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diretto da Romano Luperini

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Se la scuola ha paura dei bulli

Questo intervento è già uscito nel volume “Una scuola che non si arrende”, n. 12 / dicembre 2018 de “I Quaderni di Scuola e Amministrazione. Mensile di cultura e informazione per DS, DSGA e docenti. Ringraziamo l’autrice e la redazione per averci concesso la pubblicazione.

Una scuola indulgente verso chi bullizza compagni e insegnanti, una classe insegnante e dirigente incapace di prendere provvedimenti seri, sono lo specchio di una scuola inadeguata: ai tempi e agli studenti. Che non sono più “quelli di una volta”. 

Giorni fa in un seminario sul tema della educazione alla cittadinanza (ebbene sì, è un tema molto in voga…), nel corso del quale dovevo tenere una relazione, esordii con la provocatoria affermazione che se fossi stata ministra avrei licenziato in tronco gli insegnanti che avevano esternato il loro “perdono” nei confronti dei ragazzi che avevano legato e dileggiato la professoressa disabile a scuola, e che avevano affermato, ispirati da principi di alta pedagogia, che “i ragazzi sono così, bisogna comprenderli”.

La modalità era provocatoria, ma la mia posizione di profondo dissenso verso quella specie di “perdono” era serissima.

Nei giorni scorsi, di fronte al video del bullo che sta calcando le scene di social e tv generando la solidarietà nazionale nei confronti del povero insegnante, sempre provocatoriamente dichiaravo che l’alunno lo avrei espulso da tutte le scuole del regno (si diceva così una volta, oggi non esiste il regno né chi ne venga espulso). Intendevo dire che gli avrei inflitto una punizione degna di tal nome e tale che se la potesse sentire addosso, non una ridicola sospensione con obbligo di frequenza e accompagnamento di lavori pseudo socialmente utili tipo svuotare i cestini della spazzatura: no, una punizione degna di tal nome, una cosa che gli costi davvero, almeno almeno una non ammissione all’anno successivo (poi la ministra Fedeli mi ha copiata).

E però mentre volevo sospendere il ragazzo come dio comanda e volevo non ammetterlo alla classe successiva, dicevo che volevo qualche informazione in più anche sul professore destinatario di quel bullismo, volevo saperne qualcosa in più per decidere se sospendere solo il ragazzo o attivare anche una pratica per il riconoscimento della inidoneità dell’insegnante all’esercizio della professione docente.

Ovviamente sto giocando sull’iperbole e sulla provocatorietà di quello che dico.

Ma giocando di meno, e senza iperbole alcuna, penso che oltre a scomodarci in analisi, a gridare allo scandalo, a suggerire rimedi, faremmo bene a interrogarci non solo sui ragazzi che adottano simili comportamenti (magari cercando qualche risposta nei libri di sociologia e di psicologia di chi da tempo fa ricerca sulle ragioni e sui modi dei comportamenti giovanili), ma sugli insegnanti che subiscono simili comportamenti e sulle scuole in cui simili comportamenti non vengono alla ribalta solo perché non fotografati e comunque variamente “perdonati”.

In questi giorni la stampa ci propone molte riflessioni sull’accaduto e punti vista diversi di dirigenti, docenti, giornalisti. Gli argomenti sono quelli: le responsabilità educative delle famiglie; il loro permissivismo e il loro star sempre dalla parte dei figli; l’ingerenza dei genitori nelle decisioni della scuola e il loro sciocco e arrogante rivendicazionismo relativo agli ambiti più svariati dalla metodologia alla valutazione; la solitudine dei ragazzi e la loro smania di protagonismo, di “esistenza” e di successo sui social; la politica dell’istruzione e la progressiva perdita d’immagine dell’insegnante, malpagato e mal riconosciuto; la difficoltà di tanti insegnanti nel coinvolgere i ragazzi e nel gestire la classe…

Insomma, direi un successone del video e quasi quasi quello studente lo premierei, perché è riuscito a far parlare di scuola e di problemi educativi molto più di quanto non siano riusciti negli ultimi decenni psicologi e illustri uomini che invano hanno segnalato le emergenze in arrivo.

La ragione ce l’hanno tutti e non ce l’ha nessuno, perché la ragione è complessa e richiederebbe un trattato che comunque nessuno leggerebbe. Perché leggere un trattato non è facile né rapido come vedere un video o dare uno sguardo a cosa dice un dirigente o un insegnante. Perchè confrontare ragioni storiche e pedagogiche e politiche e affrontare punti di vista sociologici e psicologici e persino economici è molto più impegnativo che esprimere un proprio parere partendo dalla personale saggezza di cittadino attivo.

 Quindi non voglio esprimere pareri né abbozzare cose che assomiglino a trattati. Voglio solo anch’io esistere nel dibattito in corso (grande il mio strapazzo d’animo nello scegliere se tacere o dire, e ha vinto il dire, pur nella consapevolezza della inutilità del dire medesimo…) e portare, a mo’ di disorganici punti elenco, i miei pochi argomenti, collocabili a metà strada tra la ragione e la pancia.

