso di studi. […] Il colloquio accerta altresì le conoscenze e competenze maturate dal candidato nell’ambito delle attività relative a “Cittadinanza e Costituzione”»: (dl 13 aprile 2017).
iii Ringrazio il collega Rosario Paone per avermi segnalato questo comunicato.
{module Articoli correlati}
Articoli correlati
Nessun articolo correlato.
Comments (2)
Lascia un commento Annulla risposta
-
L’interpretazione e noi
-
Legami di Eshkol Nevo: un viaggio tra cuori affamati
-
Un monito per il presente: l’antimilitarismo di Francesco Misiano
-
Su Il popolo è immortale di Vasilij Grossman
-
Breve storia dell’amnesia
-
-
La scrittura e noi
-
Linda
-
Su “Il sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe Corlito
-
A proposito di L’Avversario di Emmanuel Carrère
-
“L’unico modo che abbiamo per non precipitare nel terrore”. Intervista a Edoardo Vitale
-
-
La scuola e noi
-
Dalle conoscenze, alle competenze, all’affettività: utopia o distopia di una professione?
-
Dante al Buonarroti. Fare esperienza del testo dantesco
-
Matteotti cento anni dopo, fra storia e didattica
-
Politica e cultura: i dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare. Verso una nuova stagione di lotte nella scuola?
-
-
Il presente e noi
-
Il convegno di LN: i laboratori/3. Leggere la poesia d’amore medievale nella secondaria di primo e di secondo grado
-
Il convegno di LN: i laboratori/2. Tra narrazione e argomentazione
-
Il convegno di LN: i laboratori/1. Oltre le ideologie del digitale
-
Il convegno di LN: le relazioni/3. La formazione docenti (di letteratura) iniziale e in itinere
-
Commenti recenti
- Giuseppe Muraca su Su “Il sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe CorlitoPer rimanere nel tema, Pisa è stato uno dei grandi centri del rinnovamento politico e…
- Roberto Bugliani su Su “Il sessantotto e noi” di Romano Luperini e Beppe CorlitoA mio avviso, un ulteriore elemento da valutare (che, basandomi almeno per il momento su…
- Ennio Abate su Su Il popolo è immortale di Vasilij GrossmanUn tema come quello dell’esperienza di “costruzione del socialismo in Urss” o dell'”esperimento profano” (Di…
- Eros Barone su Su Il popolo è immortale di Vasilij GrossmanCaro Corlito, non è la tua recensione, straccamemte sospesa tra filisteismo e liquidazionismo, tutta interna…
- Manola Lattanzi su Dalle conoscenze, alle competenze, all’affettività: utopia o distopia di una professione?Da docente di lettere in un istituto professionale condivido tutto ciò che ha scritto. Sono…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
RE: La mistica delle competenze e dell’interdisciplinarità sigillata dentro una trentina di buste. Le ultime novità sull’Esame di Stato
Le perplessità sul modo approssimativo di trattare le competenze nel nostro ordinamento e sulla tendenza a burocratizzare in modo eccessivo la pratica didattica sono legittime.
Ma il pezzo è fuori bersaglio, perché critica qualcosa che non esiste.
L’idea del nuovo colloquio dell’Esame di Stato è proprio quella di renderlo meno rigido, trasformandolo, da interrogazione in tutte le materie presenti, in una sorta di “conversazione” tra la commissione e il candidato su alcuni argomenti, prendendo spunto da un documento, un testo o simile.
Quindi, la prima cosa sbagliata è questa: la commissione non deve predisporre delle “tracce” o dei “quesiti”, ma deve predisporre dei “materiali”, cioè documenti, testi o altro, che possano servire da “spunto di partenza” per far parlare il candidato; saranno la commissione stessa e il candidato, sulla base della loro cultura, a passare da un argomento all’altro, in modo spontaneo, senza il fucile puntato dell’interrogazione.
Da qui deriva il secondo errore: questi materiali non devono essere “inventati di sana pianta” dalla commissione, che proporrebbe così al candidato qualcosa su cui questo deve improvvisare, senza averne mai trattato, “stando su un piede solo”. Questi materiali devono venire dal percorso didattico svolto nel corso dell’anno (se non nel triennio), frutto di una attività del consiglio di classe, che li inserisce nel Documento del 15 maggio (per i profani: il documento che presenta la classe alla Commissione d’esame). Se quindi lo studente se li trova di fronte, non scopre nulla di nuovo, ma qualcosa che ha già studiato e preparato, se ha lavorato. Non è necessario che questi materiali siano frutto di fantomatici “percorsi interdisciplinari”: l’essenziale è che siano frutto di un lavoro svolto effettivamente (e lo stesso vale per la valutazione di Cittadinanza e Costituzione). Si dirà che non si è lavorato in questo senso, finora. Giusto. Infatti bisogna farlo: lavorare di più per “progetti”, per così dire, anche dentro una sola disciplina. Ma comunque, se con i ragazzi abbiamo analizzato testi, documenti, immagini, problemi ecc., ognuno di noi nella propria disciplina (e tutti noi l’abbiamo fatto), non è difficile né insensato partire da qui per avviare il colloquio. E non è insensato sorteggiarli: così come, nell’interrogazione tradizionale, lo studente non sa che cosa gli verrà chiesto tra gli argomenti studiati, allo stesso modo in questo caso lo studente non sa in anticipo quale testo ecc., tra quelli a lui noti perché già trattati, verrà estratto per avviare il suo colloquio.
