Perché non ho firmato l’Appello per la scuola pubblica. Il Dibattito/1
Il 19 dicembre dello scorso anno abbiamo pubblicato un Appello per la scuola pubblica promosso da otto docenti, tra cui un universitario e un dirigente scolastico. In pochi giorni l’appello ha ricevuto l’adesione di moltissimi insegnanti e cittadini e di autorevoli studiosi, tra cui Salvatore Settis, Umberto Galimberti, Adriano Prosperi, Giuseppe Longo, Nadia Urbinati, Roberto Esposito, Roberto Casati, Mauro Moretti, Giovanni De Luna, Franco Cardini, Christian Laval, Massimo Cacciari, Umberto Curi, Alessandro Dal Lago, Silvia Vegetti Finzi, Francesco Sylos Labini. Tra le firme si leggono anche quelle dei pedagogisti Massimo Baldacci, Benedetto Vertecchi e Pasquale Moliterni.
Hanno aderito all’appello anche numerosi italianisti, tra cui Romano Luperini, Giulio Ferroni, Stefano dal Bianco, Federico Bertoni, Emanuele Zinato, Gino Ruozzi e Luigi Matt. Nel complesso i firmatari sono, ad oggi, circa 8000, alcuni dei quali appartenenti ad università straniere (come Berkeley, The Hassel University School of art and Architecture of London, The Universtity of Edinburgh, l’Università di Zurigo, The University of Maryland, Musik und Kunst Universität di Vienna, The Florida State University ecc…).
Dell’appello si sono occupati diversi blog e vari siti, tra cui Roars, il sito scolastico La tecnica della scuola, orizzontescuola, con un’articolata intervista di Eleonora Fortunato a Giovanni Carosotti, uno degli autori dell’appello, e la stampa nazionale.
Eppure, malgrado la vasta eco suscitata dall’appello, un dibattito articolato sui 7 temi posti all’attenzione dei lettori (Conoscenze vs competenze, Innovazione didattica e tecnologie digitali, Lezione vs attività laboratoriale, Scuola e lavoro, Metrica dell’educazione e della ricerca, Valutazione del singolo, valutazione di sistema, Inclusione e dispersione) stenta a partire. Sul web si possono leggere molte prese di posizione (alcune delle quali dai toni insultanti e incivili), ma poche riflessioni.
Abbiamo quindi chiesto ad alcuni amici e colleghi di pronunciarsi sull’appello come occasione per ragionare sulle finalità e sui nuovi modelli organizzativi e didattici della scuola pubblica. Ma l’invito è aperto a tutti. Nei prossimi giorni pubblicheremo interventi che, speriamo, potranno dare inizio ad un dibattito che ci auguriamo possa essere aperto, franco e puntuale.
Il primo intervento è di Lucia Olini, che dichiara la sua posizione personale offrendoci alcuni spunti di riflessione
Riconosco all’Appello per la scuola pubblica il merito di aver evidenziato alcuni dei problemi attualmente più gravi della scuola. L’enorme consenso che l’Appello ha ricevuto in pochi giorni dà conferma del malessere che le ultime riforme hanno determinato tra gli insegnanti, che in larga parte dissentono dai contenuti dei provvedimenti e soffrono le modalità autoritarie con le quali i cambiamenti in atto sono stati introdotti.
Pur condividendo la preoccupazione per i rischi di una deriva economicistica, verso un modello di scuola finalizzato prioritariamente all’addestramento e al perseguimento di abilità operative facilmente misurabili, non ho firmato l’appello, perché dissento su alcuni punti e perché vengono ignorate in esso alcune questioni che ritengo invece molto importanti.
