Durante una presentazione a Umbria libri, Walter Siti ha indicato come causa reale e profonda delle reazioni polemiche a Bruciare tutto non tanto la questione pedofilia o la presunta distorsione della figura di don Milani, quanto la non accettazione del racconto del suicidio finale del bambino. In quella sede Siti ha affermato che però o la letteratura ha il coraggio di sondare anche quel territorio estremo del male o è condannata all’irrilevanza. Pubblichiamo oggi un racconto inedito di Demetrio Paolin (tra i suoi libri Conforme alla gloria, Voland 2016, finalista Premio Strega) che ci pare si possa inserire nella riflessione su un tema così importante.
Infine dissero che era colpa mia. È facile così, quando te ne stai zitto tutto il tempo seduto al bar, dopo che tuo figlio è morto, dirti che la colpa è tua. Bevi il tuo bicchiere di vino, poi ne bevi un altro e poi parli di calcio con chi ti capita, o parli di politica, o di quello che succede nel paese, ma tu hai la sensazione che ognuno ti guardi e ti giudichi. Mio figlio ha bevuto il veleno e si è ucciso, mio figlio aveva 11 anni quando l’ha fatto. Io non sono mai stato buono con le parole o con i sentimenti.
Quando ero dell’età che mio figlio è morto, mio padre, che è morto pure lui ora, mi diceva: “Tu non sei fatto per le parole, non sei fatto neppure per andare in fabbrica, tu sei fatto per lavorare nei campi e badare agli animali”. Così incominci a stare in mezzo alle bestie e ai campi, che te ne fai delle parole, quando basta un fischio per una bestia e per le piante il silenzio completo.
La cosa che mi piaceva da piccolo era alzarmi presto e andare alla vigna, con la luce del mattino che ancora non si vedeva tra le colline, ma era solo una specie di fluorescenza in cui il blu della notte si faceva più sottile. Anche Patrick piaceva alzarsi presto per guardare dalla finestra, si metteva con il naso sul vetro e stava lì finché il sole non era pieno.
Io, quando ho preso sua madre, quando l’ho presa la prima volta dopo sposati nel letto comodo, che prima l’avevo coperta nella stalla, quando usciva da badare mio padre, ecco quando l’ho presa lì, ho sentito che le venivo dentro con dolcezza e qualcosa in me si rompeva. E ho capito che non avrei potuto essere più un animale o meglio ancora un vegetale, ma di nuovo uomo. Io venivo dentro a mia moglie e mentre nasceva Patrick nascevo io, che mi ero scordato tutto: la gentilezza, la bontà, l’amore.
Quando è nato, io non sapevo cosa fare, emettevo i miei fischi, gli stessi che usavo per i cani, e le mucche, ma lui non capiva, non capivo cosa volesse, non comprendevo perché la cura che avevo per la vigna e il granturco o il frumento non fosse sufficiente per lui e per sua madre. Qualcuno ha detto che io lo picchiavo; anche la televisione, perché è venuta la televisione a parlare di Patrick, e ha fatto intendere che io l’ho picchiavo. Non me l’ha detto davanti la giornalista, ma si capiva che lo pensava.
Io non ho fatto niente per non farglielo pensare. Ci sono cose da accettare, e io non avevo scelta se non di fare quello che tutti si aspettavano da me. Io parlo poco, sono gretto, non leggo, non vado a messa, non sono un uomo attivo nella comunità, ho le mani grosse e tozze di chi nella vita ha solo tenuto in mano vanga e aggeggi simili, era naturale che io lo picchiassi. Era naturale, anche se quando lo vedevo io sentivo che lui era come la tovaglia del pranzo di domenica, profumata bella, che sapeva di pace e di caldo.
Poi dicevano che si era ucciso con i diserbanti per far un dispetto a me, per suggerire che io ero il motivo del suo dolore. Non lo dicevano apertamente, ma quando entravo in negozio a fare la spesa o al bar ecco si fermavano tutti discorsi. Io non ho mai risposto nulla, loro non sanno quanto è stato duro per me poi riprendere in mano il lavoro, quando è stato duro ogni volta dosare il diserbante e versarlo e darlo alle piante: ogni gesto era Patrick per me.
Serviva che la colpa fosse di qualcuno e io me la sono presa. Ora dopo molto tempo, ora che il sento il mio corpo non reggere più e decidersi di morire, io so che ero nato per questo: dovevo caricarmi il peso di questa terribile circostanza. Quello che ho sentito facendo l’amore con sua madre è stato il languore della mancanza di Patrick: già il mio seme presagiva la sua morte, già il mio dargli vita era la sua condanna.
L’ho amato. Non l’ho mai detto; io dovevo amarlo senza dirlo, così mi sono preso la colpa della sua morte. Se la spiegazione più ragionevole è che io sono stato una cattiva persona e che gli ho fatto del male, va bene io sono il colpevole, basta che nessuno possa avere un pensiero brutto su di lui, perché lui era la mia domenica di riposo.
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