Un altro errore mi sembra quello di ipotizzare che questo tipo di orale voglia limitarsi alle competenze in senso vago e non appoggiarsi anche sulle conoscenze disciplinari: se si parte da una testo, per esempio, sarà qualcosa di cui parlare in modo specifico (dire che cos’è, l’autore, il contesto, di che cosa parla ecc.); e poi da lì si potrà passare a qualcosa che è naturalmente collegato, ma che presuppone sempre la conoscenza della materia.
Infine, un ultimo errore è quello di considerare gli studenti capaci di fare solo una tesina preparata prima e una interrogazione su domande imposte dal docente, cioè incapaci di autonomia intellettuale. Sull’alternanza, per esempio, se si chiede agli studenti di valutarla, come vuole il decreto, loro lo possono fare benissimo: ci sono passati dentro, e possono tranquillamente dire cosa è andato bene e cosa no. Sui testi o documenti o problemi che gli proponiamo, possono essere del tutto capaci di muoversi autonomamente, a partire da quello che hanno studiato. Certo, per portarli a questo, dobbiamo abituarli fin dall’inizio a fare dei lavori in cui devono costruire loro stessi un percorso intellettuale (per esempio, presentazioni alla classe su argomenti che gestiscono loro stessi, che non gli preconfezioniamo noi; oppure saggi scritti in cui devono analizzare e discutere un problema) e non limitare la loro attività intellettuale alla verifica scritta con domande aperte o all’interrogazione.
Le critiche che si possono sollevare su questo nuovo tipo di orale sono di altra natura, secondo me: 1) se deve essere una conversazione, un colloquio e non una interrogazione, allora bisogna dare per scontato che non tutte le materie interverranno; questo è un problema per la completezza della preparazione, e lo stesso decreto ministeriale (quello appena uscito) sembra invece intendere che dovrebbero intervenire tutte; 2) se si vuole passare da una disciplina all’altra in modo sensato, questo a volte non sembra proprio possibile (es.: se parto dal ritratto di Manzoni fatto da Hayez tutti vediamo quante cose possono nascere sul lato umanistico, ma su quello scientifico?); 3) tutta l’operazione è impostata troppo vagamente, senza che sia stato preparato il terreno, e senza che sia chiaro del tutto che idea di scuola ci sia dietro.
@Mauro Piras
Seguo l’ordine delle tue obiezioni, anche se in verità alcune cose finiranno per sovrapporsi.
1) Nel mio pezzo ho alluso, anche se solo di passaggio (all’inizio del paragrafo “come si sviluppa una competenza (seria)”), a uno stralcio del decreto, che però non è nuovo, perché riprende quello del 2017: andranno predisposti “testi, documenti, problemi, esperienze, progetti”. Io ho poi usato le parole “tracce” e “quesiti”. C’è un po’ di confusione lessicale, in effetti. Provo a chiarire. L’errore sta nel pensare che “tracce e quesiti” debbano per forza essere letti come richiami a un’interrogazione disciplinare e contenutistica. Una “traccia” potrebbe essere non molto diversa da un “problema”, per dirne una. Il fatto è che molte di queste parole sono vaghe e io, usandole come quasi interscambiabili, ho forse aumentato la confusione. Di qui gli equivoci.
Ma se parlando di “tracce e quesiti” avessi alluso alle “vecchie domande” sarei stato in palese contraddizione con tutto lo spirito e la lettera del mio pezzo: mi sarei anzi dovuto rallegrare del fatto che la commissione prevedesse cose ancora così legate al disciplinarismo che evidentemente mi sta così a cuore.
2) Dove avrei scritto che i materiali devono essere inventati di sana pianta? E’ piuttosto lo svolgimento del colloquio che rischia di essere precario e instabile, su un piede solo. (Ma questo è il punto vero su cui bisogna capirsi, per cui ci torno). Come dici tu, nel decreto si parla ovviamente di materiali predisposti a partire dai documenti del 15 maggio e le Indicazioni nazionali. Ma mi pareva ovvio: sarebbe stato folle che così non fosse.
3) Problema sorteggio. Dici: l’estrazione dell’argomento non è molto diversa dalla domanda, lo studente non sa in nessuno dei due casi a cosa va incontro. Verissimo. Ma la preparazione degli argomenti presuppone un lavoro enorme della commissione che credo sia francamente evitabile e che però la dice lunga sull’ossessione per la standardizzazione, la proceduralizzazione che sta dentro lo spirito dei nostri tempi, come ho detto. C’è poi un altro problema, anche questo accennato nel pezzo: questa formalizzazione rischia di inchiodare lo studente a un solo “quesito”. Che si fa se non sa che dire? Possiamo estrarne un altro? Possiamo fare alcune domandine di riserva, magari di quelle vecchie brutte e cattive di contenuto, che sono spesso un’ancora di salvezza? Insomma: sei proprio sicuro che QUESTO esame sia più spontaneo e meno ansiogeno per lo studente, lontano dal “fucile puntato della vecchia interrogazione”?