Provo a spiegarmi, procedendo in modo schematico. Inizio dalle osservazioni critiche, che riguardano principalmente competenze e valutazione:
- Il lavoro per competenze non implica affatto un ridimensionamento dell’importanza dei contenuti, ma piuttosto un cambiamento di focus nell’azione didattica, che vede al suo centro non le discipline bensì i discenti e i processi di apprendimento. La costruzione di competenze non può prescindere dalle conoscenze ma anzi ne richiede un’interiorizzazione critica; nelle sperimentazioni degli ultimi anni nella scuola italiana (ad esempio il progetto Compìta. Le competenze dell’italiano: http://www.compita.it/) si è perseguito un modello di competenza saldamente ancorato ai saperi, e questo ha richiesto ai docenti un serio lavoro di ricerca e rinnovamento delle didattiche disciplinari, e agli studenti un impegno di qualità nello studio e nella riflessione. Per fare della classe una piccola comunità ermeneutica, come suggerisce da anni Romano Luperini, è necessario attivare dinamiche collaborative ed euristiche, processi che non si generano dalla didattica trasmissiva. Sul costrutto di competenza peraltro la letteratura scientifica non manca.
- Le valutazioni esterne (sia individuali che di sistema) non sostituiscono le valutazioni dei docenti, ma le affiancano, offrendo ai docenti stessi ulteriori elementi di riflessione sul proprio operato e sull’apprendimento degli studenti. È ben chiarito in tutti i documenti, nazionali e internazionali, relativi alle valutazioni esterne (che tra l’altro sono arrivate prima della legge 107), che tali valutazioni sono parziali, riguardano cioè alcuni aspetti dei processi di apprendimento, e non puntano ad eliminare le ben più complesse valutazioni, analitiche ed olistiche, dei docenti. Se è innegabile che la valutazione è momento delicato e centrale della relazione educativa, è anche vero che non è affatto generalizzata nella scuola italiana la cultura della valutazione formativa e che la valutazione, non di rado, risulta generica e approssimativa. Continuare a rifiutare l’apporto di strumenti e di confronti messi a punto da ricerche internazionali mi pare oggi miope.
Vengo ora alle lacune che rilevo nell’Appello:
- Ritengo un punto centrale la formazione in servizio dei docenti: diritto – dovere di ogni professionista intellettuale, la formazione è stata prevista dalla legge 107, ma non ne sono stati definiti con precisione i termini, e rimane ancora nell’ambiguità la questione dell’obbligatorietà. La piattaforma SOFIA si sta configurando come un sistema farraginoso e complicato: difficile prevedere se potrà effettivamente funzionare. L’aspetto che più desta preoccupazione, sia nel quadro normativo che nella attuazione, è, anche in questo caso, la genericità; sono convinta che, per la qualità della scuola, debba essere garantita ai docenti prioritariamente una formazione permanente sulle didattiche disciplinari, e che debba essere incoraggiata e favorita la condivisione della ricerca e delle esperienze didattiche. Di questo nulla si legge nell’Appello.
- Un secondo punto, che l’Appello trascura, è il problema, per niente affatto marginale per la qualità della scuola e dell’insegnamento, delle classi troppo numerose. Le riforme degli ultimi anni, improntate al risparmio, hanno elevato i limiti di studenti per classe, e hanno diminuito il tempo-scuola. Ne risultano evidenti svantaggi per tutti, studenti e docenti.
In conclusione: trovo molto positivo che finalmente si apra un dibattito pubblico sulle sofferenze della scuola, e sono grata agli estensori dell’Appello, che hanno avviato la discussione. Spero che le provocazioni lanciate non cadano nel vuoto. Di certo “innovare non è bene di per sé”, come è scritto nell’Appello; nell’ambito educativo tuttavia neanche conservare è sempre la scelta migliore. Credo che sia necessario innanzitutto osservare con attenzione le trasformazioni, cognitive, antropologiche, emotive, psicologiche, che vivono gli adolescenti di oggi, per costruire una scuola che sappia sempre meglio rispondere ai loro bisogni educativi. Non per cedere demagogicamente ad una scuola “facile”, ma per garantire davvero a tutti l’istruzione e la formazione cui hanno diritto, secondo il dettato della nostra Costituzione.
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Nel merito e sul metodo
Ho letto attentamente l’intervento della collega Olini e mi preme
invitare tutti a una riflessione di fondo sul piano del merito e sul piano del metodo.
