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diretto da Romano Luperini

len 20141201 0048

Le strade e le forme d’esperienza nella letteratura italiana del secondo Novecento. Morante, Lodoli, Tondelli e Calvino

 Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva per tutto il mese di agosto. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Lo specifico della letteratura: tempo o spazio?

Affrontare il tema dello spazio, suggerisce Genette, porta ad interrogarsi sui rapporti che le arti e la letteratura intrattengono con questa dimensione. Certo, il nostro immaginario connette con più immediatezza tale immagine ad arti più specificatamente spaziali quali la pittura, la scultura o l’urbanistica. Viene, dunque, da chiedersi se lo specifico della letteratura sia appunto lo spazio, o se piuttosto questa non costituisca che una cornice in cui dipanare il filo delle vicende. Se, allora, ci si appresta ad analizzare un elemento come la strada in alcuni testi della nostra produzione narrativa, si dovrà preliminarmente affrontare una questione specifica: quali interrogativi ha sollevato la rappresentazione dello spazio in letteratura? 

‘La letteratura è tempo’ o ‘La letteratura è spazio’?
Nel saggio Laocconte (1776) Lessing rimarca la natura strettamente temporale della letteratura, fondata su un criterio di successione degli eventi. Ciò che è statico in narrativa deve essere presentato in modo non statico: Omero, per esempio, non descrive la bellezza di Elena, ma mostra gli effetti che ha sugli anziani di Troia (lib. III, vv.152-160).
Il pensatore tedesco, quindi, assegnando il primato indiscusso del tempo alla produzione letteraria e vincolando, invece, l‘arte figurativa alla staticità dello spazio, infrange il principio estetico classico che aveva dominato per secoli, fondato sulla identificazione fra poesia e pittura. Il detto di Simonide «la pittura è una poesia muta e la poesia una pittura parlante», giunge ad Orazio che enuncia il principio dell’ ut pictura poësis, fondante il rapporto di reciprocità fra arte figurativa e arte poetica.
Che si sia andata affermando una dimensione fortemente narrativa nella tradizione seguente lo testimoniano opere come quelle di Ariosto e Tasso: un vorticoso succedersi di eventi labilmente intercalati da elementi descrittivi. La frequenza dei fatti, incalzati da un vivace senso dello scorrere del tempo, si riverserà poi nei romanzi picareschi del ‘600 e quindi del ‘700, riducendo la componente spaziale a debole contenitore di intrecci.

Spazi novecenteschi: la strada
Ora, questo primato del tempo nella narrazione pare messo in discussione dalla cultura novecentesca che ha enfatizzato, invece, l’elemento spaziale in letteratura – si pensi al valore degli ambienti chiusi, per esempio in Kafka, ma anche oltre nel Noveau roman e nell’École du regard. Anche la critica degli anni ’60 e ’70 del ‘900 ha riservato grande attenzione allo spazio pervenendo a soluzioni interpretative che per decenni hanno fatto scuola e alle quali ci si è rifatti per le proposte di letture che qui vengono avanzate: pensiamo soprattutto a Bachtin, per l’elaborazione del concetto di cronotopo, e Lotman, per la relazione indagata fra spazio e cultura. Modelli critici questi che si cercherà, in questa sede, di far dialogare con testi a nostro modo di vedere rappresentativi della produzione narrativa italiana fra gli anni ’60 ai ’90 del secolo scorso, in cui l’immagine della strada emerge come immagine-simbolo della natura spaziale della sensibilità del nostro tempo: La strada di San Giovanni di Italo Calvino (1962), La Storia di Elsa Morante (1974), Autobahn di Pier Vittorio Tondelli (1980) e Crampi di Marco Lodoli (1992).
Per affrontare materiali così eterogenei, scartata la prospettiva cronologica, ci si muoverà lunga una trama di interrogativi-guida, quali la natura reale o immaginaria delle stesse e la loro capacità di innescare il processo narrativo. L’elemento spaziale fa fermare il tempo fino a spegnerlo? La presenza della strada nel testo fa prevalere l’elemento descrittivo o l’elemento dinamico? conferma i personaggi nella loro identità o li muta, attivando un processo di formazione o almeno di trasformazione?

