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diretto da Romano Luperini

pierluigi cappello

Pierluigi Cappello, il poeta che sapeva cogliere il «centro delle cose»

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

La necessità della poesia

Quando uno scrittore o un poeta di fama muore, il suo destino immediato è quello di essere sottoposto al vaglio del toto-maturità: quante probabilità ci sono che la sua opera e la sua figura siano argomento dell’esame di Stato di quest’anno? Dubito che ciò accada per Pierluigi Cappello, morto all’alba di domenica 1° ottobre. I giornali hanno dato, sì,  notizia della sua scomparsa, ma in tono minore, com’era del resto consono alla sua persona schiva. Per lo più, a ricordarlo sono stati i suoi amici: Eraldo Affinati, scrittore e viaggiatore, in un articolo sul quotidiano «la Repubblica» ha rievocato il progetto impossibile e tuttavia continuamente accarezzato di un viaggio insieme nel cuore dell’Europa; Maurizio Crosetti, giornalista sportivo di rara sensibilità, saltando ogni ostacolo imposto dalle norme del “coccodrillo”, ha dichiarato su Repubblica.it una semplice quanto straziante verità: che «Pierluigi era un uomo bellissimo»; Massimilano Castellani ha scritto su «Avvenire» che l’amico Pierluigi «sapeva sorridere, di una risata dolce e contagiosa, di tutto, anche della sua condizione di disabile»; Alessandro Fo, latinista e poeta, sulla sua pagina Facebook ha descritto la casualità che ha voluto che il suo incontro con Cappello avvenisse nel nome di Rutilio Namaziano, un poeta tardolatino solitamente misconosciuto perché relegato nelle ultime pagine del manuale di letteratura. Pochi esempi di una fitta schiera di amici che hanno testimoniato «col cuore in lacrime» l’intimo tesoro di affetti, ricordi, pensieri e sorrisi che Pierluigi sapeva distribuire pur dalla carrozzella su cui si muoveva. Perché era un poeta che aveva scelto la solitudine, ma non era un uomo solo. A sostenerlo, da una Milano incredibilmente distante per chi si muova confidando solo su treni e corriere, è stata da sempre Anna De Simone, non solo curatrice delle opere di Cappello, ma autentico angelo custode e radar infallibile a captare le affinità elettive e a metterle in contatto con quel giovane ferito eppur paziente e umile, che fino a poco tempo fa aveva abitato in una casetta precaria, dono solidale del governo austriaco ai terremotati del Friuli, ma negli anni sempre più dissestata. Io stessa devo ad Anna il privilegio di aver conosciuto questo poeta vero: il maggiore, forse, della sua generazione, attento, però, a sottrarsi agli occhi deformanti e intrusivi dei media, di cui peraltro si serviva con discrezione per diffondere la poesia.

Eppure Pierluigi era un poeta molto letto e amato, che si era meritato importanti riconoscimenti: aveva vinto il premio Viareggio, aveva ricevuto la laurea honoris causa dell’Università di Udine, aveva ottenuto il premio letterario internazionale «Terzani», ed è stato l’ultimo poeta insignito del premio Montale, un premio nobile che «poi – come sottolineava autoironico – non è stato più assegnato e io sono l’unico che per mancanza di fondi non ha ricevuto l’assegno». Ed era altresì un poeta che aveva saputo catturare anche lo spirito pop di Jovanotti, che ha firmato la prefazione della sua ultima raccolta dal titolo allusivo Stato di quiete (Rizzoli).

