Dove cercare il senso del mondo? Riflessioni su “The Game”, di Alessandro Baricco
Il senso della storia
“The Game” di Alessandro Baricco è un esempio compiuto di storytelling contemporaneo.
Racconta una storia recente: l’inarrestabile affermazione della tecnologia digitale, dal 1978 in avanti, sottolineando le trasformazioni che ha determinato nella cultura, nell’umanità, nella società.
Immagina queste vicende come un’insurrezione rivoluzionaria, una lotta di liberazione guidata con crescente consapevolezza da un gruppo di tecnici californiani (ingegneri ed informatici) con una venatura hippie. Questi rivoltosi agirono all’inizio sulla base di un’istintiva volontà di rovesciare valori ed abitudini che avevano caratterizzato il Novecento, il secolo peggiore della storia umana. La rivoluzione, guidata da intelligenze pratiche, era priva di ideologie ed ideali di riferimento, animata invece da un metodo illustrato dalle parole di uno dei suoi autori, Stewart Brand: “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano, e cambierai il mondo”.
Baricco veste i panni di un esploratore, un geologo alla ricerca di segni e tracce sulla mappa che descrive il nostro mondo intellettuale. Studiando il progressivo emergere e l’affermarsi del digitale, ne elabora una periodizzazione individuando tre epoche: quella classica (fino al 1998), quella della colonizzazione (fino al 2006), l’affermazione di quello che definisce il Game (da allora ad oggi). Per ciascuna epoca, studia documenti e fatti (secondo la metafora che ha scelto, “fossili”); attraverso essi – nel breve ma rapidissimo cammino che porta dal Commodore a Google, dalle App ad AlphaGo – descrive la progressiva estensione di una strumentazione che porta con sé nuovi abiti mentali, modificando nel profondo quello che intendiamo per “esperienza” ed “umanità”.
Descrive due guerre di resistenza contro questa nuova civiltà digitale: la prima determinata dalla nostalgia del Novecento, e terminata con la sconfitta dei nostalgici; la seconda, tuttora in corso, che vede protagonisti anche alcuni giocatori perplessi, ed ha alla base preoccupazioni molto più profonde (relative alle serie implicazioni economiche, culturali, politiche, del Game).
All’esposizione di fatti ed informazioni che scandiscono le epoche, alterna capitoli di commento, che intitola in modo dichiaratamente vintage: “Commentari”. Li utilizza per illustrare e sintetizzare alcune idee di fondo della sua interpretazione.
Conclude la storia con tre capitoli monografici. Prima espone alcune ripercussioni che il Game ha prodotto sulle nostre idee di verità e di arte; poi proietta le idee centrali del testo in uno scenario futuro. Questo capitolo, dedicato a “Quel che resta da fare”, s’intitola, “Contemporary Humanities”.
Viaggio sulla superficie della realtà
La lettura di questa storia mette in gioco pratiche, significati, abitudini intellettuali radicate e tradizionali, a partire dai fondamentali: esperienza conoscitiva, profondità, verità, mediazione sono le idee che più profondamente vengono messe in discussione.
La nozione di esperienza viene capovolta.
Il gioco del Novecento – spiega Baricco – consisteva nel superamento della superficie, perché “in superficie c’era il caos, o nel migliore dei casi l’infida rete delle percezioni. Questo superamento era faticoso e raro, ed era comunque “qualcosa che implicava sforzo e sacrificio”.
Il Game sancisce la fine di questa esperienza conoscitiva e la nascita di un pensare alla rovescia (corsivo dell’autore) fondato sulla SUPERFICIALITA’ (maiuscolo dell’autore):
La complessità, sopra, il cuore utile del mondo, sotto. La fatica, sopra. Il premio, sotto. Una figura chiara, no?
Capovolgetela, per favore.
Cosa vedete?
L’iPhone.
Il premio, sopra. La fatica, sotto. Le essenze portate in superficie, la complessità nascosta da qualche parte.
