Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

arminuta

Tra nobile intrattenimento e patto di sorellanza: L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio

 Affacciandosi dalle “soglie” a  L’arminuta di Donatella di Pietrantonio – opera vincitrice della 55° edizione del Premio Campiello – colpiscono alcuni elementi paratestuali che il romanzo sembra avere in comune con L’accabadora (2009) di Michela Murgia, che si è aggiudicata lo stesso premio qualche anno fa: dall’immagine di un’adolescente in copertina, caratterizzata da un forte chiaroscuro al titolo dialettale, volto a prefigurare l’immersione in luoghi antropologicamente connotati da usanze ormai desuete. Se l’«accabbadora è colei che finisce», ossia la donna che pietosamente dona la dolce morte, «l’arminuta» è «la ritornata», la ragazzina restituita alla famiglia biologica dopo l’affido. Nell’uno e nell’altro caso risultano centrali l’ambientazione in zone remote della penisola e il racconto della prassi, un tempo assai radicata nelle famiglie numerose, di cedere ad altri i figli che altrimenti sarebbero cresciuti in condizioni di indigenza.

La recente vittoria de L’arminuta, che ricorda anche nei numeri quella della Murgia (la giuria popolare dei trecento lettori anonimi  – la cui composizione cambia ogni anno – ha assegnato 119 voti a L’Accabadora nel 2010 e 133 voti a L’arminuta nel 2017), ci induce a interrogarci sulla fortuna di queste narrazioni che Simonetti non esiterebbe a definire «di nobile intrattenimento» e nelle quali elementi di «impegno civile e citazioni colte» convivono con «forme di intrattenimento mediocre, più imperialistiche e più easy» (G. Simonetti, La letteratura circostante in http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-07-30/la-letteratura-circostante-081336.shtml?uuid=AEIvqF6B). Sono queste, infatti, a garantire al lettore l’evasione in un mondo riconoscibile, “esotico” nel suo regionalismo (l’Abruzzo per Di Pietrantonio; la Sardegna per Murgia) ma rassicurante e che si tiene lontano da quel “ritorno al reale” che ha caratterizzato tanta parte della narrativa degli ultimi anni.

Rispetto a queste scritture, che hanno privilegiato la non fiction, infatti, L’arminuta ripropone un romanzo tout court, compatto e tradizionale nella costruzione del plot, costellato di personaggi ben caratterizzati e piuttosto convenzionali nei loro ruoli (esemplare quello della Professoressa Perilli, “guida” verso un’acculturazione vista come garanzia di elevazione sociale). Raccontata da un io narrante ormai adulto, la vicenda appare come un Bildungsroman condotto all’insegna di una dolorosa quête: la protagonista non smetterà, infatti, di indagare la ragione per cui è stata repentinamente restituita alla famiglia biologica. Lasciata la cittadina costiera, dove i recenti palazzi e le case di vacanze denotano la progressiva trasformazione dell’Italia del boom, l’Arminuta dovrà adattarsi al trasferimento tra le aspre montagne abruzzesi, in un paese dai connotati decisamente premoderni, in una famiglia povera e poco incline alle manifestazioni d’affetto. Gli interrogativi della giovane ruotano in particolare intorno alla figura materna e giustificano l’abbandono subìto  solo in virtù della morte o di una malattia della donna:

         Doveva essere morta davvero, come nel mio sogno, come i suoi tulipani, altrimenti non avrebbe abbandonato la casa. Ma era stata lei a mandarmi al paese il letto a castello con tutto il resto, e l’altra madre aveva raccontato che si erano parlate al telefono. Allora perché non parlava anche con me? Dov’era? Magari non voleva impressionarmi con una voce malata, da un ospedale lontano. (p. 47)

Il dipanarsi del plot tiene avvinto il lettore grazie a dispositivi narrativi ben oliati e talvolta vicini a quelli seriali del feuilleton mentre la scorrevolezza della lettura è garantita da una lingua non priva di accensioni espressive e di qualche sprezzatura dialettale.