Era un poeta, sì, ma avrebbe potuto essere anche un atleta (era stato un promettente centometrista), e un pilota di aerei (il volo era la sua passione fin dai tempi delle elementari), se a sedici anni, in uno sventurato pomeriggio, non avesse accettato un passaggio in moto da un amico. Di lì a poco, la moto uscì di strada, finì contro una roccia, l’amico morì, Pierluigi riportò lesioni gravissime, che hanno trasformato la sua esistenza in un calvario ospedaliero, e l’hanno costretto poi per sempre su una sedia a rotelle: una gabbia nonostante la quale la sua poesia è pur scaturita. «Per scrivere bisogna poter mobilitare tutte le risorse, avere la disponibilità di un corpo che ti risponde. La scrittura passa per una unità biologica fatta di testa e corpo. Avere intere regioni che non comandi richiede uno sforzo enorme»: così Pierluigi ebbe a rispondere, in un’intervista  del 2013, a chi gli chiedeva se scrivesse grazie alla malattia oppure nonostante la malattia. «Nonostante tutto, la poesia arriva», affermava (perché, di fatto, solo una cosa riusciva a farlo arrabbiare, ed era quando qualcuno gli diceva che si era potuto dedicare alla poesia proprio in quanto impedito nel corpo…).

La biografia di Pierluigi Cappello è segnata da pochi, ma decisivi avvenimenti: il terremoto, l’incidente, le tappe della carriera poetica. Cappello era nato a Gemona nel 1967, ma era originario di Chiusaforte, piccolo comune del Friuli, terra di montagna e di confine, il luogo della sua adolescenza, che lui descriveva come «una sottile linea di case infilata in un canale». Dopo il terremoto che il 6 maggio 1976 distrusse Gemona, è vissuto per anni a Tricesimo, in provincia di Udine. Da questo luogo appartato si è dedicato agli studi, alla poesia, attento e partecipe agli accadimenti del mondo, sebbene a distanza. Nonostante il disagio che gli procuravano i viaggi pur brevi, si recava di tanto in tanto a parlare nelle scuole. Nel 2006 ha pubblicato quasi tutte le raccolte delle sue poesie in Assetto di volo (Crocetti Editore); per questo libro ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisa. È del 2010 il riconoscimento più prestigioso: il premio Viareggio per la raccolta Mandate a dire all’imperatore. Si recò a riceverlo personalmente, affrontando una traversata dell’Appennino tanto faticosa quanto gioiosa, in ambulanza, assistito e festeggiato da una corona di amici. Una summa della sua produzione poetica è contenuta in Azzurro elementare. Poesie 1992-2010 (Rizzoli 2013). Ha scritto anche una raccolta di filastrocche usando “parole bambine” dedicate alla nipotina Chiara (Ogn goccia balla il tango, Rizzoli 2014). Nel 2014 ha pubblicato il romanzo autobiografico Questa libertà (Rizzoli). Nonostante la salute sempre più compromessa, ha pubblicato infine Stato di quiete. Poesie 2010-2016 (Rizzoli, 2016). Gli ultimi anni li ha trascorsi a Cassacco, dove il 1° ottobre 2017 si è spento, o – per meglio dire – se ne è andato verso inniò, ossia “in nessun dove”, se così possiamo tradurre l’antica parola friulana che dà il titolo a una sua poesia: «Jo? Jo o voi discôlç viers inniò» (Io? Io vado scalzo verso inniò). 

***

La misura dell’erba

Cappello era poeta bilingue, come Pasolini, e usava i due strumenti espressivi in un movimento pendolare tra cose che chiedono di essere dette in friulano e cose che chiedono di essere dette in italiano: si poneva davanti al dialetto come a una lingua che può ancora esprimere la verginità di un’alba, pur nella constatazione della perdita ormai definitiva della civiltà contadina cui quella lingua, e con lei i parametri culturali da essa espressi, appartenevano. Contemporaneamente, lavorava in un italiano sorvegliatissimo, colto ed essenziale, sempre sottoposto al labor limae. Il poeta è un vasaio – sosteneva – l’ultimo artigiano rimasto. Per lui la poesia era uno sguardo pulito sulle cose che lascia le cose come stanno, illuminandole dall’interno, e questo richiede una misura severa. Come si legge in questa lirica, autentico manifesto morale prima ancora che artistico:

                  La misura dell’erba

Attieniti alla misura dell’erba

di questo prato che è largo

quanto si stende di verde

è qui che sei approdato, adesso;

ti sei svegliato

hai inforcato gli occhiali

hai calzato le scarpe

hai camminato, perfino:

per questo è plausibile

che ogni soffio di brezza

sia un bacio di Armida

che il prato sorrida

com’è scritto nei libri.