Lungo la strada: il Male della Storia: Elsa Morante
Da La Storia abbiamo scelto due episodi al centro dei quali troviamo rispettivamente Gunther e Ida, protagonista insieme al figlio Useppe. Il torrenziale romanzo si apre proprio con l’immagine del giovanissimo soldato tedesco che, nell’attesa di essere imbarcato per l’Africa, si concede una passeggiata nel quartiere San Lorenzo a Roma (gennaio 1941). Nel suo vagabondare non c’è nulla di picaresco, anche l’imbattersi in una taverna non produrrà avventure mirabolanti ma solo uno stordimento dei sensi. Stordimento che gli farà crescere «la voglia impossibile d’esser a casa», così da fargli percepire quel vuoto affettivo che solo una figura femminile potrebbe placare e che accidentalmente prenderà le forme del corpo sciupato di Ida, posseduta dal ragazzo-soldato in cerca di calore, ma inconsapevole portatore di una brutale disumanità. Nel secondo passo prescelto – estate ’43- Ida e il figlio Useppe, frutto della violenza subita, sono all’altezza dello scalo merci quando avvertono un rombo sopra la testa: si tratta del primo bombardamento che colpì Roma. In entrambi gli episodi i due personaggi si muovono in un ambiente cittadino, nel perimetro del quartiere di San Lorenzo, fra il limite dello snodo ferroviario, il cimitero del Verano e la via Tiburtina. Nel secondo passo Ida sta rientrando a casa da una delle solite escursioni dedicate all’affannosa ricerca del cibo, quando lei e il figlio vengono colpiti dai calcinacci caduti dai palazzi colpiti dalle bombe. In entrambi i casi l’elemento spaziale presenta un debole tasso descrittivo: Gunther sembra non veder nulla intorno a sé, chiuso com’è nel suo mondo interiore. Più rilevante è invece la sua presenza nell’episodio del bombardamento: l’autrice, infatti, non può non soffermarsi a descrivere gli esiti distruttivi prodotti dall’azione militare. L’elemento spaziale nelle due pagine assume, dunque, una chiara valenza narrativa, trasformandola in un evidente cronotopo. Con questo termine, com’è noto, lo studioso russo Bachtin definisce quella che lui chiama «l’interconnessione sostanziale dei rapporti temporali e spaziali»: l’evento diventa immagine, materializzandosi nello spazio. La strada rende effettivamente visibile gli eventi; lungo la strada, imbattendosi in Ida, Gunther si trasformerà da ingenuo ragazzo proveniente dalla campagna bavarese di Dachau, in violento assalitore. Ida, a sua volta, incontrandolo, lungo via dei Volsci verrà travolta dalla furia del giovane. L’intreccio romanzesco scatta proprio a seguito di questo stupro che provocherà la maternità di Ida e successivamente la nascita di Useppe, la cui fragile esistenza accompagnerà per pochi anni quella della madre. La strada si fa immagine di una esperienza, agìta dal soldato nel momento in cui esercita violenza, subìta dalla donna nell’atto della sua violazione.

Se ci volgiamo invece alla prospettiva tracciata da Lotman («Giudizi, pensieri, occupazioni, professioni…tutto questo si inquadra in alcuni modelli di mondo costruiti nettamente con segni spaziali»), si potrà verificare come nell’episodio di cui è protagonista Gunther essa si associa all’immagine del vuoto: iato da colmare, materializzazione dell’attesa di un futuro ignoto. Il come ci viene detto chiaramente dal narratore onnisciente: «l’unica cosa che in quel momento lui andasse cercando, d’istinto, per le vie di Roma, era un bordello… perché si sentiva troppo solo; e gli pareva unicamente che dentro un corpo di donna, affondato in quel nido caldo e amico, si sentirebbe meno solo». Nel seguire i suoi passi si ricostruisce la dimensione interiore che il personaggio porta con sé, all’intersezione fra l’immagine di un’Africa, cui è destinato per missione di guerra e il ricordo affettivo-nostalgico della casa d’origine, associato agli odori domestici e soprattutto alla figura materna. L’andar per strade produce l’affioramento di una percezione familiare, la voglia di fare tana, più che un luogo, una persona, uno spazio rassicurante degli affetti: «qualsiasi creatura femminile capitata per prima su quel portone … lui sarebbe stato capace di abbracciarla di prepotenza, magari buttato ai piedi come un innamorato, chiamandola: meine mutter!». La strada materializza il disagio, il disorientamento, ma la Morante riesce a trascendere dal microcosmo individuale, essa trasforma la storia, ossia la vicenda privata di Gunther – mite ragazzo di campagna divenuto stupratore- in Storia, in tempo puro che prende corpo in quello che agli occhi della scrittrice ne è il volto specifico, cioè la violenza.
Questa stessa visione è rintracciabile anche nel secondo passo selezionato. Qui le strade prendono la forma di un terreno di caccia dove Ida si avventura per la sopravvivenza, in cui recuperare cibo ma soprattutto divengono la raffigurazione di un evento, il ‘bombardamento’, dando forma al cronotopo bachtiniano. Al contempo, è attivabile anche la lettura lotmaniana: la strada è minacciosa, in quanto vi si associa una percezione incessante di pericolo incombente. Lì la protagonista vive esperienze che mutano, infatti, il corso della sua esistenza, siano esse lo stupro o il bombardamento, traducendo la visione ideologica della Morante: la strada implica l’incontro con l’altro, con la violenza. Violenza che è lo specifico ontologico della Storia, null’altro che uno «scandalo che dura da diecimila anni» come recita il sottotitolo e come denunciano le date di apertura e chiusura dell’opera (…..19**/19**…..), in cui i puntini di sospensione non aprono né chiudono il fiume della Storia, ma ne intercettano solo un segmento rendendolo a noi visibile.

