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diretto da Romano Luperini

len 20160511 0021 gabbiani

Etica e letteratura. Prospettive, resistenze, sguardi leopardiani

 Emozioni e politica: il bello e l’utile della letteratura                                                Nell’ambito della cultura umanistica contemporanea un nuovo interessante settore di ricerca guarda da vicino ai rapporti tra etica e letteratura. Si tratta di un indirizzo di studio nato principalmente nel mondo accademico statunitense negli ultimi decenni del XX secolo e che alimenta ancora oggi un importante dibattito critico. Esso tende in sostanza ad assegnare un «valore sociale positivo» al fatto di natura artistico-letteraria, legandolo alle dinamiche eterogenee del presente. Le due discipline, una d’ambito filosofico e speculativo (l’etica), l’altra di tipo linguistico-storico (la tradizione letteraria, appunto) mantengono una specifica fisionomia, eppure intrecciano spesso le differenti sfere d’azione in un rapporto in realtà  molto complesso e, a tratti,  antitetico: ci si chiede infatti come possa l’individualità creativa propria di attività libere come lo scrivere, il leggere o l’interpretare un testo letterario, coniugarsi con le scelte, le responsabilità e le norme, morali e civili dell’uomo. Specialmente guardando ai postumi di un periodo storico che – come ci ricorda Ceserani in Raccontare la letteratura – pullula di una miriade di testualità non letterarie «che trasmettono e diffondono conoscenze, immagini della realtà e del mondo»?

All’interno delle prospettive critiche messe a punto negli ultimi anni spicca l’esperienza portata avanti dalla neo aristotelica americana Martha Nussbaum, la quale declina in senso politico concetti quali la forza dell’immaginazione, il cosmopolitismo, le differenze di genere, le identità, le emozioni e l’educazione, connettendoli alla forte valenza attualizzante che possono avere gli studi classici oggi: soprattutto per quel che concerne il rapporto diretto tra istruzione pubblica e cittadinanza.  L’insegnamento della filosofia antica, dell’arte e, soprattutto, della letteratura nelle scuole di ogni ordine e grado svilupperebbe nel concreto – scrive infatti Nussbaum – «le capacità di giudizio e sensibilità che possono e devono essere espresse nelle scelte effettuate dal cittadino». Inoltre verrebbero fuori dal singolo individuo caratteristiche e qualità come la capacità di scelta, l’autonomia critica e l’attitudine figurativa, promosse rispettivamente dal ragionamento socratico e dall’immaginazione narrativa, addensata nelle trame di opere antiche e moderne.

L’autrice fa l’esempio della tragedia Filottete di Sofocle all’interno della quale ravvisa, nel contrasto tra l’insensibilità strumentale di Odisseo e il coro dei suoi compagni marinai, una empatia di fondo nei confronti del protagonista abbandonato sull’isola ed escluso così dai rapporti sociali. Ciò per il suo essere considerato un diverso a causa della sua infermità. Nussbaum suggerisce insomma di entrare in sintonia direttamente con il testo a partire dalla nostra simpatia nei confronti dei personaggi.  Appurato il nodo esistente tra la sfera dei segni finzionali prodotti dall’universo letterario e i suoi significati, irrelati al complesso mondo civile contemporaneo, nel più famoso testo della scrittrice Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica viene indicata l’assoluta libertà dagli omologanti condizionamenti di tipo economico che regolano il mercato di una nazione. Così come si calca l’accento sulla pregnante valenza salvifica riconosciuta agli studi umanistici, grazie ai quali è possibile «educare alla cittadinanza responsabile e globale» enucleando dai fatti le varie capacità orientative e decisionali pensate per il bene comune.

Interpretare: un atto originale e rivoluzionario

Tuttavia esistono importanti spazi di resistenza a una letteratura troppo declinata in senso servile e quindi a tutti i costi utile alle “magnifiche sorti e progressive” della attuale società moderna, nella quale ogni dato reale è considerato come oggettivo, certo, immodificabile. A questo proposito, il critico francese Yves Citton ha proposto di recente, nel suo saggio che in lingua italiana ha per titolo Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (duepunti edizioni, traduzione di Isabella Mattazzi), un’idea semplice, eppure in sé originale e combattiva per provare a decostruire i  significati che arrivano dall’alto in maniera standardizzata. In un processo evolutivo in cui vige la routine prodotta dal capitalismo delle conoscenze, viene svolta in primis la diagnosi di chi lavora nel settore della ricerca, dell’istruzione e  della comunicazione. Viene fuori un vero e proprio Stato Sociale del nuovo millennio chiamato cognitariato, o quinto stato, per dirla con una rubrica promossa da Roberto Ciccarelli per il quotidiano il Manifesto, al quale sono affiancati termini in apparenza neutri come economia della conoscenza, capitale umano, società dell’informazione. Citton propone di ritornare alla «stupefacente attività multiforme dell’interpretazione», ovvero all’atto libero ed individuale di sforzo conoscitivo che si pone contro omologanti e spesso sterili metri di produttività. Detta in questi termini l’interpretazione «è quel lavorio sul senso comune che mette in discussione la credenza per cui esisterebbero “dati di fatto”».