(Da La misura dell’erba, edizioni Gallino, Milano 1998, poi nella raccolta Assetto di volo, Crocetti, Milano 2006)

A volte, l’orizzonte poteva estendersi più lontano, e così pure poteva dilatarsi la misura del verso e della poesia per abbracciare le generazioni che hanno abitato in quegli aspri territori della montagna friulana: ombre recuperate alla memoria, figure semplici, ingenue, destinate a essere inghiottite in un opaco e repentino oblio, se il poeta non le chiamasse per nome, sognando di poter camminare con loro (lui che non poteva camminare!) «a misura del passo del tramonto». La poesia si fa quindi epica del paese che «sta fermo nel mondo», epica operosa degli umili «scampati al tiro della storia»: come lo stesso padre di Cappello, fotografato mentre «torna per sempre nella sua cerata verde/bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere». È appunto ciò che leggiamo in questa poesia tratta dalla raccolta Mandate a dire all’imperatore, che è valsa a Cappello il premio Viareggio:

            Ombre

Sono nato al di qua di questi fogli

lungo un fiume, porto nelle narici

il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio

di quando nevica, la memoria lunga

di chi ha poco da raccontare.

Il nord e l’est, le pietre rotte dall’inverno

l’ombra delle nuvole sul fondo della valle

sono i miei punti cardinali;

non conosco la prospettiva senza dimensione del mare

e non era l’Italia del settanta Chiusaforte

ma una bolla, minuti raddensati in secoli

nei gesti di uno stare fermi nel mondo

cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste

di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa

di falda in falda, dentro il buio. E il gatto che si stende

in questi posti, sulle lamiere di zinco, alle prime luci

di novembre, raccoglie l’aria di tutte le albe del mondo;

come i semi dei fiori, portati, come una nevicata leggera

ho sognato di raggiungere i miei morti

dove sono le cose che non vedo quando si vedono

Amerigo devoto a Gina che cantava a voce alta

alla messa di Natale, il tabacco comprato da Alfredo

e Rino che sapeva di stallatico, uomini, donne

scampati al tiro della storia

quando i nostri aliti di bambini scaldavano l’inverno

e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri

oltre gli sguardi delle guardie confinarie

un odore di cipolle e di industria pesante premeva,

la parte di un’Europa tenuta insieme

da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi.

Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto

da una mano anonima, geniale

su di un muro graffito alla periferia di Udine,

il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate

nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io.

E qui, mentre intere città si muovono

sulle piste ramate degli hardware

 e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato,

mio padre torna per sempre nella sua cerata verde

bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere

come fosse eternamente schiuso.

Se siamo ancora cosa siamo stati,

io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia,

che portava in casa un odore di traversine e ghisa

e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall’ombra

si raduna nei miei occhi

da occidente a oriente, piano piano

a misura del passo del tramonto, bianco;

e anche se le voci del mondo si appuntiscono

e qualcosa divide l’ombra dall’ombra

meno solo mi pare di andare, premendo un piede

dopo l’altro, secondo la formula del luogo,

dal basso all’alto, seguendo una salita.

(Da Mandate a dire all’imperatore, Crocetti, Milano 2010)

Se un tempo gli antichi aedi consegnavano alla memoria le gesta degli eroi vissuti esclusivamente per il kléos acquistato presso i posteri, oggi il poeta montanaro, che conosce i silenzi della montagna e il respiro lieve della neve che cade, sa che il suo compito è invece quello di difendere il ricordo minimo di «ciò che resta delle cose convocate / nello scorrere dei volti chiamati». E Cappello, pur mettendo in campo la propria solitaria battaglia con se stesso, tra parola e corpo, si identifica come poeta in quanto, ancor prima di esser tale, appartiene alla propria comunità: «Sono nato al di qua di questi fogli». Perché dalla casualità, dagli accadimenti dolorosi della vita – fragilità, terremoti, incidenti – ci si salva soltanto conoscendo gli altri e riconoscendosi negli altri. 

