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diretto da Romano Luperini

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«Un’inconfondibile voce poetica»: Louise Gluck

Un po’a sorpresa e facendo saltare tutti i pronostici che volevano come favorita Anne Carson, l’Accademia di Svezia ha assegnato il Premio Nobel per la letteratura 2020 a Louise Gluck, distintasi tra gli altri candidati per «la sua inconfondibile voce poetica, che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale». La poetessa americana, tuttavia, è pressoché sconosciuta in Italia, dove si possono trovare solo (e faticosamente) due opere pubblicate da piccoli editori e tradotte da Massimo Bacigalupo: L’iris selvatico uscita per Giano nel 2003 (The Wild Iris, però, è del 1992 e ha vinto il Pulitzer nel 1993) e Averno, del 2009, e pubblicata, nel 2019, dalla libreria e casa editrice napoletana Dante e Descartes, adesso subissata da richieste e prenotazioni. In aggiunta, le traduzioni contenute in West of your cities (nuova antologia della poesia americana), a cura di Mark Strand e Damiano Abeni (Minimum Fax, 2003), di difficile reperibilità, e quelle di Elisa Biagini in Nuovi poeti americani (Einaudi, 2006), ancora in catalogo. D’altronde, appare sempre più evidente che per certi scrittori sia più facile passare dal Nobel che dalle librerie; a conferma c’è anche il caso di Giovanna Giordano, unica italiana presente nella rosa dei candidati, i cui libri sono introvabili.

Una poesia disadorna e universale

Il nome di Louise Gluck è stato spesso associato a quello di Emily Dickinson e Robert Lowell, ma anche a quello di Sylvia Plath e di Anne Sexton; tuttavia, anche se è innegabile il forte legame che la lega a questi poeti (soprattutto alla Dickinson, ma sarebbe opportuno aggiungere anche Dante e T.S. Eliot), è altrettanto chiaro che non la si può relegare nella corrente della «poesia confessionale» (Macha Louis Rosenthal usò per primo questa definizione, nel 1959, in Poetry as Confession dedicato a Life Studies di Lowell) perché, pur non avendo mai avuto reticenze a parlare di sé e del suo vissuto personale (i temi centrali delle sue opere sono «l’infanzia e la vita familiare, lo stretto rapporto con genitori e fratelli», l’anoressia giovanile, il distacco, la solitudine, la morte, la natura), non ne condivide il pathos esistenziale, l’esibizione nuda e brutale del proprio io nell’istante dell’emozione, il soliloquio privato, appassionato e viscerale della propria vita psichica, instabile e repressa.

La poetessa americana sembra essere molto lontana da questa idea di poesia, e privilegia soprattutto la «ricerca di chiarezza», di sobrietà espressiva, e di una struttura compositiva rigorosa e severa attraverso cui, in un costante scavo autoanalitico (Gluck non ha mai nascosto l’importanza dei sette anni di psicoanalisi che, come lei stessa afferma, «le hanno insegnato a pensare»), esprime conflitti, dissidi, il suo disincanto per il mondo (che nelle prime raccolte risulta più aspro, basti pensare a I bambini affogati in The Descending Figure, del 1980).

Il risultato è costituito da componimenti intimi, scabri ed essenziali, che raccontano con asciutta onestà, mista, a tratti, ad un distaccato risentimento e a una acuta ironia, le illusioni e le delusioni, il profondo senso di perdita, ciò che rimane dei desideri («È notte per l’ultima volta / Per l’ultima volta le tue mani / si raccolgono sul mio corpo // Domani sarà autunno», Le lettere, da The House of Marshland, 1975;  «Divenni una criminale quando m’innamorai. /Prima facevo la cameriera / Non volevo venire a Chicago con te /Volevo sposarti, volevo / Che tua moglie soffrisse. […] / Il sogno non salva la fanciulla», Sirena, da Meadowlands, 1996; «Pensavo che la mia vita fosse finita e il mio cuore si fosse spezzato. / Poi mi sono trasferita a Cambridge», Vita Nova, 1999).

La sua vita, dunque, non rimane e non significa mai solo se stessa, perché le esperienze private evocate riescono sempre universalmente umane, e vi è, ovunque, una specie di rappresentazione eternante degli eventi e degli oggetti, in grado di trasformare i dati di realtà in emblemi imperituri, in un significato collettivo.