Il Game digitale rende possibile questa nuova forma di post-esperienza – come la definisce l’autore – di cui possono giovarsi tutti, grazie al fatto che “qualcuno è andato a disseppellire l’essenza delle cose e l’ha appoggiata sulla superficie del mondo.” Il valore che il Game riconosce alla superficie è richiamato in diversi luoghi del libro, sempre in antitesi storico-culturale con la profondità: “pensare alla rovescia” significa infatti “rifiutare la profondità come luogo dell’autentico e collocare in superficie il cuore del mondo”.
Quest’azione scuote le convinzioni e gli ideali della tradizione, costringendo a ridefinire perfino il più nobile fra tutti: l’idea di verità.
Il Game, infatti “è troppo instabile, dinamico e aperto per essere un habitat gradito a un animale sedentario, lento e solenne come la verità”. Questo animale chiede infatti tempo, lentezza, sequenzialità, ma “se vai per il mondo con l’andatura lampo della post-esperienza, ci metterai poco a capire che, per te, la verità è una sequenza di fotogrammi in cui qualsiasi fotogramma, di per sé, non è né vero né falso”.
La nozione di post-verità, elaborata nel quadro del dibattito sulla cultura contemporanea, non è, secondo Baricco, né utile né intellettualmente onesta: il Game, infatti, “SI È PRODOTTO UN SUO PROPRIO MODELLO DI VERITA’”, ne ha “MODIFICATO IL DESIGN” (maiuscolo dell’autore).
Baricco propone di parlare di “verità-veloce”, che il Game produce riprendendo una tecnica esistente da millenni (a partire dal mito classico): “la verità-veloce è una verità che per salire alla superficie del mondo – cioè per diventare comprensibile ai più e per essere rilevata dall’attenzione della gente – si ridisegna in modo aerodinamico perdendo per strada esattezza e precisione e guadagnando però in sintesi e velocità”.
Pur riconoscendo che questa forma di verità comporta dei rischi, egli ribadisce con forza che “il sacrificio della precisione genera leggerezza, velocità, agilità, efficacia, volendo perfino bellezza. Movimento, diffusione, esistenza”.
Lettori, e secoli, a confronto
Alla luce di queste idee forti del Game – leggerezza, movimento, superficialità, autoreferenzialità – il libro di Baricco costituisce un esempio di compiutezza: esatto, scorrevole, ammiccante. Fornisce infatti un’informazione sommaria ed estesa sul tema, senza mai soffermarsi a precisare ed approfondire le intuizioni, gli spunti, i dubbi che pure contiene. Maschera la ripetitività e l’insistenza su pochi concetti attraverso un sapiente lavoro retorico.
Ma se un lettore distante da questo spirito vi cerca profondità, verità, argomentazione, confutazione, il libro risulta invece frammentario, semplicistico, spesso irritante.
La presenza quasi mistica del Game, ad esempio, non viene mai discussa seriamente, sebbene l’autore gli attribuisca qualità ed intenzioni chiaramente umane; un po’ come accade con i teorici del libero mercato, che attribuiscono a quest’entità una volontà, una logica che va oltre quella degli uomini che lo costruiscono e ci vivono.
Proprio il versante socio-economico, quello che oggi suscita le più accese discussioni sul ruolo e sulle conseguenze della cultura digitale, viene appena sfiorato da Baricco. Egli ammette che il Game ha aggravato le disuguaglianze economiche, ridistribuendo le possibilità, ma non i profitti; accompagnando, anzi, la creazione di enormi concentrazioni di potere. Allo stesso modo, riconosce che la caduta in disgrazia delle elite politiche e intellettuali che nel Novecento governavano il corso degli eventi (o credevano di farlo) comporta anche dei pericoli, e che in quest’ambito l’idea e la pratica delle “verità-veloci” può sconfinare nella manipolazione dell’opinione pubblica.
