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Poesia come estasi vocale. Un dialogo con Rosaria Lo Russo

 a cura di Marianna Marrucci

 Ripubblichiamo una nostra intervista del 2016 a Rosaria Lo Russo, vincitrice con Controlli (link della recensione) del Premio Pagliarani 2017.

A gennaio di quest’anno è uscito un tuo libro importante, Nel nosocomio (Effigie), di cui avevi dato una piccola anticipazione cinque anni fa (Nel nosocomio, Transeuropa). Il libro è un’allegoria dell’Italia degli ultimi decenni: un paese stordito e violentato dal trash. Mi sembra che la chiave di volta dell’intera costruzione allegorica stia nella gestione delle postazioni discorsive. La prima parte contiene un insieme indistinto di voci autoreferenziali: “vivi morti” che monologano, incollati dentro il nosocomio, per esprimere solo una placida rassegnazione del desiderio e un ostentato appagamento nel mito dell’amortalità. Al mondo del nosocomio («sopra») fa da negativo quello del dormitorio («sotto la collina»): un altro non luogo, eretto a suon di abusi, da cui tuttavia si alzano voci distinte, quelle dei “morti vivi”, ciascuno con una propria storia di violenza e di ingiustizia da raccontare. Quanto è importante, in questo libro e in tutta la tua poesia, l’attenzione per i luoghi e per le voci che li abitano?

Nel nosocomio è un libro che vorrebbe diventare teatro, spazio scenico, se non addirittura video. La pagina non è un luogo mentale, ancorché teatrale, come in Comedia, ma luoghi allegorici, realisticissimi peraltro, in cui o da cui parlano personaggi-prosopopee, tipi essenziali, per dirla alla Pirandello, modelli figurali, gente comune tipizzata: personaggi. Infatti il luogo, lo spazio entro cui o da cui emergono le voci, per la prima volta nella mia storia testuale, è primario rispetto alle voci stesse oltre che rispetto alla pagina scritta. L’immaginario si è orientato, proprio come dici tu, intorno alle postazioni da cui parlano le voci dei vivi morti e dei morti vivi, categoria questa alquanto porosa, scivolosa, come il bordo infido di una piscina: una delle intuizioni più angosciose è nella non decifrabilità della condizione esistenziale dei tipi, morti in vita o vivi in morte: condizione antropologica classica del personaggio teatrale. Non si sa con precisione insomma di quali individui siano le voci e dove realmente si collochino, se nel basso del dormitorio, che è un basso a volte alto (simbolicamente), o nell’alto del nosocomio, che è molto più spesso un basso (simbolicamente). Le tre sezioni in cui questa novella pseudoparodia dantesca suddivide il libro sono demarcazioni fittizie e contigue fino alla mescolanza, spazi di frodolenza. Il Luogo di sottofondo è una melma acquatica, una palus putredinis. Si dice Non luogo la sezione di mezzo fra le due, Nel nosocomio e Dal dormitorio, in quanto breve svincolo fra le due parti, picciola burella insignificante, apparentemente: luoghi reali del mio quotidiano fanno da sfondo all’immaginario in cui le voci accadono: è Non luogo lo spazio in cui accade lo smarrimento, la cognizione del dolore. Nella mia poesia da sempre sono i luoghi del quotidiano, e della memoria, che sono gli stessi, una Firenze oltrarnina e una Calabria-casa di campagna, gli spazi della cognizione del dolore. Se in Sanfredianina la mia Firenze oltrarnina era un bene comune vivido, se in Comedia era il luogo della lingua padre dantesco-gaddiana, in Crolli questi luoghi del quotidiano e della memoria sono… crollati, si sono adeguati alla fine della città e della campagna novecentescamente intesi come spazi condivisi, civis-polis, hanno smesso di generare mitopoiesi e sono diventati spazi anonimi (non luoghi) tipici del nuovo secolo, che pare abbia dimenticato il tempo a favore di un eterno presente, un blocco infernale smemorato. Nel nosocomio sono spazi anonimi allagati e marci, alluvionati, sommersi nella melma acquitrinosa della banalità del malessere-benessere diffuso e mortuario dell’occidente tramontato, anzi terremotato, anzi alluvionato, anzi webbizzato.

Facciamo un passo indietro e uno avanti. Nel nosocomio segue a Poema 1990-2000 (Zona, 2013), che raccoglie tutta la tua opera poematica di fine novecento: insieme «romanzo sfacciatamente autobiografico» ed epica di fondazione di un soggetto poetico femminile dotato di una voce propria. È appena uscito Controlli (libro + dvd, edizioni Millegru), in cui presti la voce a soggetti maschili (il grande poeta Hafez e il grande tuffatore Klaus Dibiasi). Che cosa è accaduto nel passaggio dalla fine secolo ai nostri anni dieci?