4) Problema dell’improvvisazione. Non capisco, e trovo una contraddizione in quel che dici: dici che non è vero che ci sono solo competenze in gioco ma anche conoscenze (vero, l’ho anche scritto esplicitamente) e che non è vero che si tratta per forza di interdisciplinarità, i percorsi si possono fare anche dentro una disciplina. Poi però dici che gli studenti potranno dimostrare la loro autonomia intellettuale facendo collegamenti e ammetti che l’estrazione dell’argomento servirà come guida per tutto il colloquio (quindi idealmente dovrebbe coprire tutte le materie, anche se per te forse sarebbe meglio a questo punto rinunciare a questa pretesa di esaustività). Insomma: le competenze e l’interdisciplinarità ci sono o non ci sono? Sono pretese o no? Io penso che non ci saranno più di quanto ci siano state finora: non è certo questo esame di stato che chiede per la prima volta di fare un colloquio interdisciplinare e di rinunciare alle “interrogazioni”. Un po’ ci si proverà e verrà bene, un po’ ci si proverà e verrà male, un po’ si fingerà che ci siano, un po’ ci si rinuncerà. Ma il punto non è come si adatterà la realtà a questa ennesima riforma (sta a noi insegnanti). Il punto sono le intenzioni che dietro questa riforma stanno. Sempre che si voglia ragionare politicamente sui fatti, cioè ambire alle generalità, non facendosi bastare il lavoro di dettaglio, che peraltro è comunque una scelta ideologica ben precisa (cfr. punto 5).
Io non presumo, però, che gli studenti non abbiano autonomia intellettuale. Non è questo il punto. Credo solo che bisogna smetterla di sognare e di accettare che un esame è una cosa umana, molto imperfetta, e che meglio sarebbe prenderlo per questo che investirlo di ambizioni eccessive. Dico che ci potremo aspettare che uno studente sappia fare qualcosa di serio a partire da uno “spunto” se quello spunto è già stato, e non da lui, collegato in modo articolato e profondo. Però allora bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che dovremmo impostare tutta la scuola su lavori del genere e poi chiedere QUELLI all’esame. Vaste programme. E non sono sicuro fino in fondo che sia auspicabile. Io freno sempre le astratte ambizioni di chi pensa che la scuola possa essere trasformata nel luogo del “poco ma molto approfondito”. L’equilibrio tra il procedere extensive e il procedere intensive è un equilibrio molto molto precario e assai più complicato. Sono cose che mi è capitato di ripetere più volte nei miei interventi sulla scuola.
Ad oggi e sulla base di ciò che questo decreto configura, anche scegliendo “spunti” dal programma svolto, si finirà, se non si prenderà troppo sul serio il decreto, per fare una cosa non molto diversa dal vecchio esame (ma con i vincoli aggiunti di cui al punto 3); oppure, se il decreto invece si pretenderà di applicarlo essendo più realisti del re, per pretendere precisamente quell’improvvisazione su un piede solo.
La precedente formula tesina + domande se possibile collegate tra loro interdisciplinarmente, se no anche su singole discipline (e a rischio di contenutismo), mi pareva un compromesso con la realtà più che decente.
5) Tirando le somme. Al netto delle possibili (innanzitutto mie) poco fondate interpretazioni di questo decreto, sappiamo bene entrambi che la posta in gioco è quella della “scuola delle competenze”. Il mio pezzo è su quello, le tue osservazioni sono su quello, l’intervento di plauso di ANP è su quello (volendo fare il machievellico potrei dire che se ANP plaude così tanto a una riformicchia chiamandola riformona, o ne sono ispiratori o faranno ad essa da guardie del corpo: ad essa e a tutte le successive in quello spirito).
Ho cercato di far notare un passaggio del decreto che nessuno ha notato, quello dove si dice che lo studente dovrà riflettere sulla competenza acquisita in asl per il futuro mondo del lavoro. Tu ci trovi qualcosa di buono. Per me questa è pura chiacchiera e ideologia. Si finirà, ma un grado alla volta, come nell’apologo della rana, per bollire la scuola e svuotarla di serietà culturale, in un generico pot pourri di “competenze” legate alla realtà, all’essere cittadini ecc.. che non sono illazioni mie ma è il tipo di scuola che è dipinto dalle Otto competenze chiave per la scuola del futuro dell’UE e da molti altri documenti e discorsi che stanno assediando la scuola. Se, come sono fermamente convinto, questa riformicchia è un tassello di un progetto per trasformare la scuola in un luogo come quello, ci sono scelte di campo da fare, e io sono contro, fermamente.
Diverso è il ragionare su cosa significhi sviluppare una competenza dentro il contesto scolastico, dentro la cultura, dentro le discipline e materie. Ma su questo credo di essere stato abbastanza chiaro.
Ciao