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diretto da Romano Luperini

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Pirandello post-umano? Ecocritica, modernismo e coscienza di specie/Teorie e metodi 4

 [Il testo seguente raccoglie, in forma abbreviata, alcune osservazioni tratte da un saggio che sarà incluso negli atti del seminario Posthumanist Modernism, tenutosi a Utrecht nel luglio 2017. Il volume è attualmente in preparazione; un resoconto del seminario si può trovare qui]

Cos’è il post-umanesimo? Nel libro omonimo oggi considerato tra i principali punti di riferimento in quest’ambito (What Is Posthumanism?, 2009), Cary Wolfe lo definisce come un tentativo di abbattere ogni rigida dicotomia tra umano e animale, ripensando la stessa categoria dell’umano (con i suoi tratti distintivi) all’interno di un continuum biologico ed evoluzionistico. Questa prospettiva filosofica ha svolto un ruolo fondamentale negli sviluppi recenti dell’ecocritica, ovvero la disciplina che studia i modi in cui la letteratura e le arti rappresentano il groviglio che lega la specie umana all’ambiente (l’enmeshment, per usare una metafora introdotta da Timothy Morton, come spiega Marco Caracciolo in un’intervista per laletteraturaenoi). Per quanto riguarda gli studi letterari, l’ecocritica ha avuto il merito di inserire nozioni ben note (come ad esempio la critica all’antropocentrismo) all’interno di un quadro filosofico più articolato, e di promuovere l’analisi del rapporto tra coscienza di specie da una parte e scelte tematiche o formali dall’altra; è ormai possibile trovarne ottimi esempi anche in ambito italiano, dal volume Ecocritica. La letteratura e la crisi del pianeta a cura di Caterina Salabè (Donzelli, 2013) al recentissimo Letteratura e ecologia di Niccolò Scaffai (Carocci, 2017).

Nei paragrafi che seguono, mi limiterò ad avanzare alcune proposte per una lettura in chiave postumana della narrativa di Luigi Pirandello. Un buon punto di partenza è offerto dall’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia inclusa nell’edizione 1921 del Fu Mattia Pascal: «C’è nella storia naturale un regno studiato dalla zoologia, perché popolato dagli animali. Tra i tanti animali che lo popolano è compreso anche l’uomo. E lo zoologo sì, può parlare dell’uomo e dire, per esempio, che non è un quadrupede ma un bipede, e che non ha la coda, vuoi come la scimmia, vuoi come l’asino, vuoi come il pavone» (Pirandello, Tutti i romanzi, a c. di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1973, v. I, p. 580; corsivo mio). Il riferimento alla zoologia risente, con ogni probabilità, della famosa premessa di Balzac alla Comédie Humaine (1842):

Quest’idea [: l’idea della Comédie] mi è venuta da un confronto fra Umanità e Animalità. […] L’animale è un principio che ricava la sua forma esteriore, o, per parlare più esattamente, la sua diversità di forma, dall’ambiente in cui è destinato a svilupparsi. Le Specie Zoologiche hanno origine da questa diversità. […] Io vidi che, da questo punto di vista, la Società era simile alla Natura. La Società non fa forse di un uomo, secondo l’ambiente in cui egli svolge la sua attività, tanti uomini diversi quante varietà esistono in zoologia? (Balzac, Premessa alla Comédie Humaine; traduzione di A. Pozzi)

La novità introdotta da Pirandello, tuttavia, è degna di nota: non si tratta più, come in Balzac, di un semplice ‘confronto’ tra Umanità e Animalità, fatte coincidere rispettivamente con ‘Società’ e ‘Natura’; nell’Avvertenza, Pirandello dichiara esplicitamente che l’uomo è uno dei «tanti animali» di cui la zoologia può occuparsi. A dire il vero, l’idea di un continuum tra uomo e animale era già ben presente a Balzac, sulla scorta di Spinoza e Leibniz («non vi è che un animale», si legge sempre nella Premessa) – tuttavia, Pirandello sviluppa questa nozione in modo ben più evidente, esplorandone le profonde implicazioni narrative. In altre parole, Pirandello sembra porsi con più insistenza una domanda che in Balzac non era ancora così centrale: cosa accade all’antropocentrismo implicito nelle forme narrative tradizionali, quando prendiamo in considerazione il fatto che la specie umana è solo una delle tante che popolano il regno animale?