Ho fortemente voluto raccogliere e, soprattutto, riordinare a senso debito, cronologico e tematico – cosa che non era potuta accadere per ragioni (occasioni) editoriali con Comedia, Lo Dittatore Amore. Melologhi, Penelope e Io e Anne. Confessional poems – la mia opera tardo novecentesca, appunto, in Poema (1990-2000) nel lungo lasso di tempo intercorso fra l’ultima poesia, che si intitola Epitaffio de Lo Dittatore Amore – seguita nell’edizione Zona da Sonettessa come per un guizzo di vitalità gioiosa, ma coscientemente ultima, definitiva, di una fase e dunque di una riflessione poetica, quella intorno al canone lirico-poematico italiano dal punto di vista di una Autrice, un explicit gioioso e ribelle verso la condizione poetica di tunica funebre da indossare comunque, anche se al rovescio – e la prima della serie dei Crolli. Dopo un silenzio assoluto di cinque anni, ricordo che la serie Crolli nacque rapidamente, in rapida sequenza, secondo una modalità, anche linguistica, certamente influenzata nel frattempo, durante il silenzio della mia poesia, dalla voce potentissima di Amelia Rosselli, che avevo assunto alla mia voce per il lungo lavoro ricognitivo sull’autrice che poi è sfociato nell’edizione La furia dei venti contrari. Variazioni Amelia Rosselli, opera collettanea curata da Andrea Cortellessa, nella quale ho ricoperto diversi ruoli: voce recitante de La libellula, nel cd allegato al libro, voce guida nel documentario contenuto nel dvd allegato al libro e voce critica in un saggio contenuto nel volume: un lavoro meraviglioso, che mi ha impegnato per circa tre anni. Le mie voci per Amelia. Tuttavia, anche se Lo Dittatore Amore aveva la pretesa di dire l’ultima parola sulla secolare questione dell’Io e del Tu del canone poetico occidentale – e lirico e poematico – la sconvolgente lettura integrale, perché vocale e critica, della Rosselli ha prodotto in Crolli ulteriori sbocchi testuali. Ovvero dopo la prima serie di Crolli bellici, la seconda parte di quel libro riprende l’interrogazione annosa del fatidico binomio Io/Tu, con esiti di tracollo della tematica, anzi della dialettica, che la Rosselli ci ha insegnato (insieme al grande misconosciuto Lorenzo Calogero, che anzi in tal senso la precedette) a confondere, invertire, elaborare. A questo punto ero davvero pronta per passare ad altro, per assumere una voce, testuale e fonica, non so se maschile o piuttosto transgender facendo parlare (ancora melologo e prosopopea, ma niente parodia), tramite riscrittura, Hafez di Shiraz, e, a partire da una intervista su un quotidiano, il leggendario Klaus Dibiasi. L’idea era scrivere due poemi per video. Ormai penso la poesia scritta come un elemento da integrare in ogni caso in una fruizione multimediale. Ormai scrivo poesia drammaturgica, in senso lato.

Nel nosocomio è l’esito ultimo (in senso temporale) di una ricerca che hai avviato negli anni zero. Come hai appena spiegato, la “svolta” è segnata da Crolli (Le Lettere, 2012, ma un’anteprima era già uscita nel 2006 nelle edizioni triestine del Battello). Entrambi i libri, così come Poema, non hanno cd allegati, non sembrano cioè direttamente legati a una dimensione performativa. È di quest’anno, però, oltre al recentissimo Controlli, anche Spasimo, in cui ti fai autrice vocale di versi scritti da altri: è avvenuta una divaricazione tra scrittura alfabetica e scrittura vocale?