Così come risulta pericoloso il nuovo commercio degli uomini, attraverso lo scambio dei loro dati sensibili.
Tuttavia, affronta questi temi secondo una logica coerente con i suoi principi: in modo lieve, appena accennato.
Elenca dunque le critiche alla degenerazione del gioco, poste alla base della seconda guerra di resistenza (in due paginette interessanti, 239 e 240).
Ma le abbandona subito, non senza avere osservato, con una certa malizia, che “la componente irrazionale, in quasi tutte le obiezioni, è piuttosto alta: si lavora sui si dice, sui probabilmente, sui forse”.
Detto in altri termini, si lavora sul terreno dell’interpretazione e dell’argomentazione. Lontano dalla superficialità e dalla leggerezza. Vicino al dubbio e alla profondità.
Per questi motivi, il lettore novecentesco, soprattutto se è una persona di scuola, prova un certo sconforto durante la lettura. Forse anche per un suo antiquato abito mentale, percepisce infatti con forza i vuoti del ragionamento, le lacune logiche sulle quali costantemente l’autore torinese lavora.
Si trova infatti di fronte a continue semplificazioni e generalizzazioni, anche in presenza di concetti complessi. Assiste alla cancellazione di una precisa e sequenziale logica argomentativa, ed alla sua sostituzione con affermazioni giustapposte, legate dalla prodigiosa fantasia dell’autore e non da un ragionamento logico. Osserva la sistematica rimozione di qualsiasi approfondimento, cui supplisce l’aneddotica o l’esposizione di dati ed informazioni peculiari, che suscitano stupore per l’intuito, l’erudizione, la forza poetica di molte immagini.
Giulio Ferroni, recensendo nel 2006 “I Barbari”, scrisse a proposito di questo stile intellettuale e letterario.
Un singolare nichilismo buonista e mediatico, narcisistico e combinatorio, quello di Baricco, che ha tanto successo perché va incontro alla brama di illusione, di proiezione estetica facile e «dolce», di spettacolo leggero e evanescente, di progressismo senza destinazione e senza contraddizione, della buona coscienza culturale contemporanea.
Se è difficile dissentire da un giudizio così autorevole (non credo soltanto perché il lettore del Novecento ha bisogno di “sacerdoti” cui fare riferimento), sarebbe però sbagliato accontentarsi di esso.
Scarno nei contenuti, infatti, questo storytelling ruota intorno ad alcune posture intellettuali di assoluto rilievo nel mondo contemporaneo, che traduce in intenzioni comunicative e meccanismi testuali/ intellettuali tipici dell’universo social e del mondo digitale (nelle sue più diverse manifestazioni).
Di fronte ad esse, il senso di superiorità e il moralismo sono atteggiamenti insidiosi e ingiustificati.
Sono, infatti, le posture di tanti cittadini, di molti studenti, spesso dei nostri figli. Posture che indicano un cambiamento il cui destino è tuttora da decidere.
Posture intellettuali
La ricerca archeologica di Baricco mette in piena luce alcune tendenze che caratterizzano la comunicazione e le relazioni umane, nella nostra epoca di trionfo del digitale: un assoluto soggettivismo; la cancellazione del conflitto intellettuale, la centralità dei meccanismi retorici; l’ostracismo gettato su qualsiasi forma di mediazione dell’esperienza conoscitiva.
Quanto alla soggettività e all’individualismo, la scrittura di Baricco esibisce con forza la centralità della figura autoriale, attraverso un continuo riferimento all’io che scrive, che di fatto costituisce l’unico pronome solido dell’intero scritto. Per il resto, infatti, campeggiano un generico ed indistinto noi dietro al quale si intravvedono quasi sempre gli umani tutti (in cammino guidati dal Game) o voi, il più ristretto gruppo dei lettori cui l’autore si rivolge guidandoli, come bambini inesperti, in un territorio sconosciuto.
Si tratta a tutti gli effetti di una saga, però in prima persona, perché l’eroe e il cronista coincidono.