La risposta di Pirandello a questa domanda può prendere almeno due forme diverse. La prima è un abbandono euforico all’infinita varietà della natura, alla quale viene contrapposta l’uniformante ‘marsina stretta’ delle norme sociali. Una simile celebrazione della fisiologica varietà degli esseri viventi è rintracciabile nell’Umorismo:

Noi tutti possiamo notar facilmente come e quanto la fisionomia dell’uno sia diversa da quella d’un altro. […] Pensiamo a un gran bosco dove fossero parecchie famiglie di piante: querci, aceri, faggi, platani, pini, ecc. Sommariamente, a prima vista, noi distingueremo le varie famiglie […]. Ma dobbiamo poi pensare che in ognuna di queste famiglie non solo un albero è diverso dall’altro, un tronco dall’altro, un ramo dall’altro, una fronda dall’altra, ma che, fra tutta quella incommensurabile moltitudine di foglie, non ve ne sono due, due sole, identiche tra loro.

(Pirandello, L’umorismo [1920], in Saggi e interventi, Milano, Mondadori, 2006, p. 806)

È significativo che, anche in questo caso, Pirandello si rifaccia a Balzac, riprendendo ed espandendo un’immagine usata in Séraphita (1834): «Da nessuna parte nella natura troverete due oggetti identici […]. Sapete bene che è impossibile trovare due foglie identiche sullo stesso albero, o due esemplari identici della stessa specie di albero» (Balzac, La Comédie humaine, a cura di Pierre-Georges Castex et alii, Parigi, Gallimard, 1976, XI, p. 820). L’attenzione nei confronti del Balzac post-umano, del resto, è testimoniata anche da un altro episodio di abbandono euforico alla varietà della natura, ovvero il finale di Uno, nessuno e centomila:

Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. […] Muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori. (Tutti i romanzi, vol. II, pp. 901-902)

L’immersione panica di Vitangelo Moscarda nell’infinito divenire delle forme viventi richiama, si direbbe, quella di Raphaël de Valentin (La peau de chagrin) nel paesaggio bucolico dell’Alvernia: «Restava sulle rocce per giorni interi come una pianta al sole, come una lepre nella tana. Familiarizzando con i fenomeni della vegetazione, con le vicissitudini del cielo, spiava il progresso di tutte le opere sulla terra, sott’acqua o nel cielo. […] Aveva mescolato fantasticamente la sua vita con quella delle rocce, vi si era radicato» (La Comédie Humaine, X, p. 282).

Accanto a questa fusione euforica con la natura (che sembra sviluppare spunti già presenti nel realismo romantico di Balzac), l’altro esito principale del post-umanesimo pirandelliano risiede in un’ironia cosmica nei confronti delle vicende umane – un distanziamento assoluto insomma, nei modi prescritti dalla ben nota ‘filosofia del lontano’ che sta alla base dell’umorismo. L’esempio più celebre è forse la «Premessa seconda» del Fu Mattia Pascal:

— E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise… La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola… Teresina si moriva di fame… Lucrezia spasimava d’amore… Oh, santo Dio! e che volete che me n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché […]? Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci, ormai, le nostre. (Tutti i romanzi, I, p. 324)

Distanziandosi infinitamente dall’antropocentrismo delle forme narrative tradizionali, l’umorista ricolloca le vicende umane all’interno di un continuum biologico, in cui la distinzione tra «generali calamità» e «storie di vermucci» non può più darsi per scontata.

Non è un caso, d’altra parte, che i due passi pirandelliani su cui ci siamo soffermati vengano da zone liminali dei rispettivi romanzi: la pagina finale nel caso di Uno, nessuno e centomila, la premessa nel caso del Fu Mattia Pascal. È come se Pirandello intendesse usare le soglie del testo per collocare le vicende narrate in una cornice post-umana, della quale possiamo dimenticarci solo in virtù della «distrazione provvidenziale» chiamata in causa da Mattia Pascal. L’ipotesi è confermata da un’analisi degli epiloghi delle Novelle per un anno, che spesso innescano un processo di allontanamento cosmico rispetto alla storia appena narrata. Molto frequente, ad esempio, è il richiamo finale alla luna o alle stelle, che assistono con indifferenza (secondo un topos di lunga data) alle vicende umane:

E quella luna… Cantava il vetturino monotonamente, mentre i cavalli stanchi trascinavano con pena la carrozza nera per lo stradone polveroso, bianco di luna. (Sole e ombra, 1896; Novelle per un anno [d’ora in poi NA], a c. di Mario Costanzo, Milano, Mondadori, 1985-1990, I, p. 506)

[Gerlando] fu colpito negli occhi improvvisamente dall’ampia faccia pallida della Luna sorta appena del folto degli olivi lassù; e rimase atterrito a mirarla (Scialle nero, 1900; NA I, p. 38)

La luna guardava dal cielo il piccolo camposanto su l’altipiano. (Prima notte, 1900; NA I, p. 49)

Una brezza lieve si levò, salendo la luna. (Il «fumo», 1904; NA I, p. 1134)

Via da quel cavallo, via da sotto quella luna pazza (Un cavallo nella luna, 1918; NA I, p. 689)

E l’incanto della notte gli apparve ritrovato, con le stelle ben ferme e brillanti nel cielo, e quelle sponde e quella pace e quel silenzio. (Il coppo, 1912; NA I, p. 774)

C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza volerlo, […] mentr’ella saliva pel cielo, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti che rischiarava, ignara di lui (Ciàula scopre la luna, 1912; NA II, p. 1180)

Il ricordo di quella notte s’era chiuso; forse, chi sa! per riaffacciarsi poi, qualche volta, nella lontana memoria, con tutto quel mare placido, nero, con tutte quelle stelle sfavillanti (Notte, 1912; NA I, p. 581)

Scorse anch’egli dalla grata della finestra alta, nella parete di faccia, la luna che, se di là dava tanto male al marito, di qua pareva ridesse (Male di luna, 1913; NA II, p. 495)

Vagherà per i vialetti fino a sera, curiosando (da morto, s’intende); aspetterà che sorga la luna, e buona notte. (Da sé, 1913; NA III, p. 479)

La scorta rimase al bujo, sotto le stelle sfavillanti a guardia della fossa vuota («Requiem aeternam dona eis, Domine!», 1915; NA I, p. 635)

Dalla cupa profondità della notte interlunare, [le stelle] non vedevano affatto i poveri tetti di quel paesello tra i monti, ma così vivamente vi sfavillavano sopra che si poteva quasi girare non vedessero altro, quella notte. (Il gatto, un cardellino e le stelle, 1917; NA II, p. 655)

C’è anche qui la luna; ma è un’altra, se ora qui rischiara, senza saper nulla, la bianca facciata dell’ospedale. (Cinci, 1932; NA III, p. 675)

Una funzione analoga – spesso con una più netta valenza irridente – è svolta dall’explicit centrato su una figura animale: oltre a Il corvo di Mìzzaro (1919), La mosca (1904), e Il gatto, un cardellino e le stelle (1917), è possibile citare le calandre del Vitalizio (1901) e il ragno di Dal naso al cielo (1907), della cui tela – a differenza della vita di Romualdo Reda – «non si vedeva la fine» (NA II, p. 439).

I fenomeni descritti qui sopra possono forse aiutarci a individuare convergenze significative fra alcuni dei maggiori interpreti del modernismo europeo. Ad esempio, l’oscillazione tra allontanamento cosmico e abbandono alla varietà della natura è ben riscontrabile anche nelle opere di Svevo e Woolf, Joyce e Gadda (a proposito di quest’ultimo, si veda il saggio ancora oggi fondamentale di Carla Benedetti). Analogamente, l’uso strategico delle soglie testuali per proiettare la vicenda narrata su uno sfondo post-umano ricorre in altri classici del modernismo: dall’apertura dell’Uomo senza qualità di Musil («Sull’Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale»…), o dagli incipit sub specie aeternitatis di Gadda, all’explicit della Coscienza di Zeno («la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie»).

Ad ogni modo, questi brevi appunti pirandelliani sembrano confermare un aspetto della narrativa modernista che rimane poco esplorato, almeno al di fuori dell’ambito anglofono – vale a dire il legame profondo tra sperimentazione narrativa e l’adozione di una nuova prospettiva sulla specie umana.

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