Un insensato andare: Marco Lodoli
Alla imponenza epica della narrazione storica della Morante, si contrappone l’assoluta antiepicità della vicenda narrata da Lodoli. Al tempo storico del conflitto mondiale si oppone la guerra sorda e tutta interiore ingaggiata quotidianamente dal protagonista alla ricerca di un senso del sé. Dallo spazio cittadino scelto dalla Morante, si passa agli assi delle strade consolari, dalla Cassia, fra Roma e Siena -lungo il cui tragitto il protagonista effettua le consegna dei quotidiani- all’Appia, per convergere sul Grande Raccordo Anulare, dove si innesta la narrazione che fa da cornice ai ripetuti un po’ sconnessi flashback, ossia la partecipazione ad un maratona in coppia con la capra Betta.
In linea con una sensibilità affermatasi già con Pasolini, ci si va spostando dai centri urbani, verso le periferie, baricentri della spazialità contemporanea e ancora oltre, verso quel limes che cinge la caotica esplosione urbanistica della capitale, ossia il Grande Raccordo Anulare, cui resta da chiedersi se sia possibile assegnare un valore cronotopico. È indubbio che essa qui traduca in immagine le diverse peripezie del protagonista. Ma di che avventure si tratta? Gli accadimenti, mai veramente avventurosi, sono banali oppure occasioni mancate. Cesare entra nei bar, osserva le donne, guarda le vetrine, telefona a ragazze-squillo, abbandona moglie e figlio, brucia senza motivo un pacco di giornali per cui sarà poi licenziato, frequenta una prostituita, dà fuoco al distributore di benzina dove lavora la moglie, s’imbatte in una capra, decide di darsi alla corsa. Nel cronotopo ‘strada’ prende forma, dunque, l’immagine cui le diverse vicende rimandano, accomunate dal denominatore unico della banalità, votate a girare inutilmente a vuoto.
Se poi slittiamo sul terreno dell’immaginario, almeno due sono i dati che balzano agli occhi. Il primo è lo stato d’animo con cui Cesare compie ogni gesto, ossia una fretta ansiosa. In un moto incessante e convulso, tutto viene fatto quasi volendosene sbarazzare (i giornali bruciati, i rapporti familiari liquidati, la propria dignità dilapidata). Emblematico da questo punto di vista è il modo di consumare il cibo : «in meno di un minuto divorava l’ammasso». Anche lo stare seduto ad un bancone del bar in attesa di un cappuccino bollente diventa un’insopportabile pausa («quella miscela incandescente che lo obbligava a stare immobile, puntellato sui gomiti già da un’eternità di due o tre minuti»), sempre mosso da un incontrollabile istinto cinetico («Io quando mi siedo sento che una cosa nera mi si siede subito a fianco»). Ogni azione è consumata voracemente, ogni atto liquida il precedente; basti pensare alle domeniche pomeriggio trascorse col figlio a creare continui diversivi, le corse dei levrieri, il rito del gelato, il cinema. L’atto dell’andare si accompagna a quello del buttar via, liquidare, cose, persone, affetti. Una vita così sembra quasi predestinata a trovare la sua più logica espressione nella corsa sebbene quello che conta non è dove andare, ma l’andare in sé. La strada su cui si svolgerà la maratona è il Raccordo, non luogo per definizione, in cui gli uomini affiancano le macchine, in cui i maratoneti esprimono una umanità dai destini zoppicanti e sconclusionati, ognuno aggrappato al proprio affanno. Non sfugge anche che la strada è associata frequentemente a sensazioni dolorose, da quelle prodotte dai muscoli sotto sforzo, a quelle degli animali falcidiati nella notte dal furgone in corsa di Cesare. I crampi, i penetranti dolori alla milza tipici del maratoneta sono la materializzazione del dolore del vivere e della resistenza che esso richiede. Non c’è dimensione atletica, né slancio agonistico fra i partecipanti, ognuno dolorosamente stringe i denti, arranca nella propria vita. La strada diventa così l’estrinsecazione dell’andare, ma soprattutto il luogo preposto a disperdere energie senza scopo, in cui, rifiutato ogni punto d’appoggio non resta che tenere insieme pezzi vacillanti di sé, segreti occulti, anche a se stessi. Cosa macina il protagonista nel suo ostinato andare? Nello stordimento muscolare e fisico dell’insensata corsa quotidiana il protagonista mette a tacere i pensieri, dà sollievo alla smania che lo agita. Nella tautologica circolarità del Raccordo il senso dell’andare è l’andare, la meta della strada, la strada.