Esattamente il contrario! Non c’è nella mia opera artistica nessuna differenza operativa fra scrivere poesia, dire poesia, recitare poesia, addirittura tradurre poesia. La poesia scritta è un elemento primario delle mie opere, ma non solitario. Ciò non significa che i testi non ammettano la fruizione della lettura silenziosa, però io scrivo pensando alla loro realizzazione completata nella recitazione (mia o altrui o mia e collettiva). I miei libri che sono senza cd o dvd lo sono per ragioni editoriali indipendenti dalla mia pratica artistica. Il luogo fisico primario della mia scrittura è la voce, la parola in quanto fatto fisico, vocale. Credo altresì che questo valga per tutti i poeti, e da sempre; la mia diversità dipende dal fatto che ho una formazione anche da attrice, con ricerche più accurate sulla espressività vocale piuttosto che fisica, anche se da un anno ho ricominciato a fare l’attrice in teatro proprio per diventare performer nel senso più completo possibile del termine e recitando anche testi, non in versi, altrui, perché da sempre recito testi in versi non scritti da me, attività quantitativamente maggiore della scrittura nella mia attività. Facendo l’attrice affronto una difficoltà che mi ha tenuto lontana dal teatro per tutta la vita, dopo una adolescenza attoricissima, ovvero l’unione fra il gesto fisico e la parola, perché sono abituata a leggere e a considerare il testo come uno spartito solo vocale, limite al cui superamento in questi anni sto lavorando. La cosa che mi sarebbe piaciuta di più sarebbe stata fare la cantante lirica, cantare versi. Invece, da poeta performer, intono versi, eseguo lo spartito dell’aspetto visivo e fonico del testo, riscrivo vocalmente la forma poesia che giace sul foglio, le restituisco la sua dimensione vocale, assolutamente consustanziale alla dimensione scritta. Però non c’è nel mio lavoro alcuna distinzione per così dire ontologica, o di genere letterario, fra poesia cosiddetta lineare e poesia cosiddetta performativa. La poesia è tutta scritta e tutta performativa, a parte quella dei popoli con civiltà orale, nel senso che la dimensione fonica per eccellenza è il quid che distingue la poesia dalla narrativa e la apparenta piuttosto alla musica e al teatro. In Spasimo, per la cui realizzazione mi ci sono voluti tre anni, elaboro vocalmente, riscrivo vocalmente, un testo poetico che si è costituito dalla combinazione di testi da me molto frequentati per grande passione: di Anne Sexton, Jacopone da Todi, John Donne e Vito Bonito. La scoperta della poesia di Vito Bonito mi ha permesso di mettere in pratica un mio vecchio sogno, intonare le laudi jacoponiche. Fino a che non ho però costruito il mio percorso poetico fra certe pagine di Sexton, di Tommaso Campanella (i meravigliosi madrigali, poi espunti per eccesso di lunghezza del lavoro), attraverso il collante dei testi di Bonito, Spasimo non è nato. E tuttavia Spasimo è uno dei capitoli del mio fare vocale intorno all’estasi, iniziato con Sequenza orante, il mio testo che ho più recitato negli anni Novanta, insieme a Penelope. Ad esempio il lavoro Racconto d’infanzia, riduzione di Storia di un’anima di Santa Teresa di Lisieux, anche con le sue meravigliose poesie, è un fare l’estasi. Per me poesia è soprattutto fare delle estasi.

Qual è, in conclusione, il rapporto della tua poesia con il teatro?

Un cordone ombelicale a doppio senso di marcia unisce in me poesia e teatro. E’ molto difficile definire questa simbiosi, scioglierla in definizioni, specialmente adesso che mi sono rimessa a fare l’attrice dopo una pausa di quaranta anni, e senza smettere di fare poesia. Ogni giorno lotto e lavoro per fare poesia in teatro e teatro in poesia. E’ una cosa entusiasmante, anzi estatica, appunto.

Torniamo a Controlli. È un’opera composta da due poemetti per voce e per video; quest’ultimo è stato realizzato da Daniele Vergni, che in copertina figura come coautore a pieno titolo. Come è nata l’idea di questi poemetti multimediali e come hai collaborato con Daniele Vergni?

La riscrittura dei ghazal di Hafez nasce da una commissione dell’iranista Domenico Ingenito, che chiese ad alcuni poeti italiani di scrivere qualcosa a partire da una sua traduzione letterale del corpus hafeziano, finalizzata ad un reading in occasione di un convegno all’Università Orientale di Napoli sulla traduzione. Il melologo di Klaus invece è nato dalla lettura dell’intervista al tuffatore ormai anziano. Quando ho scritto questa seconda personificazione ho realizzato che i due testi costituivano un dittico e che la loro realizzazione ideale, cioè il loro compimento ritmico, l’avrebbero ricevuta diventando un video in due capitoli. Un mediometraggio di poesia in movimento. La forma ritmico-versale del dittico è opposta. Hafez scrisse in distici. Ho mantenuto questa forma durante tutta la composizione del testo tramite riscrittura dell’originale e cut up strofici, e mediante il loop ho mimato testualmente e localmente l’andamento circolare e spiraliforme della danza sufi, dell’estasi sufi. Il parlato-scritto sintatticamente semplicissimo dell’intervista a Klaus Dibiasi, che ha ingenerato in me una sorta di immensa tenerezza, mi sono limitata a copiarlo e metterlo in linee versali. Come se il suo parlato-scritto, rapido e lineare, fosse la voce della corsa breve del tuffatore sul trampolino, prima di affidarsi al nulla del tuffo, del volo, per me del margine bianco del foglio dopo le parole. Il melologo su Dibiasi è composto ritmicamente di linee monotonali che si spezzano bruscamente, imitando il gesto del tuffatore. Un’estasi laica, un’estasi sportiva. Tra l’altro c’era già un lungo brano simile, per ideazione se non per struttura, in Crolli, un brano che imita il movimento dei pattinatori sul ghiaccio. La perfezione olimpionica, la perfezione del sufi: due resistenze ai “crolli” della nostra civiltà, due resistenze estetiche e etiche. Di fatto avrei voluto che Crolli|Controlli, con questo titolo, fosse un’opera unitaria, un libro in due parti distinte, la prima corredata di un cd con la mia lettura, la seconda dal video. Esce Controlli adesso, e fra qualche mese avremo anche una riedizione di Crolli, come prima uscita di una nuova collana di poesia a cura di Maria Concetta Petrollo Pagliarani per la casa editrice romana Dei Merangoli, arricchita da una serie di traduzioni in inglese di alcuni testi a cura di Serena Todesco e del poeta irlandese William Wall. La collaborazione col videomaker e musicista Daniele Vergni è nata dalla nostra stima reciproca; Daniele scrive ed è un lettore attento di poesia, io apprezzo molto la sua capacità di combinare musica e immagine. Soprattutto abbiamo collaborato nella costruzione dei ritmi e dei colori che mettessero in sinergia recitazione in versi, immagini e musica.