The Wild Iris: la liturgia dei fiori

Louise Gluck non è, però, solo confinata nelle schegge memoriali del suo retroterra personale, «ma è una poetessa del cambiamento radicale e della rinascita», come è possibile notare in The Wild Iris; in realtà non si tratta di una vera e propria raccolta, ma di un lungo poema, che ha come sfondo un giardino, nel Vermont, in cui si intrecciano, di volta in volta, voci diverse che dialogano anche tra loro: quelle incarnate dei fiori così simili agli esseri umani, ma che, a differenza loro, accettano stoicamente la fugacità del proprio destino («Le vostre vite non sono circolari come le loro: le vostre vite sono il volo dell’uccello che inizia e finisce nell’immobilità», Vento calante ); quella della poetessa giardiniera che, segnata dal sacrificio della perdita (della giovinezza e dell’amore), si rivolge a Dio, «padre irraggiungibile», sfidandone il silenzio («Lasciati soli / ci esaurimmo a vicenda. Seguirono / anni di oscurità; facemmo a turno / a lavorare il giardino, le prime lacrime / ci riempivano gli occhi quando la terra / si appannò di petali, qui / rosso scuro, là color carne…», Mattutino; Devi vedere / che a noi non serve, questo silenzio che incoraggia / a credere / che devi essere ogni cosa, la digitale e il biancospino, / la rosa vulnerabile e la margherita resistente, Mattutino); infine, la voce, appunto, di questo Dio assente, ironico, duro, insoddisfatto dell’incontentabilità umana, che ne lamenta la regressione all’istintivo («Volevate nascere; vi ho lasciato nascere. / Quando mai il mio dolore si è frapposto al vostro piacere?», Fine dell’inverno; «Quando vi ho fatti, vi amavo. / Ora vi compatisco. / Vi ho dato quanto vi serviva: / letto di terra, lenzuolo di aria blu… / […] » ). Incapaci di comunicare realmente, tali voci sono simboli dell’alterezza e della durezza, ma anche resistenza, della capacità di trasformazione di ogni essere umano, in grado di tornare miracolosamente alla vita dopo ogni morte, dopo ogni devastazione, dopo l’oblio, come racconta proprio l’iris selvatico nell’ultima strofa del componimento che apre la raccolta: «Tu che non ricordi / passaggio dall’altro mondo / ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò / che ritorna dall’oblio ritorna / per trovare una voce: / dal centro della mia vita venne / una grande fontana, ombre blu / profondo su acqua di mare azzurra».

Averno: un’interpretazione visionaria del mito

Nella ricerca dell’universale, per la Gluck è fondamentale l’ispirazione del mondo classico e dei suoi personaggi principali (già da The House of Marshland del 1975), che lei rivisita sempre in chiave contemporanea, collettiva e personale, come accade in Averno, titolo che si ispira al cratere a ovest di Napoli considerato, dagli antichi romani, l’ingresso agli inferi. E il mito di Persefone, non a caso, è il cemento strutturale che sorregge e controlla il discorso poetico e che, continuamente, con fluida rapidità, si intreccia alla zona dell’esperienza vissuta e soggettiva, non chiudendosi mai in un’unica linea di sviluppo, ma sempre disponibile a spostamenti e mutazioni, di cui il lettore è chiamato, dunque, a decodificare e a interpretare le allegorie. I personaggi quindi, come lei stessa avverte, «non sono persone, sono aspetti di un dilemma, di un conflitto».

Lo sfondo della perdita, del distacco è presente in tutti i testi, a partire dalla riflessione sulla morte del corpo, la «frattura dell’anima umana / che non è stata fatta per appartenere / tutta alla vita», e su cosa accadrà dopo, nell’aldilà, senza le cose che amiamo, le necessità crude da cui dipendiamo («Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli. // Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno / queste cose su cui facciamo affidamento, / esse svaniscono. // Allora cosa farà l’anima per rinfrancarsi? / Mi dico che forse non avrà più bisogno / di questi piaceri; / forse già non essere basta del tutto, / per quanto sia difficile da immaginare», Le migrazioni notturne). Anche se, in realtà, risulta abbastanza chiaro che, per la Gluck, più feroce della morte è la vita stessa, inconciliabile con i desideri degli esseri umani, a cui impone continue «sparizioni» da cui nessuno è risparmiato («la morte non può farmi del male / più di quanto mi abbia fatto male tu, / amata vita mia»). E tuttavia, al gelo incorruttibile che segna concretamente l’esperienza del vitale si può resistere, non rinunciando alla propria storia e al proprio passato («L’occhio si abitua alle sparizioni. / Non sarai risparmiata, né ciò che ami sarà risparmiato // Un vento è venuto e passato, smontando la mente; / ha lasciato nella sua scia una strana lucidità. // Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione / a ciò che ami; / la rinuncia alla speranza non ti ha distrutto. // Maestoso, doloroso: // Questa è la luce dell’autunno; si è volta su di noi. / Di certo è un privilegio avvicinarsi alla fine / credendo ancora in qualcosa»). Averno, quindi, come ha scritto José Vicente Quirante Rives nella postfazione dell’opera, è «la metafora dell’inferno che prima o poi tutti visitiamo e da cui usciamo feriti per sempre»;  ciò che rimane, quella parte della vita si salva dalla rovina ha senso solo se ha intimamente a che fare col perduto e se può essere chiamato per nome, se può essere raccontato dalla poesia: «Sono stata giovane qui. / Prendevo la metropolitana col mio libretto / come per difendermi contro / questo stesso mondo /  non sei sola / diceva la poesia / nel buio del tunnel».

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