  1. Perché mai certi ragazzi dovrebbero esser diversi a scuola rispetto a quello che sono, loro e i loro genitori, nelle strade, nei locali pubblici, negli uffici delle pubbliche amministrazioni, sugli scooter o nelle automobili, sui social o nelle relazioni familiari sempre più malate, o nell’esercizio di sedicenti cittadinanze sempre più livide e rancorose? Forse qualcuno pensa che i ruoli nella scuola incutono più rispetto solo perché sono nella scuola? Non è così, i ruoli non dicono più niente a nessuno: chi dice qualcosa, se lo dice e se ne ha gli strumenti, è la persona, con la sua personale credibilità, stimabilità, rispettabilità.
  2. Il bullismo dei video virali è solo la punta estrema e ben socializzata di un pericoloso iceberg che contiene in sé la frattura creatasi tra scuola e società e tra insegnanti e genitori, la confusione imperante tra diritto all’istruzione e cultura della rivendicazione, tra diritto alla trasparenza e prassi dell’ingerenza, tra diritto alla collaborazione educativa e pretesa di dettar legge su contenuti e metodi… Un iceberg che non tutti i giorni, per fortuna, incontra bulli aggressivi e professori acquiescenti, ma che comunque vede la scuola perdere ogni giorno di più la sua immagine sociale e il suo ruolo educativo, vede gli insegnanti sempre più stanchi e frustrati, vede gli studenti, se non irriverenti, comunque demotivati e insofferenti.
  3. Nella scuola, i segnali del pericolosissimo degrado di molti ambienti di apprendimento non sono recenti, ma è stupefacente constatare che solo la viralità e la concretezza di un video ha suscitato così tanta reazione e riflessione: dov’erano i pensatori del Paese, quelli che dicono di volere una sua crescita e un suo sviluppo, quelli che blaterano della necessità di una scuola che sia risorsa per la democrazia e la crescita? L’attenzione della cosiddetta società civile verso la scuola non può durare l’espace d’un matin, solo quando un brutto video tira un cazzotto nella pancia: richiede impegno di lunga durata e tallonamento verso chi governa, ma un tallonamento competente, che sa di cosa sta parlando e conosce i termini del problema.
  4. I genitori di questi giovani rampolli erano alunni vent’anni fa, trent’anni fa. Erano, cioè, già alunni di una scuola che cominciava a cambiare, che affermava democraticissimi principi pedagogici e sociali, che rifiutava, perché pedagogicamente e socialmente inaccettabili, i vecchi principi e i vecchi modi di vivere i ruoli, ma non si costruiva, se non nelle parole e nelle enunciazioni di principio, nuovi strumenti e nuove professionalità. Cominciava la stagione dei cosiddetti progetti educativi che, promossi a livello nazionale, ipocritamente delegavano alla scuola compiti del tutto contrastanti con gli stili di vita e i comportamenti pubblici ammessi e promossi a livello sociale e istituzionale. I genitori di questi ragazzi sono dunque già essi stessi il prodotto semilavorato di una scuola bravissima ad enunciare principi, ma per niente disposta a investire sulla qualità di cui blatera: una scuola che già allora recitava se stessa mascherando la crescente inadeguatezza della classe insegnante e dirigente ai nuovi bisogni. Quando i giovani autori degli attuali video diventeranno genitori, chi vivrà avrà la possibilità di assistere ad ulteriori peggioramenti educativi.
  5. La scuola che oggi è vittima di bullismi lo è perché ha paura. Ha paura, cioè, quando è insicura, quando non ha strumenti, quando non ha autorevolezza, quando non esercita fascino, quando non può scegliere che tra un’autoritarietà che non paga più ed un’amicalità che preserva dai bullismi ma non garantisce la credibilità né delle Istituzioni né delle persone, e non riesce a comprare né il rispetto né la relazionalità né la motivazione ad apprendere. Molti sono gli insegnanti e i dirigenti che hanno paura: dei ragazzi, dei genitori, dei confronti con gli altri e con l’esterno, del direttore regionale, del nucleo di valutazione, del rav, di invalsi, della stampa, di avere poche iscrizioni, di ricevere ricorsi. Paura di essere inadeguati insomma.
  6. E infatti lo sono. Molti, lo sono, inadeguati. E non possono e non sanno essere “severi” (cioè chiari nei messaggi educativi e rigorosi nei comportamenti) perché hanno paura di ritorsioni e reazioni. Ed hanno paura di ritorsioni e reazioni perché non sono sicuri di quello che fanno. Di quello che insegnano, di come lo insegnano, dei voti che mettono, di ciò che esigono e di ciò che permettono, di come si fa ad essere ascoltati e rispettati (non è da molto che ironizzavo da qualche parte sul Piano nazionale di educazione al rispetto ideato dalla ministra Fedeli!). Sono insicuri e non possono sostenere ad alta voce nulla delle loro scelte e dei loro comportamenti perché essi stessi non ne conoscono professionalmente le ragioni. Fanno quello che facevano i loro professori di una volta perché altro non gli è stato insegnato, ma i professori di una volta non funzionano più, perché gli alunni non sono quelli di una volta. E i ragazzi, della paura e della insicurezza dei grandi, se ne accorgono già dalla scuola dell’infanzia, e sanno cosa farsene. La pedagogia ha bocciato tanto tempo fa il senso di paura che una volta gli insegnanti generavano negli alunni. Oggi chi è che riflette (se non ci sono video virali) sulla paura che gli alunni generano negli insegnanti e sulle ragioni di tale paura? Hanno paura, diciamolo in parole povere, perché sanno di non essere capaci. Non sono pochi, infatti, gli insegnanti che non sanno insegnare e i dirigenti che non sanno dirigere e indirizzare.
  7. E’ colpa loro? No che non è colpa loro. Sono colpe gravissime di chi blatera di innovazioni e di miglioramenti, di modelli nordeuropei e di ambienti di apprendimento, di arredi e di tecnologie, di inclusioni e plurilinguismi, ma lascia che salgano in cattedra persone che non hanno trovato di meglio da fare che fare gli insegnanti, che hanno vinto come un terno al lotto un concorso i cui criteri di valutazione erano ridicoli e ambigui e disomogenei, e gestiti da esaminatori che molte volte ne sapevano meno degli esaminandi, insegnanti che della loro materia d’insegnamento conoscono appena ciò che dice il libro di testo, e insegnano non si sa cosa, e li hanno mandati a fare scuola senza che conoscano l’abc del fare scuola, e i ragazzi se ne accorgono subito e sanno quali insegnanti possono dileggiare e quali no.