Nel 2011 hai firmato con Daniela Rossi il manifesto Fragili guerriere. A cinque anni di distanza si può tentare un bilancio?

La risposta al manifesto non c’è stata perché le modalità femministe non sono più quelle degli anni settanta, purtroppo o per fortuna, non saprei dire, c’è molta confusione attorno alla parola e all’azione femminista oggi. Ma il progetto artistico va avanti, anche se con difficoltà, per le solite ragioni di indifferenza delle istituzioni, soprattutto quando si tratterebbe di far vivere l’arte di donne che si chiamano alle arti anche in quanto donne.  Ma io e Daniela Rossi siamo estremamente tenaci e abituate a coltivare i progetti per anni e anche a portarli avanti umilmente, a piccoli passi. Abbiamo fatto molti reading in cui con la musicista Patrizia Mattioli ho recitato, oltre alla mia Penelope, i poemi epici di Amelia Rosselli, Patrizia Vicinelli e Vivian Lamarque, tre autrici che riconosco come fondative della poesia italiana contemporanea, come precursore del mio lavoro, e non solo, come grandissime maestre; Daniela organizza serate di performances totali, visive, letterarie, teatrali. Io vagheggio un meeting di poete e critiche intorno al canone letterario rivoluzionato dalla scrittura femminile novecentesca, questione tematica che ha coinvolto e coinvolge tutte le arti: anzi, una delle caratteristiche più interessanti dell’arte delle donne sta proprio nel non arroccamento nei generi, nelle distinzioni fra generi. A ben pensare non ha nessun senso, dal novecento in poi, distinguere fra generi, erigere muri fra i generi letterari. Esiste il testo, questo Jakobson e la semiologia ce lo hanno dimostrato. Le polemiche sulle definizioni di cosa sia o non sia poesia spesso sono motivate da invidie, sessismi, ignoranza, malafede culturale. E’ importantissima l’analisi del testo e la conoscenza delle sue strutture metriche, prosodiche, narratologiche. Ma erigere muri, questione politica, è affare del patriarcato. Il patriarcato purtroppo è vivido e mortifero come non mai oggi e le donne schiave del suo male come non mai. L’arte, e la poesia può e deve sussumere tutte le arti, ovvero riconvocarle a sé, al non potere di una parola viva, ha il dovere di continuare a combattere contro il patriarcato e le sue simbologie razziste. Il grande poeta (maschio) non esiste più, è una formula vuota, legata ad ambienti politicamente reazionari. La mia opera e la mia vita trovano senso in questa lotta di liberazione profonda, alla quale non rinuncerò mai finché avrò forza per lavorare. E’ importante che gli artisti ricomincino a parlare di lotta politica, liberazione, rivoluzione. Se non l’arte non ci resta nessuna libertà praticabile oggi, che siamo schiavi assoluti di un onnipervadente capitalismo-web: una gabbia assurda per chi come me è nato alla metà o poco oltre del novecento. Fragili guerriere esisterebbe molto di più se chi si occupa di poesia e di arte in genere fosse meno impelagato nella melma del nostro nosocomio quotidiano, ammorbato dai “mi piace” inconsulti, dalle convenienze momentanee, dall’indifferenza generale per i progetti a lungo termine.

Nel nosocomio è stato finalista al Premio Nazionale Elio Pagliarani 2016. Pagliarani ha firmato la Prefazione al tuo Comedia (1998); possiamo considerarlo un padre?

Il più grande dei padri perché un fratello maggiore, un non padre, un maestro immenso e generoso, un vero femminista. Lo adoro sin da ragazza, ancora prima di conoscerlo, come poeta, poi e per sempre, come uomo e come artista. Io sono figlia e sorella de La ragazza Carla. Un grande esempio, Elio, di come si può e si deve essere una persona, al di là di generi e classi sociali.

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