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diretto da Romano Luperini

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Generazione Zero. Chi sono i nuovi studenti?

  Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Gli Zero a scuola

Insegno al triennio. La 3°C di quest’anno è composta da ragazze e ragazzi nati nel 2001. Nella 4°C ci sono quelli nati nel 2000. Nella 5°C quelli nati nel 1999. Dal prossimo anno nella mia scuola, e nelle scuole secondarie di primo e secondo grado di tutta Italia, ci saranno solo studentesse e studenti nati negli anni Zero. Mi è capitato spesso negli ultimi due-tre anni di pensare più o meno una cosa del genere: «occhio che una nuova specie sta prendendo posto. Te ne accorgerai quando usciranno gli ultimi Novanta e avrai solo gli Zero. Cambierà tutto, la scuola sarà tutta un’altra cosa». Niente di nuovo, per carità, la riflessione (e la narrazione) sulla nuova generazione digitale va avanti da un pezzo. In rete si trova di tutto, l’accademia ne parla da tempo, la stessa scuola offre, in ordine sparso un po’ in tutta Italia, esempi virtuosi di accettazione convinta e attiva di questa grande sfida culturale. Eppure, se l’attenzione e lo sforzo posto sul come fare sembrano essere cresciuti in modo esponenziale, mi pare che paradossalmente proprio all’interno del mondo scolastico si tenda a ridurre sempre più (se non a rimuovere) la domanda sul chi siano questi studentesse e studenti.  A riguardo ho provato a mettere in ordine qualche riflessione da potere condividere e magari avviare una discussione.

Trent’anni

Per entrare nel merito propongo tre passi indietro, di dieci anni ciascuno. Proviamo a metterci nei panni di una ipotetica o ipotetico insegnante di lungo corso, oggi in servizio. Diamogli trent’anni di cattedra, tale da rappresentare il limite alto del portato d’esperienza della classe docente d’oggi: questa docente o questo docente hanno avuto a che fare, semplificando molto, con tre generazioni. La prima è quella nata negli anni Ottanta e sui banchi dai secondi anni Novanta. È stata la prima generazione post-ideologica anche se era ancora facile distinguere lo studente di destra da quello di sinistra, semplicemente per come era vestito. È stata la generazione di MTV, quella che leggeva Hesse sui Millelire, che avrebbe sognato in massa l’Interrail e poi l’Erasmus, ma soprattutto è stata la generazione del cellulare Nokia e dei primi sms. Si affacciava al mondo di Internet che all’epoca era un nuovo continente pieno di cose ma difficili da trovare. Non c’era Google, i primi pc a scuola servivano giusto a perdere tempo perché lentissimi e inservibili. Eppure il divario tecnologico con la generazione delle madri e dei padri, delle insegnanti e degli insegnanti, si era già allargato a dismisura: il cellulare e la prima rete avevano creato un nuovo paradigma comunicativo, ma non solo.  La generazione nata negli anni Novanta e sui banchi dai secondi anni Zero è stata quella che ha visto quel divario diventare un orizzonte infinito. L’ 11 settembre, sei anni dopo la crisi economica ma soprattutto lo snodo che segna una discontinuità epocale: la digitalizzazione delle società avanzate e il passaggio dal web 1.0 o web statico al web 2.0 social. L’hardware si potenzia esponenzialmente, dai mega si passa ai giga in tasca, la rete conquista la banda larga e qualcuno inizia a intuire le nuove frontiere. Nel 2004 Youtube mette in rete il primo video, MySpace vive la propria stagione di gloria tra il 2003 e il 2007 e crea una nuova socialità digitale. Nel 2007 esce il primo iPhone e la rete finisce nelle tasche delle persone. Facebook esiste già dal 2004, alla fine del decennio arriverà WhatsApp (2009) e infine Instagram (2010). Il mondo nuovo è anzitutto un mondo che comunica in modo nuovo, inedito, impensabile fino a qualche anno prima. Infine la generazione nata negli anni Zero, quella che abbiamo avuto in classe questa mattina, quella che non usa più la parola cellulare ma semplicemente telefono perché quello è l’unico telefono concepibile. La generazione eternamente connessa e che ha dimenticato del tutto la Tv generalista ma si ingolfa di serie su Netflix, quella dell’io-Instagram e dello smartphone che oramai può e fa tutto, quella dei gruppi, dei millanta messaggi e notifiche su WhatsApp. Tre generazioni segnate da uno snodo fondamentale, spartiacque: il passaggio dal web statico al web 2.0 e la progressiva digitalizzazione totale delle società avanzate avvenuto a metà degli anni zero. Ma mentre la generazione nata negli Ottanta e quella nata nei Novanta partecipa agli albori e alla fase primordiale del mondo digitalizzato, la generazione Zero è la prima generazione anche anagraficamente del tutto contemporanea al mondo digitale. In una semplice ma esatta definizione, la prima e autentica generazione digitale.