L’ultima raccolta, Stato di quiete, si chiude con una breve lirica separata da un foglio bianco, e presentata in corsivo, senza alcun titolo. La considero il sigillo che il poeta appone alla sua vita, e alla sua opera, l’una e l’altra condensate in pochi, essenziali motivi: la vicinanza alla natura e ai giochi infantili, la fede nelle parole che sanno cogliere e proteggere il centro più intimo della realtà.

Costruire una capanna

di sassi, rami, foglie

un cuore di parole

qui, lontani dal mondo

al centro delle cose,

nel punto più profondo.

         (Da Stato di quiete. Poesie 2010-2016, Rizzoli, Milano 2016)

***

Questa libertà

Il romanzo autobiografico Questa libertà meriterebbe di essere letto in tutte le scuole: è una storia di formazione e di “resistenza”, una storia di dolore eppure di letizia, di costrizione eppure di libertà:

«In questo libro ho cercato di dire come una libertà, la mia, sia germinata dai luoghi vissuti da bambino e poi abbia preso il volo dal mio incontro con la lettura. Non credo esista un mezzo di trasporto più veloce dell’immaginazione; così come non penso esista un propellente più efficace di questa per spingere la nostra libertà al di fuori di noi stessi» (pp. 8-9).

Ed è questa stessa libertà dell’immaginazione che Pierluigi cercava di istillare nei ragazzi che lo ascoltavano nelle scuole:

«Quando mi trovo a fare delle lezioni nelle scuole, a un certo punto, per spiegare ai ragazzi come lavora la poesia, li invito a chiudere gli occhi mentre pronuncio una parola. La parola “albero”, per esempio. Poi chiedo loro di raccontarmi l’immagine di albero che si sono fatti nella testa: battuto dalla luce o in ombra, d’inverno senza foglie o fiorente nell’estate, nel vento o sotto la pioggia, inquadrato in una radura da lontano o tanto vicino da avvertirne il sussurro. Non c’è mai un albero uguale all’altro. Ecco che cos’è per me la libertà. E la scrittura serve proprio ad accendere questa potenza che vive in noi» (p. 8).

Descrivere qualcuno, o qualcosa, un oggetto o un evento, è uno degli esercizi che si pretendono per primi dagli alunni delle scuole primarie non appena abbiano preso un poco di dimestichezza con la parola scritta: i bambini vengono sollecitati ad un approccio naïf, e non di rado se ne ottengono risultati felici, pieni di fantasia, che sembrano confermare il pregiudizio secondo cui la scrittura sarebbe un dono innato. Di certo lo è, ma la scrittura è anche conquista, e in ogni caso ha bisogno di cure, nutrimento, sostegni, come una qualsiasi piantina che si voglia coltivare. Ad esempio, Cappello descrive nel libro l’esperienza terribile del terremoto vissuta quando aveva nove anni: la freschezza, la fantasia e lo sgomento del bambino di allora si fondono con la riflessione, la cultura, la perizia “tecnica” del poeta che ricorda il cataclisma rovinoso, dando vita a pagine esemplari di quella che Calvino intendeva per “visibilità”. 

 «Non c’è niente di più ampio dell’immaginazione dei bambini: è un cosmo che fa zampillare dal suo nero lo splendore delle stelle. Il 6 maggio 1976 alle 21.02, con il primo boato del terremoto, la fantasia di tutti i bambini friulani si riunì e si espanse come una dolente, gigantesca bolla per accogliere entro i suoi confini una nuova regione, la regione di un terrore primordiale da animali spaventati. Il presente immutabile venne scagliato in bocca a un futuro buio, privo di dimensione. Il secondo boato sollevò il solaio della grande casa che era nata con la guerra e le tegole lasciarono il tetto come uno stormo di uccelli terrorizzati, il canto di un mondo si sgretolò e versò il contenuto della sua ferita in forma di pietre macinate sul prato […].