Essa comincia infatti dall’autore: ”Una decina di anni fa ho scritto un libro che si intitolava I Barbari”. Si esprime attraverso le sue riflessioni. Annuncia la sua struttura seriale: “Neanche ci provo a spiegarvi cosa esattamente significa (l’intelligenza artificiale, ndr), ci penserò fra dieci anni, quando scriverò la terza puntata della saga dei Barbari”.
Di questa strategia è una parte importante la scomparsa degli altri autori, e in buona misura del loro pensiero: fatta eccezione per il Discorso sul metodo di Cartesio, infatti, nessun altro titolo viene citato all’interno del libro. Anche quando con assoluta evidenza Baricco si riferisce ad idee ed obiezioni presenti in testi fondamentali sul tema, che sicuramente conosce ed utilizza, il nome ed il titolo vengono taciuti.
Quest’atteggiamento è coerente con la filosofia della superficialità. Citare esplicitamente e con precisione altri autori ed autrici, discuterne o confutarne in modo articolato il pensiero, significherebbe infatti imboccare la strada dell’analisi approfondita.
Nessun conflitto può esistere, invece, nel regno del gioco e del divertimento.
La centralità degli espedienti retorici è evidente sin da una prima scorsa dell’indice, nel quale il procedere della lettura viene scandito e orientato da termini e azioni tipici del mondo digitale (username, password, play, maps, level up).
L’indagine scientifica/ storica sugli argomenti viene suddivisa in due momenti: la descrizione/ esposizione di dati ed informazioni, l’analisi critica, cui viene attribuito il titolo di “commentari”.
Le mappe sono a tutti gli effetti “mappe concettuali” per immagini.
Infine, le riflessioni sul futuro sono considerate un livello superiore del gioco intellettuale, brevi digressioni d’autore su alcuni importanti scenari, e sul destino futuro del Game e di chi lo abita. Anche in questo caso, fa capolino il vintage, perché le “25 tesi sul Game” che concludono il libro sanno tanto di Lenin, o dei formalisti russi.
La struttura complessiva sembra indicare, anche attraverso il richiamo alla serialità, il tentativo di coniugare elementi della tradizione e aspetti della rivoluzione digitale, inserendo gli uni e gli altri all’interno di un ordine chiaro ed immediatamente leggibile.
Credo anzi che si possa affermare che attualizzi il valore simbolico del numero e della ripetizione, che caratterizza ad esempio i testi della tradizione medievale, utilizzando categorie e pratiche del mondo digitale.
Infine, un tema ricorrente, all’interno del libro, è la critica alle mediazioni intellettuali e ai mediatori, evocati spesso con l’appellativo di “rompicoglioni” e con la relativa attività (ovviamente, “rompere i coglioni”): quando, spiega l’autore, comprendi le potenzialità della schermata dell’iPhone, “dove la complessità del reale viene domata e restituita in un ordine velocemente utilizzabile”, puoi realizzare post-esperienze conoscitive straordinarie, perché “approfitti del fatto che non ci sono in giro sacerdoti a romperti i coglioni”.
Fra i mediatori, una critica particolarmente attenta viene rivolta alla scuola e ai professori, secondo un topos classico dell’autore torinese.
Per esempio, quando il figlio piccolo prova ripetutamente a zoomare con le dita su una fotografia, abituato alle potenzialità del telefonino, “io sapevo che stava misurando la disfatta di un’intera civiltà, la mia. Capii in quel momento che da grande non avrebbe letto i giornali cartacei e che a scuola si sarebbe rotto i coglioni a palla”. In forma più generale, il concetto viene ribadito poche pagine dopo: “se per telefonare non avevo che da sfiorare uno schermo con le dita scegliendo velocemente fra un numero ristretto di opzioni dove un caos di possibilità era riportato a un ordine sintetico e perfino divertente, perché mai a scuola non funzionava così?”. A suo giudizio, la scuola non capisce le regole del Game e continua a giocare al gioco di una volta: con un atteggiamento che “mescola un’enorme quota di dignità e fierezza con una dose incredibile di ridicolo (…) segna a gioco fermo ogni volta che apre le porte al mattino”.