Sulle ali della sgangherata libertà degli anni Ottanta: Pier Vittorio Tondelli
Se Bachtin ci ha insegnato a trovare negli spazi prescelti la concretizzazione del tempo che passa, certo nulla meglio della strada traduce questo sviluppo nell’ultimo degli episodi che chiude Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, intitolato Autobahn, autostrada, storia in prima persona di un io narrante disgustato di sé e del mondo, mosso da un desiderio di evasione, che rincorre un proprio sogno personale lungo i chilometri fra la ripudiata Correggio d’origine e un luogo anelato, sulla scia di un odore che lo attrae verso un imprecisato Nord. In termini cronotopici la (auto)strada agglutina su di sé una densa rete di avvenimenti: l’io narrante dichiara di mettersi in viaggio afflitto da un malessere psichico e fisico, descritto con modalità iperrealistiche, («faceva male ahimé davvero molto male come ti siringassero da dentro le budella e le graffettassero e punzecchiassero, insomma tanti scorpioncini appesi al tubo digerente»), alternata a una febbrile voce narrante: «..questa scoglionatura […] la chiama Scoramenti, al plurale…, quelli della vocina; cioé chi sei? Cosa fai?dove vai? quale è il tuo posto nel Gran Trojajo? Cheffarai? eppoi ancora quelli più deleteri, i mali del non so giammai né perché venni al mondo né cosa sia il mondo né cosa io stesso mi». L’io narrante farà vari incontri, alcuni svianti, altri rivelatori, come quello col giovane regista epifanico per la costruzione di un percorso liberatorio. Ci si imbatte, però anche in eventi del tutto accidentali, di sapore talora un po’ fiabesco, che permettono di superare le difficoltà. Per esempio, il ritrovamento di denaro consentirà, inaspettatamente, la prosecuzione del viaggio verso una meta che appartiene più allo spazio del desiderio che a quello della realizzabilità. Rispetto alla circolarità della traiettoria prescelta da Lodoli, quella di Tondelli assume semmai la direzionalità di una linea retta, espressione ora della fuga ora del desiderio dell’altrove, di cui lo scrittore rende il ritmo, trasformando la sua in una pagina sonora, capace di riprodurre il sound di quegli anni, fatto di attrazione per la marginalità, per il mondo della sottocultura, per una corporeità disinibita. Degli anni Ottanta Tondelli ricrea la musicalità disarmonica e caotica di una lingua che, liquidata ogni traccia di letterarietà non manca di alternare termini anche alti, ma sempre immersi nello scroscio scomposto delle catene foniche del parlato.
Forti poi le suggestioni che legano la strada agli odori, del mare, del Nord. Ma la parola non rimanda ad una percezione sensoriale, né assume una connotazione realistica ma denuncia tutta la sua valenza simbolico-culturale («…succede il Gran Miracolo, cioè arriva su quel rullo l’odore del Mare del Nord che spazza le strade e la campagna e quando arriva senti proprio dentro la salsedine delle burrasche e dell’oceano … Sono sulla strada amico, son partito, ho il mio odore a litri nei polmoni, ho fra i denti la salsedine aaghhh e in testa libertà»).