Sarebbe, tuttavia, riduttivo ricondurre il romanzo della Di Pietrantonio unicamente a formule editoriali del marchio “realismo magico più mondo arcaico” – presente in Abate (Supercampiello nel 2012 con La collina del vento), in Fois (si pensi in particolare a Stirpe del 2009) e nella già citata Murgia –  e che per il pubblico medio è uno degli ingredienti che “fanno romanzo”. Elemento più originale risulta, piuttosto, la trama di relazioni umane, in particolare quella tra donne, amplificata da coppie di personaggi quali le madri e le sorelle e il cui perno è costituito proprio dall’arminuta; il richiamo all’esplorazione del mondo emozionale della protagonista è preannunciato dalla citazione di Morante in esergo, tratta da Menzogna e sortilegio:

Ancora oggi, in certo modo, io sono rimasta ferma a quella fanciullesca estate: intorno a cui la mia anima ha continuato a girare e a battere senza tregua, come un insetto intorno a una lampada accecante.

L’autrice riprende il tema della maternità, come era già accaduto nelle sue precedenti opere: Mia madre è un fiume (2011) e Bella mia (2014). In particolare ne L’Arminuta le madri sono diversamente assenti nella vita della protagonista, la cui anima «ha continuato a girare e a battere senza tregua», spiazzata nel momento cruciale dell’adolescenza: «Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza». Nel corso della storia,  in modo inaspettato ma persuasivo, Di Pietrantonio ribalta il rapporto di forza che inizialmente istituisce tra le due: la madre adottiva – generosa, moderna, idealizzata dalla ragazzina – trova una dura smitizzazione proprio nel momento in cui si profila un riavvicinamento; viceversa la madre brusca e all’antica, piegata dalla fatica e dal lutto viene riscattata da un’unica carezza che la donna riesce a posare sulla schiena della figlia, studentessa-modello:

Al momento di entrare nell’aula dove sarebbe avvenuta la consegna dei diplomi, avevo sentito la mano di mia madre attraversarmi la schiena e fermarsi decisa sulla scapola. Avevo incassato la testa tra le spalle, come un cane pauroso e compiaciuto della prima carezza dopo un lungo abbandono.  (p.117)

Ma il rapporto più ricco e riuscito, come ha rilevato anche Massimo Recalcati  – testimonial del romanzo durante la serata finale del Campiello –  è quello tra sorelle costruito passo dopo passo nel corso della loro storia. Adriana e l’Arminuta sono lontane come il sole e la notte quando si conoscono, eppure il loro rapporto permette la reciproca resistenza in un mondo ancora primitivo e ostile, dominato da povertà e ignoranza. Le due imparano a condividere materassi sporchi, a conoscere i reciproci odori, e anche a difendersi dall’intemperanza dispettosa dei fratelli, a mantenere segreti e a tessere complicità. Le loro differenze, invece di respingerle, le completano e le fortificano: nonostante il rovescio di destino che le è capitato, l’Arminuta non rinuncerà a quella fetta di “civiltà” che la prima famiglia le ha fatto conoscere. Dal canto suo, Adriana imparerà ad accettare i ritorni della sorella nella città costiera solo a patto che il progetto di crescita della prima garantisca una prospettiva di miglioramento anche a lei. Dotata di pragmatismo e di spirito di conservazione, Adriana ha un modo di agire immediato e spontaneo. Ed è proprio questa sua innata forma di libertà interiore a far sì che resistenza e complicità cementino la loro sorellanza:

Ci siamo fermate una di fronte all’altra, così sole e vicine, io immersa fino al petto e lei al collo. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate. (p.163)

Sta in questo grumo complesso e non scontato di relazioni l’aspetto più riuscito del romanzo e l’ingrediente che convince anche il lettore “esperto” a dare credito alla voce genuina di una scrittrice che sa raccontare il mondo femminile senza semplificarlo o banalizzarlo. Che si tratti di madri o di sorelle, insomma, la scrittura di Di Pietrantonio è più vicina all’«adorazione fantastica» di Morante che all’«effetto Ferrante […] netto e studiato» suggerito  da Simonetti (G. Simonetti, Un Campiello di storie (e lettori) forti in http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-09-04/un-campiello-storie-e-lettori-forti-133429.shtml?uuid=AEbwv6LC ).

{module Articoli correlati}

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Annalisa Nacinovich, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Daniele Lo Vetere

Editore

G.B. Palumbo Editore