Un nuovo essere

Se oggi è nei fatti che il digitale sia il reale (al netto di giapponesi sull’isola che comunque usano anche loro bancomat, gps e messaggistiche varie) la generazione Zero è anzitutto un nuovo essere informato alla radice da questa realtà. Il primo banale esempio riguarda l’estensione dell’io di un adolescente nel proprio mondo social. Sarebbe impensabile oggi per un genitore, insegnante, educatore che sia, pensare l’identità di una ragazza o di un ragazzo prescindendo dalla rappresentazione del proprio sé nel mondo digitale, che diventa una vera e propria estensione del proprio io. Un adolescente oggi è anche e soprattutto l’immagine che condivide di sé e che conferma ogni giorno a suon di post. Siamo ciò che connettiamo (e un adolescente è più che mai ciò che connette) e questo muove a riflessione su come la risposta della comunità educativa a questa evidenza sia spesso monca. Penso ad esempio alla notevole attenzione posta (a suon di progetti e di polizia postale a scuola) su fenomeni deteriori come cyberbullismo e adescamenti in rete, che certo esistono e vanno affrontati, ma che non esauriscono affatto la vera evidenza di un mondo adolescente che oggi abita in toto il web. Un po’ come certi genitori di un tempo che non facevano uscire i figli per paura dei pericoli, si rischia spesso di profondere (giusti) sforzi per arginare i rischi del digitale, dimenticando però la normalità e l’evidenza della stragrande maggioranza dei ragazzi e delle ragazze che quel che mondo lo abiteranno comunque (anche scappando dalla finestra), senza per questo necessariamente incappare in quei vicoli bui. In questo senso sembra decisivo lo spazio di riflessione e rielaborazione che la scuola può destinare a questioni fondamentali come, giusto per citarne qualcuna, quella delle persistenze sulla rete, della comunicazione e della relazione attraverso il mezzo, del peso della cristallizzazione della propria autonarrazione continua a fronte di uno stato mutevole come quello adolescenziale.

Un nuovo conoscere

Altrettanto scontato (ma lo è davvero?) pare riflettere su come il digitale abbia determinato nella generazione Zero un nuovo paradigma conoscitivo. È vero, Deleuze e Guattari ci hanno raccontato decenni fa della fine del pensiero gerarchico, dell’orizzontalità rizomatica. Parliamo di fine del pensiero sequenziale fin dai tempi di McLuhan. L’istantaneità e l’ubiquità della comunicazione visiva e mediatica la descriveva Benjamin in quella che è un’era storica fa. Eppure la scuola fino a ieri è sembrata quasi impermeabile all’idea del mutamento di un modello di trasmissione deduttivo, concettuale, sequenziale. La generazione Zero, da questo punto di vista sembra rappresentare un punto di non ritorno. È esperienza di tutti lo sfogo dell’insegnante che recrimina di non essere assolutamente ascoltato, se non per pochi minuti, da ragazzi evidentemente peggiorati. Non è vero che i ragazzi siano peggiorati: semplicemente capiscono e imparano in modo diverso. In modo pedante (e io credo semplificatorio) si potrebbe dire che dall’ipotassi del pensiero gerarchico, valido per le passate generazioni di studenti, con la generazione Zero si passa definitivamente alla paratassi delle connessioni multiple, che la struttura di apprendimento non è più sequenziale ma strutturata a grafo, fatta di nodi e di archi. Si potrebbe dire anche che una comunicazione deduttiva, fatta di numerosi gradi, ridondante nello sviluppo delle idee e gerarchica nella struttura oggi non funziona più e che invece una didattica modulare, autoconclusiva a ogni passo, intercambiabile nei processi sia più aderente alla nuova realtà. In realtà credo si tratti di un mutamento assai complesso, che sconta la prima difficoltà proprio nella tentazione di ridurre a paradigmi limitatamente logici ciò che invece richiede un vero e proprio processo di ridefinizione della comunicazione e recezione culturale. Ma anche a voler adottare un punto di vista più esperienziale si potrebbe osservare come anche dentro il digitale stesso questo snodo sia visibile, per come ad esempio Facebook sia irrimediabilmente oramai un posto per trentenni e oltre, proprio perché troppo scritto (e quindi a suo modo ipotattico) a differenza di Instagram, luogo naturale di vita dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze, dove l’immediatezza iconografica corrisponde in modo molto più identitario al loro codice relazionale, sia esso nei termini del racconto di sé (una mia immagine dice molto più di un mio dire), sia esso nei termini del guardare fuori di sé (lo scrolling continuo della timeline di Instagram). In modo più o meno consapevole la scuola ha cercato di governare e gestire questi cambiamenti che come detto durano almeno da trent’anni e che oggi raggiungono la loro stagione matura. Spesso si è corso il rischio di illudersi di potere fare fronte alle nuove sfide limitandosi a un aggiornamento tecnologico, necessario ma non sufficiente, specie tra coloro che arrivando tardi al digitale hanno subito l’infatuazione del «ma guarda tu quante cose nuove si possono fare». Molto spesso a fronte di buone intenzioni la scuola ha pensato di potere rivitalizzare i modelli semplicemente rivestendoli dell’abito digitale. Quanti Power point intesi come mera esposizione di postulati sintetici (meglio allora, nemmeno troppo paradossalmente, la vecchia lavagnata scritta a mano dove almeno lo studente assiste alla costruzione del pensiero) e quante applicazioni su tablet all’insegna della ricerca dell’effetto hype, carino per qualche minuto ma di cortissimo respiro didattico, hanno fallito nel tentativo di riaprire un patto didattico che è andato sempre più vacillando? La stessa lezione frontale (ma quale lezione frontale?) è sembrata diventare capro espiatorio, sacrificato il quale la didattica avrebbe ripreso a funzionare. Oggi in tanti constatano come si tratti piuttosto di riconsiderare nella propria riflessione (e quindi nella propria prassi) uno snodo epistemologico che, va detto a smascherare un altro fraintendimento, non ha a che fare con una riduzione o semplificazione delle conoscenze. Tutt’altro. Il nuovo contesto ha portato piuttosto all’aumento esponenziale delle possibilità conoscitive, così tanto da indurre un movimento prevalentemente orizzontale in un panorama che si è ampliato a dismisura. Ma ciò non ha intaccato affatto la possibilità di recuperare spazio di analisi e di complessità, anzi proprio in ciò mi pare risieda la grande opportunità del docente che, pur vedendo anche lui quanto sia diventata estesa la città del conoscere, è chiamato a governare quella che comunque è la grande grande spinta da parte dei ragazzi e delle ragazze a percorrerla, seppur in modo disordinato e per vie spesso inutili, condividendo (e non stigmatizzando) la meraviglia per il continuo mutare di orizzonte, ma anche in modo condurli e infine a farli sostare difronte alle cattedrali più belle e degne d’attenzione. Gino Roncaglia, a cui la stesura di questo contributo deve molto, parla della missione educativa nei termini di recupero di una dimensione complessa a fronte della disgregazione granulare operata dalla rete. Se ci pensiamo bene, da insegnanti, è proprio questo il punto nevralgico agendo sul quale l’azione didattica potrebbe tornare a incidere.

