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diretto da Romano Luperini

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Portare Kazuo Ishiguro in classe

 

 E anche quest’anno il Nobel. E anche quest’anno noi donne e uomini d’Occidente, che sappiamo leggere e scrivere, e “senza imparare la Treccani a memoria possiamo ancora stupire mezz’ora”, ci troviamo a mandare la consueta lettera a Philip Roth: «Mio caro, sei il più bravo, e il Nobel lo dovevi vincere tu. Pastorale americana non l’ha scritto nessuno e nel canone occidentale il tuo nome è al centro della costellazione romanzesca. Ma si sa come va il Nobel: una volta c’è da svincolare dal ghetto la canzone d’autore (et voilà Dylan), un’altra si sdogana la scrittura giornalistica (ah! Svjatlana Aleksievič), un’altra volta ancora è il turno dell’Oriente (Mo Yan), poi un giro a Svezia e Francia non si nega mai (Tranströmer e Modiano), la quota rosa va rispettata (e meglio se magari l’autrice ha scritto i racconti più belli del secondo Novecento: Munro), e …» No, qui la lettera si inceppa: Ishiguro non appartiene a nessuna categoria protetta (a meno di non chiamare in causa la vecchia etichetta di mètéque sbandierata già da Bellow: ma ammettiamolo, anche l’ingessatissima Accademia di Svezia è stata in grado di accorgersi che nella storia letteraria c’è stato, che so?, un Joseph Conrad). Ishiguro è a tutti gli effetti uno scrittore tradizionale, a tratti midcult, e comunque rappresentante di quella persistenza modernista che ha informato il secondo Novecento e l’inizio di questo secolo. Non a caso Sara Danius, nell’annunciare il nome del vincitore, ha tirato in ballo Proust e Kafka, nonché quello di Jane Austen, che al Novecento ha detto qualcosa. Perciò, con sintesi brutale, Philip Roth e Kazuo Ishiguro appartengono alla stessa famiglia. Il primo è più bravo e l’altro ha vinto il Nobel. Pazienza, non è un dramma: del resto nemmeno Gianni Rivera ha mai vinto il campionato del mondo, e ha avuto comunque una vita felice.

Ishiguro non è il più bravo, ma è uno scrittore da leggere. E dico di più: è un romanziere che può essere letto a scuola, al biennio, al triennio, e se opportunamente antologizzato anche in qualche scuola media (magari ritagliando con chirurgica precisione una o due pagine de Il gigante sepolto, il fantasy uscito nel 2015). Et sic stantibus rebus, ben venga il Nobel a Ishiguro, tanto più se permette di introdurre questo autore nelle nostre scuole. E sia veramente benvenuto questo benedetto Nobel se diventa uno strumento utile a far conoscere un romanziere importante come Ishiguro agli adolescenti (con buona pace di Philip Roth, che continua a essere il più bravo, ma non si può ricordarlo ad ogni passo; dunque basta).

Lasciando ad altri il compito di chiarire gli aspetti di poetica e di struttura romanzesca che rendono Kazuo Ishiguro uno scrittore del canone contemporaneo, mi limito qui a sottolineare alcuni punti della sua produzione, che magari possono essere utili a chi volesse presentare il nuovo Nobel in classe.