La questione viene definita con assoluta chiarezza in una delle tesi conclusive: “se lo scheletro dell’educazione è lasciato a una scuola che ancora è ferma ad addestrare buoni cittadini di una media democrazia anni ’80, poi non ci si può illudere di lanciare nel Game dei player idonei: facilmente si spezzeranno”.
Perché – si legge nella tesi conclusiva che riassume per certi aspetti lo spirito del libro – “Non è il Game che deve tornare all’umanesimo. È l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game”.
Se evitiamo giudizi superficiali, dettati dal risentimento e dallo sfogo, possiamo riconoscere l’importanza e l’attualità di alcune istanze che queste posture manifestano.
Esse pongono infatti con forza interrogativi legati alla partecipazione, al dialogo, all’incontro fra le idee e le persone.
Le idee di Baricco su questi temi possono non piacerci, anzi spesso non ci piacciono affatto, ma i problemi che pone sono ineludibili.
Per rimanere soltanto nel mondo della scuola, è vero che il modello tradizionale non regge. È vero che la voce degli studenti, ed il loro desiderio di partecipare alla costruzione di una ipotesi autentica di sapere viene spesso schiacciato dal peso del nozionismo. È vero che certi insegnanti crescono gli studenti come obbedienti ripetitori, e non hanno nessuna intenzione di comprenderli ed aiutarli ad essere se stessi. È vero che molti insegnanti non riconoscono il valore degli apprendimenti informali, ed anzi rifiutano il sapere dei giovani. È vero che l’introduzione di tecnologie senza un contenuto umanistico costituisce una nuova moda, alla quale non ci si può certo opporre con la sola forza della nostalgia dei bei tempi andati (che poi tanto belli non erano).
Insomma, se la macchinetta della verità-veloce non ci piace quando la usa Baricco, è onesto che noi non la usiamo contro di lui.
Indicazioni di lettura, e appendice bibliografica per i rompicoglioni
Proporrei, quindi, di leggere il libro in due direzioni.
La prima consiste nel cercare nella storia raccontata da Baricco i frammenti che ci possono essere utili. Ce ne sono molti, secondo me, e diversi da lettore a lettore.
Io ho trovato molto interessanti le riflessioni che l’autore, pur riluttante, dedica alla politica italiana (al Movimento 5Stelle e al PD, in particolare). Anche le sue idee sul ruolo delle elite e sulla crisi delle intermediazioni, che mentre scrivo sono al centro di un bel dibattito sulle pagine di la Repubblica, mi sono sembrate centrate e stimolanti.
La seconda, più faticosa, è consigliata a chi è contento di essere considerato un rompicoglioni. Per esempio a chi, fra noi insegnanti, fa della diversità generazionale e culturale una continua fonte di scoperte, e crede che il valore dell’insegnamento/ apprendimento risieda nelle persone che si incontrano, non nelle tecnologie che utilizzano.
A chi volesse percorrere questa via, suggerisco quattro libri, che in questi anni mi hanno aiutato a rifuggire dalle semplificazioni, sperando che aiutino anche loro ad approfondire la conoscenza dell’argomento.
Perché, non me ne voglia il mio illustre concittadino, approfondire è indispensabile.
- Curcio Renato (a cura di), L’egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, Sensibili Alle Foglie, 2016
- Ippolita (collettivo filosofico), Tecnologie del dominio, Meltemi Milano 2017
- Morozov Evgeny, L’ingenuità della rete, Codice edizioni Torino, 2011
- Turkle Sherry, La conversazione necessaria. La forza del dialogo nell’era digitale, Einaudi Torino, 2016
Buona lettura a tutte e tutti voi.
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