Il mattino dopo, tutto apparve chiaro. Il tetto era crollato sul solaio, lo zigzagare di crepe ampie anche mezzo metro stringeva le pareti come un’edera maligna, un angolo di muro dalla parte dell’aia si era abbattuto sull’orto. Perfino io capii che non c’era rimedio, non avevo ancora nove anni quando accadde. Papà entrò in casa, la porta era saltata via dai cardini, ne uscì con poche cose, qualche coperta, del cibo, delle uova, pane, vino. Scendemmo il colle dalla parte più selvaggia, quella rivolta verso l’uscita della galleria, per evitare il borgo pericolante. Eravamo sei persone in tutto: mia madre davanti, con mio fratello piccolo in braccio, accanto a lei la zia, dietro mio padre sorreggeva la nonna, che non avevo mai visto così disarmata. […]

Mi voltai più volte scendendo, e a poco a  poco vidi scomparire la grande casa che non era stata fermata da due guerre. Contro il cielo che si metteva al brutto, sembrava il relitto disalberato di una nave» (pp. 51-53).

Per la prima volta, Cappello narra anche dell’incidente che lo ha costretto per sempre su una sedia a rotelle: il ricovero in ospedale, la riabilitazione. E soprattutto la salvezza che, in tutto quel tempo, gli hanno offerto le letture: i versi di Montale resi tangibili dall’esperienza vissuta (Sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia), e soprattutto il Moby Dick, letto non più arrampicato su un albero come amava fare un tempo, ma disteso supino, con la tenace volontà di riconquistare la forza delle braccia per poter sorreggere il libro.

«Avvenne un’altra cosa durante quella lettura. Se Moby Dick mi allontanava dalla povertà del mattino, quando gli infermieri mi medicavano le piaghe e mi voltavano e rivoltavano a letto per un’ora buona, e mi portava al largo durante i pomeriggi, un poco per volta mi riavvicinò al mio corpo. Per leggere, disteso com’ero, appoggiavo il libro sulla parte insensibile del mio petto. Un’operazione che, di necessità, mi costringeva ad avvicinare le braccia alla parte di tronco che non sentivo: come se il mio corpo, tutto il mio corpo, si stringesse e si addensasse intorno alla lettura. Senza accorgermene, ristabilii un poco per volta la confidenza con me stesso. […]Una fuga terminò con un ritorno» (p. 159).

Il racconto di sette mesi passati a letto (sette mesi!) giunge a questa conclusione:

 «Non so con certezza se si stata la lettura di Moby Dick ad avermi costretto fisicamente ad avvicinare le braccia al tronco insensibile, permettendomi la riconquista del corpo, o non, piuttosto, quella potente forza biologica», ovvero «l’istinto di sopravvivenza che ha reso possibile all’essere umano la conquista di ghiacci e deserti» (p. 167).

Di una cosa, comunque, Cappello era certo:

«Ciò che è rimasto in piedi e che ha rappresentato la linea continua tra la vita di prima e la vita di dopo, è stata la letteratura » (p. 169).

Il racconto autobiografico si conclude col ricordo dell’uscita «dal ventre tiepido dell’ospedale», accompagnato dal padre, il sedici marzo 1985.

«Fuori, al di là del vetro della porta automatica, il piazzale era stranamente vuoto, deserta la pensilina degli autobus. Faceva freddo quel giorno di marzo, il cielo color metallo era tagliato dal vento e trascinava una pioggerella ostile.

Quando Cortez sbarcò sulle coste del Messico, fece bruciare le navi. Con quel gesto intendeva spingere dentro la polpa di un mondo sconosciuto il coraggio dei suoi archibugieri. Innervato dalla disperazione, quel coraggio sarebbe diventato ferocia e quella ferocia avrebbe abbattuto un impero. Nel momento in cui mio padre prese la borsa da viaggio, io, senza la ferocia di Cortez, con una spinta decisa della carrozzina, lasciai bruciare le mie caravelle alle spalle. Davanti, la porta automatica si spalancò su un continente ignoto» (pp. 171-172).                 

La conclusione è quindi nel segno di un nuovo inizio, l’inizio di un viaggio nell’ignoto: un viaggio che non è finito adesso con la morte del poeta, ma continua nei suoi lettori, attraverso le sue parole scritte.

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