  • La produzione di Kazuo Ishiguro è varia: passa dalla narrativa più tradizionale, ma non banale, come Quel che resta del giorno (1989), a un modo più fantastico – Non lasciarmi (2005), forse l’opera più riuscita –, fino al fantasy vero e proprio, come Il gigante sepolto (2015); senza dimenticare i cinque racconti di Notturni (2009).
  • Fino a Non lasciarmi (2005) Ishiguro, in questo erede di una tradizione primonovecentesca, ha un’attenzione particolare per l’ordinario e talvolta per il quotidiano. Del resto, come sottolineava Svevo, la vita non è nelle giornate «campali», ma in tutti quei giorni che si dimenticano e che però sono determinanti per la costruzione dell’identità di un individuo.
  • In Non lasciarmi e ancor di più ne Il gigante sepolto (questo debitore di Tolkien, come ha sostenuto l’autore stesso), la poetica di Ishiguro trascende nel mito; ma non tradisce l’obiettivo ultimo della sua narrativa: quello di rappresentare l’io e le sue contraddizioni.
  • Come accadeva per Svevo e Pirandello in Italia, e in forme diverse in Europa con Woolf, Joyce, Proust ecc., Ishiguro intende rappresentare la vita psichica del personaggio. E in fondo a contare nell’identità del protagonista sono molto di più le non azioni, che le azioni realmente accadute. Esemplare è in questo senso Quel che resta del giorno.
  • La scrittura di Ishiguro è estremamente comunicativa: si lascia comprendere da una larga fetta di lettori. E tuttavia non è mai semplice; al contrario proprio l’esibita semplicità serve a nascondere più livelli di lettura che possono essere affrontati. Anche per questo i testi di Ishiguro sono inesauribili e irriducibili a un’ultima e definitiva comprensione. E ancora una volta per noi italiani il nome di Svevo torna alle labbra.
  • E in un ultimo il doppio registro: le esperienze più tragiche sono spesso anche molto bizzarre, e servono a mettere in rilievo il ridicolo della vita. In fondo, chi non ha riso dell’eccessivo formalismo di Stevens in Quel che resta del giorno?
  • Tutto questo ci conduce a riallacciare Ishiguro alla più alta tradizione modernista occidentale, soprattutto in nome di quello che è il principio cardine del romanzo modernista: l’irraggiungibilità della verità, e l’ostinazione della ricerca.

Leggere Ishiguro in classe, oltre che a educare alla lettura attraverso testi colti e piacevoli, vuol dire poter dire perseguire un triplice obiettivo: lavorare sulle competenze narratologiche (al biennio); informare i ragazzi sul canone contemporaneo (biennio e triennio); mostrare le dinamiche del primo Novecento (il modernismo) anche con un testo del presente.

Nella pagina che segue si propone un brano tratto da Quel che resta del giorno, corredato di una breve introduzione contestualizzante e di un apparato di comprensione e analisi. È pensato per il biennio, ma può essere utilizzato – pensiamo – anche con tutte quelle classi alle quali, in questi giorni, si vuole far conoscere, con un rapido assaggio, la narrativa dell’ultimo premio Nobel. Dal romanzo, come è noto, è stato tratto un film nel 1993, con Anthony Hopkins ed Emma Thompson.

*****

Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno (2005), verso il finale

Mr Stevens è maggiordomo presso una delle ville più prestigiose della Gran Bretagna: Darlington Hall. In quella casa, come sua fidata collaboratrice, ha avuto per anni al suo fianco Miss Kenton. Nel periodo in cui lavorarono insieme, i due divennero molto amici, ritagliandosi sempre, nella frenesia degli impegni, un appuntamento serale quotidiano, così da confrontarsi e passare un po’ di tempo insieme. In realtà, se Mr Stevens rimase imperturbabile e distaccato, Miss Kenton cominciò a provare un sentimento per il collega. E proprio per fuggire ad una situazione di disagio – provare un amore non ricambiato – la donna scelse improvvisamente di sposarsi e abbandonare la casa. Negli anni seguenti Miss Kenton, divenuta Mrs Benn, mantenne uno scambio epistolare con Stevens, e la loro amicizia non si perse. Nel brano che segue l’uomo, ormai non più giovanissimo, decide di intraprendere un lungo viaggio per salutare quello che è stato di fatto l’unico reale affetto della sua vita: Miss Kenton (divenuta Mrs Benn). Durante il colloquio, narrato in prima persona come in un diario, Mr Stevens comprende cosa sia realmente successo.

– Scusatemi, Mrs Benn. Ma è possibile che non ci incontreremo di nuovo per molto tempo. Mi domando se poteste consentirmi di rivolgervi una domanda su una questione di carattere alquanto personale. Si tratta di una cosa che da qualche tempo mi preoccupa.