L’interpretazione, contrariamente alla lettura posta in essere da nuove retoriche consistenti nell’accumulo passivo di nozioni e categorie, riguadagna piuttosto i caratteri e gli strumenti per una vera e propria insubordinazione all’esistente, in un orizzonte totalmente aperto che sintonizza le reti della conoscenza su di un piano multi-livellare.  Interpretare è quindi, da questo punto di vista, uscire con sforzo originale e coraggioso dalla presunta griglia dell’oggettività con la quale siamo stati abituati a osservare lo stato di cose presenti. Grazie all’interpretazione  – avverte Citton – emergerebbe un bisogno assieme individuale e collettivo di ri-comporre e ri-configurare i sensi del mondo, dando loro un significato di volta in volta inedito. L’autore gioca costantemente con parole quali montaggio, cortocircuito, trasduzione, inter-prestito e si confronta da vicino con le condizioni necessarie all’interpretazione: come la solitudine (cita perfino la famosa “stanzetta solitaria” evocata da Virginia Woolf), l’intuizione, l’emozione estetica, l’individualità, la dialettica otium contro negotium. Emerge dunque un’estetica della pluralità che quindi finisce per incontrare inevitabilmente la dimensione etica del singolo soggetto pensante, del lettore così come dell’autore.

La lente del lettore: un prezioso sguardo sul mondo

Su questo versante, guardando anche al panorama critico italiano degli ultimi anni, contribuiti significativi provengono dai testi saggistici di Ezio Raimondi. Per l’italianista bolognese infatti «all’ortodossia e alle certezze di un reale statico subentra la consapevolezza di un’esperienza perpetuamente in divenire».  Di riflesso, non ci si stupisce, né si rischia autoreferenzialità, affermando che «la letteratura non può parlare del reale senza parlare anche di sé, del suo esperimento mai garantito in anticipo di ordinare e significare la complessità». Una complessità che poi è in fondo quella stessa dell’uomo, con la sua sensibilità, il suo mondo pratico, i suoi costumi misurati di continuo nel quotidiano.  In questo senso – scrive sempre Raimondi in Un’etica del lettore – «l’immaginazione della letteratura propone la molteplicità sconfinata dei casi umani, ma poi chi legge, con la propria immaginazione, deve interrogarli anche al lume della propria esistenza, introducendoli dunque nel proprio ambito di moralità».

Si fa sempre più strada l’idea per cui non esiste un’etica esterna che si accompagna alla letteratura e aiuta a leggerla nel caotico mondo presente, ma, al contrario, affiora un’etica che si identifica col mutevole universo del letterario. Un’etica  quindi interna a un orizzonte del tutto soggettivo. Se poi questo soggetto umano è anche un autore di opere letterarie ecco quindi che le sue scelte, i suoi atti di responsabilità, i suoi stessi pensieri ideologici vengono a coincidere con le scelte di stile che ritroviamo nei testi di invenzione  o di elaborazione teorica, che esprimono e hanno espresso, in vari secoli e contesti, quelli che Alberto Casadei, nel suo recente saggio Letteratura e controvalori, ha chiamato “valori contro”: ovvero spunti morali non soggetti ad alcuna legge. Letteratura (e filtri letterari) come unica risposta possibile a certe dinamiche o condizionamenti del presente. Una risposta che, in maniera alternativa, ritroviamo, andando a ritroso nel tempo, perfino in Giacomo Leopardi.  