Noi e loro

«Sì ok, ma allora, poi in classe cosa faccio» riecheggia già da qualche riga la voce dell’insegnante pragmatico. Personalmente sono convinto che mai come oggi il momento dell’analisi sia necessario al fine di una sintesi che poi funzioni anche in classe. E l’analisi sul chi siano questi nuovi ragazzi credo sia vitale. Mi rendo conto di quanto sia complicato andare a fondo di un’osservazione di questo tipo. Troppo spesso il dibattito su un tema di tale portata, sia esso squadernato sui media, al collegio docenti, fino al tavolino del bar, finisce per appiattirsi sulla polarizzazione secca tra sui presunti innovatori e conservatori. Anche il solo mettere insieme queste riflessioni mi ha fatto sperimentare ancora una volta tutta la difficoltà e il senso di incompletezza che si patisce al voler tentare di definire i confini di quella che è anzitutto una grande mutazione antropologica. Per fortuna molti insegnanti che non dimenticano la propria funzione intellettuale non si tirano indietro, studiano, affrontano la complessità con grandi risultati: sono i colleghi che cerco quasi in modo ossessivo, sui corridoi ma anche sul web tra i gruppi, che tempesto di domande, ai quali chiedo consigli ed esperienze. Anche la rete e l’accademia da questo punto di vista possono rendere un grande servizio. Resta il fatto che a nessuno è scontato il dovere dello sforzo conoscitivo, il passo necessario affinché la consapevolezza diventi poi, anche e certamente, prassi che funzioni.  In uno degli ultimi incontri pubblici tenuto proprio nella mia città, Perugia, Zygmut Bauman, uomo del Novecento, parlò delle grandi prospettive portate in grembo da questi nuovi scenari. Certo, mise in guardia anche dalle derive che tutti conosciamo, ma insistette molto difronte alla grande prospettiva di libertà alla portata delle nuove generazioni proprio a partire dalla mutazione digitale, nuove generazioni che lui stesso apostrofò come «tutte ancora da conoscere». Ecco, il mettere a tema una questione di fondo così decisiva credo sia anzitutto un persistere nella convinzione che, non indietreggiando difronte all’alta sfida che ciò impone, il futuro della scuola esista e sia un futuro degno.  


Fotografia: G. Biscardi, Gorillaz, Palermo 2016.

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