Sì, in Finlandia e in Svezia le scuole funzionano, ma il reclutamento degli insegnanti è severissimo, e la loro formazione non è un balletto, e se non producono esiti e non ricevono gradimento se ne vanno a spasso, perché sono un danno per il Paese.

  1. La scuola pubblica è strumento di crescita e di sviluppo sociale solo se è adeguata alle trasformazioni, se sa comprenderle, arginarle, gestirne le complessità: oggi assistiamo al paradosso di una crescita smisurata dei problemi e delle deleghe educative, a fronte di un impoverimento crescente degli strumenti professionali degli insegnanti, che forse diventano esperti (se lo diventano!) di nuove tecnologie o di strategie speciali per ragazzi speciali o di lingue straniere, ma che talvolta non possiedono nulla, nulla, nulla, sul piano culturale, pedagogico, psicologico, etico.
  2. Sì è vero, gli insegnanti sono malpagati, frustrati, abbandonati e soli. È vero. Ma gli insegnanti (e non è colpa loro!), prima d’essere malpagati e frustrati e abbandonati sono prima di tutto incompetenti e inadeguati al loro compito, di difficoltà ormai elevatissima. Ed è anche per questo che non possono richiedere stipendi adeguati e carriere appaganti, perché sono inadeguati e nessuno se li fila, e lo sono anche grazie a chi protegge e difende (si fa per dire!) la categoria, garantendone il diritto all’incompetenza e all’inadeguatezza.
  3. Tutte le innovazioni, tutte le riforme, tutti i dibattiti nazionali, che si tratti di carenze linguistiche o di mancanza di rispetto, che si tratti di incompetenze o di bullismo, non hanno senso se al centro non si mette, sì, l’insegnante: ma la professionalità dell’insegnante, il reclutamento degli insegnanti, la manutenzione della professionalità docente, e quindi, quindi, quindi, la costruzione di patti e contratti, il riconoscimento di soldi e di carriere. Occorre una inversione di tendenza nelle politiche nazionali, una rifocalizzazione dei problemi: l’insegnante al primo posto (poi un’altra volta parliamo dei dirigenti…), ma un insegnante colto, competente, relazionalmente capace, attento a cosa accade e cosa cambia nel mondo, pedagogicamente e psicologicamente attrezzato. Fino a quando la scuola italiana non si doterà di insegnanti qualitativamente adeguati, nessuna riforma e nessun argine al degrado culturale e sociale potrà venire dalla scuola.
  4. Un buon numero di adulti in realtà mostra un atteggiamento di forte denigrazione nei confronti dei ragazzi e trova intollerabili molte espressioni della loro fragilità e spavalderia, considerate tali da impedire una relazione educativa positiva. Ma nella conclusione del suo discorso Charmet, pur riconoscendo la difficoltà di rapportarsi con molte manifestazioni della personalità dei ragazzi, cerca di mostrare agli insegnanti la possibilità di sfruttare gli aspetti positivi della loro fragilità narcisistica e della loro spavalderia: dimostra infatti che essi hanno la disponibilità ad entrare in relazione positiva ed entusiasta con chi, degli adulti, riconosce e stimola la loro creatività ed espressione artistica, con chi valorizza inclinazioni e talenti individuali, con chi collabora al progetto di sviluppo personale di ciascuno di loro. E dimostra anche, l’autore, che l’atteggiamento dei ragazzi e la loro voglia di entrare in relazione con l’adulto è positiva quando nell’adulto riconoscono competenza, passione per la disciplina insegnata, curiosità e interesse sinceri nei loro confronti”. (Gustavo Pietropolli Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Editori Laterza Economica 2010, dalla recensione a cura di Enrica Bienna su Scuola e Amministrazione, settembre 2016).

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