Leopardi, la letteratura  e i (bi)sogni morali

Grazie alla lungimirante capacità di diagnosticare e smascherare i fenomeni del costume letterario borghese del suo tempo, l’opera di Leopardi, per i temi che pone, sembra parlare indirettamente anche a noi, intercettando nodi della riflessione odierna, come la progressiva precarietà del settore umanistico a fronte del così detto falso progresso tecnico-scientifico, l’iper-digitalizzazione frammentaria del sapere, la sua cogente intertestualità, il concetto di comunità civile, l’immaginazione, il bene pubblico, la cittadinanza letteraria. Contenuti e sfide conoscitive che troviamo nelle elaborazioni teoriche, ma, soprattutto, nelle stesse scelte stilistiche dell’autore.

In un passo celebre dello Zibaldone si trova una interessante dichiarazione in merito all’inutilità della poesia, la quale piuttosto è dedita al piacere del lettore, al ristoro completo dell’anima:

L’utile non è il fine della poesia benché questa possa giovare […] La poesia può essere utile indirettamente, come la scure può segare, ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può stare il dilettevole, imperocchè il dilettare è l’ufficio naturale della poesia

La polemica contro certo servilismo ideologico del fatto letterario, divenuto nel frattempo espressione diretta di una specifica classe del tutto incardinata al sistema di società («il volgo dei letterati») continuerà in alcuni passi dell’operetta morale Parini, ovvero della gloria e, in altri termini, nel coevo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), dove è piuttosto denunciata la mancanza di una letteratura nazionale moderna capace, grazie al suo intrinseco potere immaginativo, di assolvere quella funzione civile che tanto le si addice. Tale mancanza ha ovviamente conseguenze politiche non indifferenti. Ciò nella misura in cui – annota l’autore della Ginestra – l’Italia è priva sia di una «società stretta», che di «buon tuono», ovvero, rispettivamente, di una vera comunità e di una sana opinione pubblica realmente condivisa e improntata al bene di tutta la collettività.  

Nonostante ciò Leopardi ritiene necessario il fondarsi della nuova letteratura sulle «scienze morali», ovvero sulla filosofia ormai «divenuta la scienza, il carattere, la proprietà dei moderni». Consapevole dunque di una «letteratura che parla dell’uomo», stando pure all’interno degli statuti finzionali e figurativi che le sono propri, ecco che un testo come le Operette morali incarna proprio questa esigenza di moralità aperta. Ovvero, libera da dogmi assoluti, e, nello stesso tempo, altamente capricciosa e fabulatoria, pur palesando, nella scelta del genere e nelle soluzioni di stile, una assoluta inattualità rispetto al canone letterario dell’epoca: data dal riverberarsi di modelli classici di stampo satirico e lucianeo; e da certe soluzioni che intrecciano grumi di saggismo e spunti novellistici.

Ma le Operette oltre a suggerire sub specie fabulae «uno sguardo critico verso posizioni di illusorio progresso» (Di Legami), possono altresì essere rilette oggi anche in chiave etico-politica, senza forzature o attualizzazioni del pensiero leopardiano: anzi, confermando idee già espresse nelle giovanili pagine zibaldoniane. Figure e metafore dal forte impatto, oltre a suscitare il piacere per la densità della scrittura, mirano infatti a fare riflettere il lettore.

Come, per esempio, i significati che si nascondono dietro le immagini dell’Elogio degli uccelli. I piccoli animali volatili sono per Leopardi emblema di spensieratezza e felicità, simbolo della poesia libera da orpelli contingenti, ma soprattutto rappresentano l’utopia civile di un altro mondo possibile, non modellato sui bisogni privati e la cieca individualità umana; bensì su una ampia ed aperta prospettiva pubblica, slanciata verso l’alto e protesa verso l’altro; sagomata, per inclinazione naturale, ad una fervida ed incessante mobilità di pensiero che coincide, di fatto, con l’essenza plurima dell’interpretazione letteraria e con un cosmopolitismo esistenziale non comune.

Tale esaltazione appassionata della levità immaginosa potrebbe richiamare alla memoria quelle pagine delle Lezioni americane di Italo Calvino (queste sì: sempre straordinariamente attuali) nelle quali lo scrittore del Barone rampante, discutendo a proposito di leggerezza, vi ritrova figurato il mito di Perseo in groppa al suo cavallo alato Pegaso, che sconfigge il volto pietrificante della Gorgone.

Scrive Calvino: «Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio».

Ecco, forse la vera etica del letterario è proprio questa: uno specchio rovesciato in cui rifrangere una leggera mobilità di forme, una continua negoziazione di significati tra autore e lettore, contro la pesantezza omologante e fin troppo utilitaristica del mondo odierno.


Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2016, telo di plastica, filo spinato, antenna e tre gabbiani.

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