Cos’era il nord Europa per un giovane di quegli anni? Lo stato d’animo che pervade l’io narrante non è genericamente frutto di un astratto desiderio di evasione o tratto ipercinetico del carattere. A monte ci sono gli anni ’70, così profondamente segnati dalla cultura giovanile, da quel ribellismo, figlio a sua volta dell’esperienza hippy, on the road dei Seventies. A quel contesto bisogna riferirsi se si vuol assegnare un valore a questa condizione non solo individuale ma generazionale: Nord vuol dire libertà dei costumi, infrazione della norma, trasgressione. Rivelatrice a tal proposito la figura del giovane regista che raccontando uno sgangherato progetto di film, lascia emergere la sua volontà iconoclasta, insofferente di una società ingessata e perbenista («A morte, a morte! alla forca! alla ghigliottina! al patibolo! al supplizio! alla gogna e alla garrota! all’esecuzione! all’impiccagione! alla defenestrazione i mafiosi i teoreti i politologhi, i corsivisti, le penne d’oro, le grandifirme, gli speculatori del grassetto e del filmetto, a morte! a morte!»).

Dove scatta la valenza simbolica trasformando la strada da dato esperienziale a segmento di cultura, espressione di una più ampia visione del mondo? Lungo l’autostrada il protagonista si produce in un iperbolico conato, gesto catartico per svuotarsi da quei «puzzi e rumoracci», materializzazione di un disgusto interiore per una realtà da cui si vuole separare. Sull’asfalto rimangono le deiezioni di un’anima, le scorie esistenziali, legate a quella putrida palude che è la provincia. La strada si colloca qui, fra un da, cioè fra un punto da cui ci si vuole staccare –l’inautentico, il ‘vecchio’- e un verso, nella cui direzione bisogna muoversi: Amsterdam, il Nord. Lungo il Brennero –abbandonata la «puzza d’italietta»- si segue l’odore del Nord, cioè a dire un vitalistico desiderio di libertà, solo così si persegue la propria, personale autorealizzazione, possibile solo se si vincono le resistenze interne ed esterne. Solo così la s può diventare definitivamente pista di decollo: «spicca il volo macchina mia, vola, vola, Frankfurt, Köln, forza eddai ronzino mio, ormai ci siamo ostia se ci siamo senti il mare? Amsterdam, Amsterdam! Son partito chi mi fermerà più?»

Una strada fra padre e figlio: Italo Calvino
Fin qui sono emerse connotazioni della strada associabili all’immagine della violenza ‘storicamente’ determinata (Morante), o della perdita di senso che porta ad avvitarsi su se stessi (Lodoli), od ancora fuggire il piccolo mondo della provincia per inseguire un desiderio di pienezza (Tondelli).
Con Calvino il contesto muta: l’immagine della strada si vincola ad una riflessione sulla letteratura, intrecciata su frammenti memoriali, percorrendo infatti la strada di San Giovanni, l’autore viene definendo la sua vocazione letteraria. Lo specifico della propria professionalità si associa ad una dimensione spaziale, in linea con quanto sostiene Jean De Men, convinto che lo spazio sia un concetto fondamentale della personalità, punto di congiunzione fra l’uomo e il cosmo. Proprio questo dice Calvino in apertura quando afferma: «Una spiegazione generale del mondo e della storia deve innanzitutto tenere conto di com’era situata casa nostra… In giù, appena fuori del nostro cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi le vetrine i cartelloni del cinema e le edicole, e Piazza Colombo lì a un passo, e la marina; in su bastava uscire dalla porta di cucina nel beudo che passava dietro la casa e subito si era in campagna». Lo schizzo tracciato con gli avverbi di luogo («in giù», «in su») riproduce la natura di San Remo, città natale, dagli orizzonti bidirezionali a seconda che ci si proietti a monte (dove si inerpica la proprietà terriera del padre) o verso il mare, dove si distende il reticolato cittadino. Il testo pieno di rilievi topografici e ad alto tasso denotativo presenta però un forte indice simbolico.