Nel merito. L’appello per la scuola pubblica, che reca anche la mia firma tra le altre, ci mette di fronte all’inattesa e sorprendente emergenza di un movimento in piena: una categoria, vilipesa e marginalizzata, di docenti-intellettuali che riprende la parola, ripensa il proprio ruolo (ma preferirei dire, con Fortini, la propria “funzione”) nella scuola e nella società e “formalizza” questa riflessione in un’ottica di lavoro collettivo.
Indubitabilmente, ognuno di noi scriverebbe un testo (tanto più un testo di rivendicazione politica) in modo diverso, con accenti e sfumature differenti, privilegiando alcune questioni rispetto ad altre. Mi pare tuttavia che gli estensori abbiano un merito non da poco: quello di aver denunciato con lucidità il clima di dismissione del ruolo educativo nazionale e di massa che i vari governi di destra e di sinistra stanno da tempo operando rispetto alla scuola pubblica, con la sua umiliazione continua e la scelta di orientare l’intero assetto della formazione sulla domanda del mercato. Di fronte a questa denuncia e alla drammaticità di una scuola trasformata in aridissimo deserto dai processi in atto, non riesco francamente ad appassionarmi alle dotte disquisizioni su cosa siano le “competenze” (confesso candidamente la mia grossolanità: mi sono arrovellata per anni nel tentativo disperato di evincere un’univoca definizione di “competenza” al punto che ero pervenuta alla convinzione che si trattasse in fondo di “parola poetica”, spendibile con disinvolta ambiguità nelle vacue esercitazioni cui certa scuola della modernità sottopone anglo-didatticisticamente il personale docente, sottraendolo all’ormai accessorio dovere di acquisire conoscenze…). Un passaggio poi non mi è proprio chiaro: in che modo il testo dell’appello è inconciliabile con il concetto di classe come “comunità ermeneutica”? È semmai il contrario, a mio avviso.
E sarà pur vero, dal punto di vista burocratico, che le valutazioni esterne non sostituiscono ma affiancano le valutazioni dei docenti e che queste ultime sono state introdotte prima della legge 107. Ma non è questo il punto. Il punto è politico, non burocratico. E il dato politico rilevante mi pare indubitabilmente quello di una valutazione tecnicistica e punitiva (nella scuola come nell’università).
E ancora. La criticità della piattaforma ministeriale SOFIA per l’aggiornamento dei docenti non mi pare la difficoltà “tecnica” di funzionamento (la farraginosità). Il problema è molto più sostanziale e drammatico: basta scorrere l’offerta dei vari corsi (uso non a caso una terminologia mercantile) per toccare con mano la desolante vacuità delle proposte, ispirate, per la stragrande maggioranza dei casi, a una deleteria pedagogia coloniale e governativa. Al punto in cui siamo, insomma, nessuna seria ipotesi di aggiornamento dei docenti può essere credibile. Non con questa legge e non con questi interlocutori.
Sul piano del metodo. La mia (ormai neanche tanto breve) esperienza di ricercatrice e di attivista mi ha insegnato a privilegiare un principio generale, che è quello delle priorità. E in questo momento le priorità sono evidentemente le istanze che raccolgono il consenso della “categoria” (continuo a usare in modo ingenuo questo termine) e che determinano immediatamente una prassi condivisa. In questo senso, mi pare che l’appello rechi in sé il valore del processo “dal basso” e non collida con altri processi più complessi, ma più difficili da innescare in questo momento (come quello della decostruzione, sempre più urgente, di concetti come “merito” e “meritocrazia”).
L’etica della responsabilità, ma anche un minimo di realismo politico, impongono sopra ogni altra cosa di compattare le lotte, di incanalare le energie, di fare fronte comune (anche tra scuola e università), sacrificando all’occorrenza le convinzioni individuali. Aprire adesso il vaso di Pandora dei distinguo e delle eccezioni non può che condurre a un vicolo cieco e fare, oggettivamente, il gioco della controparte. Non voglio distogliere nessuno dall’esercizio di una sana dialettica democratica. Vi ricordo solo che nel frattempo le cose si muovono. Senza di noi.
Tiziana Drago