– Certamente, Mr Stevens. Dopotutto siamo vecchi amici.

– È proprio come voi dite, siamo dei vecchi amici. Volevo semplicemente domandarvi, Mrs Benn. Per favore, non rispondete, se credete che non sia il caso. Ma il fatto è che le lettere che ho ricevuto da voi nel corso degli anni, e in particolare l’ultima, sembravano suggerire che voi foste – come si potrebbe dire? – piuttosto infelice[1]. Mi domandavo se per caso non veniste maltrattata, in qualche modo. Vogliate scusarmi ma, come vi dicevo, si tratta di una cosa che mi preoccupa da qualche tempo. Ed io mi sentirei uno sciocco se fossi arrivato fin qua, vi avessi incontrata e non ve lo avessi almeno domandato.

– Mr Stevens, non c’è alcun bisogno di sentirsi tanto imbarazzato. Dopotutto siamo vecchi amici, non è vero? Anzi, sono molto colpita del fatto che voi siate così preoccupato. E su questa faccenda sono in grado di tranquillizzarvi in maniera assoluta. Mio marito non mi maltratta in alcun modo. Non è un uomo neppure minimamente crudele o irascibile.

– Debbo dire, Mrs Benn, che ciò che dite mi libera da un gran peso.

Mi sporsi in avanti, sotto la pioggia, per scorgere qualche segno dell’arrivo dell’autobus.

– Vedo che non siete molto soddisfatto, Mr Stevens, – disse Miss Kenton. – Forse non credete a quello che dico?

– Oh, niente affatto Mrs Benn, non si tratta di questo. È che rimane il fatto che non sembra che voi siate stata felice nel corso degli anni. Intendo dire – perdonatemi – che voi avete preso l’iniziativa di lasciare vostro marito numerose volte. Se egli non vi maltratta, allora, beh… ci si sente un po’ sconcertati quanto al motivo della vostra infelicità.

Guardai di nuovo fuori, nella pioggia. Alla fine udii Miss Kenton, alle mie spalle, che diceva: – Come posso spiegarvi, Mr Stevens? Io stessa non capisco bene perché mai faccio queste cose. Ma è vero, me ne sono andata già tre volte. – Poi tacque un istante, un tempo durante il quale continuai a guardare fisso in direzione dei campi che erano dall’altro lato della strada. Poi disse: – Immagino, Mr Stevens, che mi stiate chiedendo se amo o meno mio marito.

– Credete, Mrs Benn, non oserei permettermi…

– Sento che vi devo questa risposta, Mr Stevens. Come avete detto, potremmo non vederci più per molti anni. Sì, io amo mio marito. Non lo amavo all’inizio. All’inizio non l’ho amato e per lungo tempo. Quando lasciai Darlington Hall[2] tutti quegli anni addietro, non avrei mai pensato che la stessi realmente, davvero lasciando. Credo che pensassi a quel gesto semplicemente come ad un altro stratagemma, Mr Stevens, per farvi arrabbiare.[3] Fu uno shock arrivare qui e ritrovarmi sposata. Per molto tempo sono stata molto infelice, davvero tanto infelice. Ma poi, uno dopo l’altro sono passati gli anni, c’è stata la guerra, Catherine[4] è cresciuta, e un bel giorno mi sono resa conto che amavo mio marito. Si passa tanto tempo insieme ad una persona, e alla fine si scopre di essersi abituati a lui. È un uomo gentile, solido, e sì, Mr Stevens, ho finito per amarlo.

Miss Kenton tornò a farsi silenziosa per un istante. Poi continuò:

– Ma questo non vuol dire, naturalmente, che non vi siano momenti di tanto in tanto – momenti di estrema tristezza – quando pensi fra te e te: «Che terribile errore è stata la mia vita». E allora si è indotti a pensare ad una vita diversa, una vita migliore che si sarebbe potuto avere. Ad esempio io mi scopro a pensare al tipo di vita che avrei potuto avere con voi, Mr Stevens. E immagino che mi accada in quei momenti nei quali mi arrabbio per qualche cosa senza importanza e me ne vado. Ma ogni volta che lo faccio, ben presto mi rendo conto che il mio posto è accanto a mio marito. Dopotutto ormai non si può più mettere indietro l’orologio. Non si può stare perennemente a pensare a quel che avrebbe potuto essere. Ci si deve convincere che la nostra vita è altrettanto buona, forse addirittura migliore, di quella della maggior parte delle persone, e di questo si deve essere grati.