Un valido aiuto alla interpretazione del brano ci viene ancora una volta da Lotman, secondo cui l’opera letteraria è costruita secondo un principio di opposizione semantica binaria per cui una frontiera (la strada di san Giovanni) contraddistingue due realtà, ma solo la sua violazione metterebbe in moto l’intreccio romanzesco. Ora, qui non si tratta di analizzare un fenomeno strettamente narrativo, ma semmai proprio la sua genesi. L’elemento spaziale -la strada- solca l’abisso che separa il figlio dal padre: «Capite come le nostre strade divergevano, quella di mio padre e la mia. Ma anch’io, cos’era la strada che cercavo…se non … la pagina da voltare che immette in un mondo dove tutte le parole e le figure diventassero vere, presenti, esperienza mia, non più l’eco di un’eco di un’eco».
Si percorre una strada, ma si compie soprattutto un tragitto interiore di differenziazione, grazie a cui si può costruire una identità propria: «Per mio padre il mondo era di là che cominciava, e l’altra parte del mondo, quella di giù, era solo un’appendice… estranea e insignificante … Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta, andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da quelle vie».
Data un’immagine del mondo come su una mappa, Calvino divide lo spazio in un «in su», lo spazio del padre e un «in giù», verso cui si proietta, in direzione diametralmente opposta, il figlio. Nella prospettiva paterna si fondano tuttavia una concezione arcaica dello spazio e una scientifica. La seconda gli consente di delimitarlo – il termine latino conosciuto per ogni specie botanica disegna confini di una realtà altrimenti illeggibile; al caos dell’esistere pone rimedio con gli strumenti della nomenclatura. Quella arcaica, invece, è quella del contadino che vede nella natura un’occasione di sopravvivenza; per questo dallo spazio rurale riporta frutta, erbaggi necessari all’alimentazione. Né sembra azzardato vedere in questa figura paterna l’antenato di Marcovaldo, orfano in città della feconda natura, ma sempre mosso dall’istinto atavico del raccoglitore. La strada percorsa dal padre definisce, però, una forma del vivere che l’autore percepisce estranea; percorrendo la strada di San Giovanni si smarca dal cosmo conoscitivo paterno e delimita l’orizzonte del proprio immaginario. Battere quella via significa scavare un crepaccio fra quella realtà antropologica e la propria, proiettata invece in uno spazio non naturale ma cittadino, infero eppure ben più seduttivo. A ben vedere anche la strada calviniana presenta i tratti del cronotopo: lungo il suo asse prende forma il processo che porterà l’autore alla individuazione della sua vocazione letteraria, seguirne la traiettoria significa proiettarsi giù, verso il mare, verso la città che contiene tutti i possibili. Da lì provengono fantasie, presagi che accelerano il galoppo della mente e moltiplicano la catena dell’essere, ricalcando da vicino il progetto di vita e letteratura dichiarato nell’epilogo de Il cavaliere inesistente da Bradamante/suor Terodora (alias Calvino stesso): «Sì, libro. Suor Teodora che narrava questa storia e la guerriera Bradamante siamo la stessa donna. Un po’ galoppo per i campi di guerra tra duelli e amori, un po’ mi chiudo nei conventi, meditando e vergando le storie occorsemi, per cercare di capirle…. La pagina ha il suo bene solo quando la volti e c’è la vita dietro che spinge e scompiglia tutti i fogli del libro…».

Strade: strumenti di comprensione
Sulla scorta di Bachtin e Lotman abbiamo, dunque, cercato di validare l’idea che la strada, nelle scelte testuali qui proposte, realizzi la materializzazione del flusso temporale degli eventi, esprimendo anche una indubbia valenza culturale-simbolica. Nella Morante e in Lodoli la strada dà vita a due atteggiamenti opposti eppure complementari: fra resa e resistenza i protagonisti danno forma alla loro disperata opposizione all’inspiegabilità del divenire. Più costruttivo e vitale l’approccio di Tondelli e Calvino che, pur diversissimi, cercano sulla strada la loro personale realizzazione, l’uno nella dissipazione libertaria dell’Io, l’altro nella consapevole affermazione del ruolo di scrittore. La strada, si è visto, può contribuire a cambiare tragicamente i destini individuali (Morante), può assecondare la linea del vuoto che ci si porta dentro (Lodoli), può tradurre un anelito di libertà (Tondelli). Ma, fuori da una trama narrativa, solo con Calvino si fa strumento ermeneutico atto a render ragione di una propensione alla scrittura, segno tangibile di una weltanschauung sempre mobile e molteplice. Il viatico migliore, vien da dire, per affrontare, fuori da statici quanto rischiosi schematismi, l’ingarbugliata complessità dell’oggi.

NOTE

BACHTIN; Estetica e romanzo. Un contributo fondamentale alla “scienza della letteratura, Torino, 1979.

G. GENETTE, La littérature et l’espace, Figures II, Paris, 1969.

J. LE MEN, L’espace figuratif et les structures de la personnalité, Paris, 1966

Fotografia: G. Biscardi, La rosa e la strada, Palermo 2014

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