Non credo di aver reagito immediatamente, perché mi ci volle un momento o due per digerire in pieno le parole di Miss Kenton. Inoltre, come voi comprenderete[5], le implicazioni di quelle parole erano tali da provocare nel mio animo un certo grado di rammarico. In verità – perché non dovrei ammetterlo? – in quel momento mi si stava spezzando il cuore. Prima che fosse trascorso molto tempo, tuttavia, mi volsi verso di lei e dissi con un sorriso:

– Avete proprio ragione, Mrs Benn. Come voi stessa dite, è troppo tardi per mettere indietro l’orologio. E a dire il vero non riuscirei a dormire se pensassi che quelle idee siano causa di infelicità per voi e per vostro marito. Tutti quanti noi, come voi dite, dobbiamo essere grati di ciò che realmente abbiamo.[6] E da quello che voi mi dite, Mrs Benn, avete ragione di essere contenta. Perché sono certo che con Mr Benn che va in pensione e i nipotini in arrivo, per voi e per Mr Benn vi siano in serbo anni di grande felicità. Non dovete davvero permettere che altre idee sciocche si frappongano tra voi e la felicita che meritate.

– Naturalmente, avete ragione, Mr Stevens. Siete molto gentile.

– Ah, Mrs Benn, sembra che stia arrivando l’autobus.

Uscii fuori e feci un cenno con la mano, mentre Miss Kenton si alzava in piedi e si avvicinava al bordo della tettoia. Solo quando l’autobus si fermò io mi volsi a guardare Miss Kenton e mi accorsi che i suoi occhi si erano riempiti di lacrime. Sorrisi e dissi:

– Ora, Mrs Benn, voi dovete aver cura di voi stessa. Molti dicono che per una coppia sposata il momento della pensione rappresenta la parte più bella della vita. Voi dovete fare tutto quanto e in vostro potere, per fare di questi anni degli anni felici, per voi e per vostro marito. Può darsi che non ci incontreremo mai più, Mrs Benn, perciò vorrei chiedervi di dare veramente ascolto a quanto vi dico.

– Lo farò, Mr Stevens, grazie. E grazie anche per il passaggio. Siete stato molto gentile. È stato molto bello vedervi di nuovo.

– È stato un gran piacere rivedervi, Mrs Benn.

Guida all’analisi

Leggere e comprendere

Un testo in cinque sequenze Il brano che abbiamo letto può essere suddiviso in cinque sequenze:

  • [«Scusatemi … autobus».]: Mr Stevens scrive sul proprio diario il racconto dei cinque giorni che lo hanno condotto da Miss Kenton: e quindi anche il colloquio che ha intrattenuto con lei. Quando si riportano le proprie vicende, anche in un diario, si rischia di non essere obiettivi, e di raccontare i fatti interpretandoli secondo il proprio punto di vista. Per questo motivo il narratore si affida molto al dialogo: cerca di scomparire, per mettere sulla pagina scritta soltanto quanto è realmente accaduto.
  • [«- Vedo … continuò»]: Affidandosi sempre al dialogo, il narratore riporta la storia di Miss Kenton: la donna si sposò per fare arrabbiare l’amico – ossia per turbarlo, provocandone la gelosia – e dopo si trovò in un matrimonio che le dava poca o nessuna felicità. Soltanto negli ultimi anni, quelli più vicini alla vecchiaia, Mrs Benn (Miss Kenton) ha imparato ad amare il marito; o meglio ha deciso di amarlo.
  • [«Ma questo … grati]: è Miss Kenton a parlare. Il narratore riferisce al lettore che la donna era innamorata dell’amico; e che ancora a distanza di anni pensa a come sarebbe stata la vita se avesse potuto dividerla con lui.
  1. [«Non credo … autobus»]: Finalmente conosciamo il punto di vista del narratore, che fino a questo momento si era nascosto dietro l’oggettività del discorso diretto. Mr Stevens dichiara di essere rimasto molto turbato dalle parole dell’amica. E uno stato di turbamento può rendere meno lucidi e imparziali: in questo momento, dunque, le parole del narratore perdono un po’ della robusta attendibilità che hanno contraddistinto finora il suo discorso. A conferma di questa minore attendibilità la sequenza si apre con la frase «Non credo»: il narratore in questo modo dichiara di non essere del tutto consapevole degli eventi che lo hanno visto protagonista. Il suo stato emotivo non gli permette di ricordare tutto esattamente.
  2. [«Uscii … Benn»]: Nell’ultima sequenza, che ritorna ad essere imperniata sul discorso diretto, Mr Stevens dimostra la sua estrema generosità: dopo aver ricevuto una vera e propria dichiarazione di amore, invita Mrs Benn a prendersi cura di lei, e dunque del suo matrimonio.

 

Imparare ad analizzare

Qualcosa non torna: il lettore si fa detective Il brano che hai letto è narrato in prima persona ed è costruito in gran parte sul dialogo tra i due personaggi. Non c’è dunque ragione di dubitare delle parole del narratore. Inoltre tutto il passo è strutturato al modo di un diario privato, e dunque attraverso una forma di scrittura in cui chi parla non ha ragione di mentire (perché mentire in un diario che leggerò solo io?). Eppure il lettore ha la sensazione che il narratore non dica tutto e avrebbe voglia di saperne di più. è mai possibile che la storia sia andata veramente così? Come ha fatto Mr Stevens a mantenere questo distacco e questa freddezza? Ed è credibile che non abbia avuto altri pensieri per la testa?

Mentire per omissione Queste domande sono lecite e sembrano quasi suggerite dalla reticenze e dai silenzi del testo. Il lettore se le pone alla luce della quarta sequenza, quando il narratore ha dichiarato il suo turbamento e ha aperto il suo discorso con l’espressione: «Non credo». Si tratta di un indizio minimo, di una piccola increspatura sulla superficie impassibile del testo: ma tanto basta al lettore per immaginare quello che il narratore non dice. Il ligio Mr Stevens ha paura dei sentimenti e nasconde una verità che non sa gestire. è un narratore che mente per omissione perché non sa confessare neanche a se stesso il sentimento segreto che nutre per l’amica.

[1] le lettere … infelice: durante lo scambio epistolare con Mr Stevens, Miss Kenton (poi diventata Mrs Benn) si lasciò andare a sfoghi e a momenti di sconforto circa il suo stato matrimoniale; sembrava insomma essere insoddisfatta di suo marito.

[2] Darlingon Hall: la prestigiosa residenza dove Mr Stevens e Miss Kenton lavoravano in qualità di governanti.

[3] Credo … arrabbiare: Mrs Benn inizia a introdurre l’argomento principale del loro colloquio: il motivo del suo rapido allontanamento da Darlington Hall è legato alla persona di Mr Stevens.

[4] Catherine: la figlia che Miss Kenton ebbe da suo marito Mr Benn.

[5] come voi comprendete: come detto nell’introduzione quello di Mr Stevens è “una specie di diario”. Sebbene il memoriale si configuri come una scrittura privata (peraltro l’incontro con Miss Kenton nella finzione narrativa sembra essere avvenuto pochi giorni prima), di tanto in tanto il narratore sembra parlare ai suoi lettori. E questo rende tutta la pagina poco obiettiva e, potremmo dire, un po’ sospetta.

[6] dobbiamo … abbiamo: Mr Stevens sostiene che invece di concentrarsi su quello che si sarebbe potuto avere, è meglio essere felici per quello che si ha, e per la vita reale che si conduce (piuttosto che per quella sognata e fantasticata).

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